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Dire la differenza senza ideologie

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di Cristina Simonelli*

 

La differenza sessuale è il grande rimosso della nostra cultura, e portarla a parola è un’operazione necessaria, oggi irrinunciabile anche per la teologia. «Si tratta, in verità, nell’odierno passaggio d’epoca, di un argomento sistemico. In altri termini, il tema impone ormai una riconfigurazione della questione antropologica in quanto tale, e dunque un crocevia per le sorti dell’umanesimo prossimo venturo» (P. Sequeri); un tema quanto mai attuale avviandosi a riflettere su «In Gesù Cristo, il nuovo umanesimo» nel V Convegno nazionale della Chiesa italiana a Firenze, nel novembre 2015.

Il discorso sulla differenza sessuale, forse soprattutto nella Chiesa, presenta un terreno irto di potenzialità e fraintendimenti, che si presta al rischio di arenarsi nelle opposte secche da un lato delle forzature ideologiche, dall’altro della resistenza e del rifugio nell’ordine simbolico tradizionale. Il tentativo qui è di dare una lettura d’insieme di quanto si muove in questo ambito, individuando un possibile cantiere di lavoro.

Fare il punto su donne e teologia significa entrare in un dibattito che per alcune/i è urgente, per altri superato, per molti equivoco. Si pone tra l’altro su piani diversi: da una parte riguarda la teologia elaborata da donne, rispetto alla quale ci si chiede prima di tutto se esista, poi se se ne possano individuare caratteristiche peculiari, infine addirittura se sia opportuno ricercarle. D’altra parte questo porta con sé inevitabilmente l’interrogativo sul contributo della teologia nel discorso sull’essere uomini e donne nelle Chiese e nel mondo, e in dialogo con quali saperi e paradigmi di pensiero.

Queste note provano a entrare in questo orizzonte, condividendo la convinzione che la differenza sessuale sia il grande rimosso della nostra come di molte altre culture, e che dunque portarla a parola sia operazione necessaria, oggi irrinunciabile anche per la teologia.

La questione femminile in teologia, se così si può dire, nasce in dialogo con i femminismi, che rappresentano un orizzonte magmatico e plurale, costantemente alla prova dei conflitti generazionali e delle proprie evoluzioni interne: spesso archiviati dalle generazioni più giovani come cosa sorpassata, e in ogni caso quasi sempre aborriti nel più largo contesto cattolico. Questo ultimo aspetto è così pervasivo e aggressivo da spingere molte volte le stesse teologhe, anche quelle che mostrano gratitudine nei confronti dei femminismi, a circonlocuzioni varie che evitano termini rischiosi ripiegando su alternative più neutre come «donne» o «femminile».

Alla prospettiva scientifica si unisce poi una sempre più insistente domanda pratica, sorta da molti anni negli ambienti ecclesiali, con toni a volte romantici, altre volte polemici, spesso utilmente curiosi: dai più svariati convegni alle capillari iniziative parrocchiali si chiede una parola di donna. Oltre a uno spirito dei tempi su questa richiesta influiscono gli interventi magisteriali, il cui avvio ormai remoto si può porre nella Pacem in terris, e che hanno poi assunto una fisionomia peculiare durante il pontificato di Giovanni Paolo II.

La questione ha avuto però un’impennata a partire dalle dimissioni di Benedetto XVI, che hanno dato avvio a dibattiti, interviste, iniziative a tutti i livelli, come se l’interruzione avesse liberato domande sopite eppure presenti. Infine è ora papa Francesco a muovere e promuovere il dibattito, con le sue parole che sono insieme apertamente innovatrici e affabilmente conservatrici: vanno infatti dal segnalare la necessità di una presenza più autorevole delle donne, coinvolgendole anche in posti di responsabilità ecclesiastica – cosa di cui peraltro si vedono i primi effetti1 – all’invito a elaborare una «teologia della donna» che, così espressa, appare molto distante dall’orizzonte di molte teologhe. Il tutto accompagnato da una posizione apparentemente senza appello rispetto al dibattito sull’ordinazione presbiterale femminile nella Chiesa cattolica. Pur non essendo quest’ultimo il terreno di confronto più acceso, ha una rilevanza non piccola, anche ecumenica: basti pensare all’accorato appello dell’arcivescovo di Canterbury, il primate anglicano Justin Welby, che dopo la decisione della Chiesa d’Inghilterra di ammettere le donne all’episcopato ha scritto al papa: «Santità, questo non ci divida».

I luoghi della memoria…

L’espressione «teologa», ancora di più forse del corrispondente maschile, vive un’ambivalenza di fondo: viene utilizzata per tutte coloro che si occupano di teologia e non solo per coloro che fanno ricerca e pubblicano. Il Coordinamento teologhe italiane vive consapevolmente questo uso molto largo, e la cosa non ha mancato di suscitare apprezzamenti ironici: non si vogliono tuttavia millantare crediti inesistenti, ma piuttosto mostrare la stima per la riflessione di base e il mondo delle pratiche. Fatta questa debita precisazione, si deve contemporaneamente affermare che esiste una produzione teologica di tutto rispetto, che tuttavia viene spesso semplicemente ignorata: perché questo accada è parte stessa della domanda generale. Il fenomeno si manifesta in molti modi: dall’esistenza di bibliografie femminili che faticano a entrare a pieno diritto negli apparati critici dei teologi, fino a espressioni perfettamente rappresentative del problema, come quelle di uno che ha potuto impunemente (o quasi..) affermare: «Quando una donna scriverà qualcosa che valga la pena leggere, la citerò».

In questi ultimi anni sono stati pubblicati diversi contributi con l’ambizione di recensire questa produzione teologica,2 che è varia e di diverso impegno accademico. Ne percorriamo qui dunque solo i tratti caratterizzanti, presentando alcuni risultati ma anche problematizzando alcune questioni, come per esempio quale grado di consapevolezza di voler uscire dalla neutralità sia necessario per poter essere considerati parte di questo orizzonte. Il concilio Vaticano II rappresenta uno spartiacque anche per questo, sia per le pubblicazioni che l’hanno accompagnato e seguito, sia per la presenza di 23 uditrici nelle ultime sessioni: questa presenza non è forse in sé grande cosa, se paragonata all’assise conciliare, ma ha un’importante valenza simbolica (cf. quanto scrive Marinella Perroni in questo numero a p. 54). È inoltre estremamente significativo che tale presenza sia stata riportata alla memoria soprattutto a opera di teologhe che hanno parlato, scritto, organizzato convegni: infatti gli esperti del settore affermano di esserne stati a conoscenza, ma il dato non era parso degno di menzione e non era apparso nelle ricostruzioni dell’evento conciliare e del suo messaggio.

Si può ben affermare con Serena Noceti, poi, che la teologia delle donne è un caso tipico della ricezione conciliare.3 La visione inclusiva che ha accompagnato il Vaticano II, per quanto riguarda sia l’appartenenza ecclesiale sulla base del battesimo sia la stima per la dimensione storica ed ermeneutica della teologia, è il luogo che ha autorizzato, nel senso più importante del termine, la riflessione teologica anche delle donne. Non è superfluo del resto ricordare che lo studio della teologia nei contesti accademici era preclusa alle studentesse: Maria Luisa Rigato è stata la prima donna iscritta al Pontificio istituto biblico, all’indomani della conclusione del Concilio. Fino ad allora ogni donna che avesse studiato teologia l’aveva fatto in qualche modo da autodidatta. Questa esclusione è ora quasi un ricordo: infatti negli Istituti di scienze religiose è femminile la maggior parte degli iscritti e nelle Facoltà teologiche vi è un certo numero di studentesse. Resta, ancora nel 2015, una strana proibizione: le donne non possono frequentare i contesti formativi e accademici che sono in maniera specifica «seminari»: questo regolamento, oltre a procurare disagio alle eventuali candidate, che devono spostarsi fino alle sedi delle Facoltà, ha il sicuro effetto di soffocare l’offerta teologica nei piccoli seminari, sempre più ridotti di numero e costretti a una formazione omogenea, che non corrisponde certo alla mobile situazione pastorale, in cui la realtà è mista ma a larga, anzi enorme, maggioranza femminile. Se ne parla spesso e da tempo come di una cosa che sta per essere archiviata, ma per ora non se ne vede la fine: magari potrà entrare nell’agenda delle riforme, quelle piccole ma pur sempre utili.

Certamente le studentesse delle Facoltà teologiche sono spesso molto motivate e dunque anche impegnate. E questo non stupisce, perché per i laici gli sbocchi professionali in area teologica sono così rari e precari che lo studio della teologia appare soprattutto oggetto di passione e dedizione, che non tutti però possono permettersi. Un importante punto di vista è rappresentato dalla ricerca sociologica realizzata da Carmelina Chiara Canta, Le pietre scartate, che prende in considerazione con una ricerca quantitativa il rapporto tra formazione e valorizzazione professionale delle donne con titoli teologici (cf. Regno-att. 16,2014,581s).4

…e quelli della presenza

Se è importante la presenza nelle istituzioni accademiche – ecclesiastiche e statali – e nella produzione scientifica, non possiamo dimenticare che la riflessione delle donne assume i luoghi dell’esperienza e delle pratiche come luoghi teologici (cf. l’intervento di Stella Morra, qui a fianco). Nelle Chiese di area protestante lo studio e l’insegnamento della teologia sono connessi anche con l’esercizio del ministero pastorale, mentre nella Chiesa cattolica l’impegno pastorale va da una presenza pervasiva nella catechesi e nel volontariato alla militanza in associazioni di vario genere. L’associazionismo cattolico, importante contesto preconciliare, ha continuato ad accompagnare la riflessione teologica delle donne anche in seguito: Ivana Ceresa (1942-2009) e Maria Teresa Garutti Bellenzier (1928-2008) sono accomunate da una recente monografia come testimoni di un mondo di pratiche significative, critiche e spirituali.5

Molte donne cattoliche poi prestano la loro opera nell’insegnamento della religione cattolica (IRC): la questione, legata al regime concordatario italiano, si inserisce in un dibattito aperto e suscita anche proposte alternative, quali quella di Biblia. Un’associazione interdisciplinare ed ecumenica come il Coordinamento teologhe italiane (CTI), dunque, s’inserisce all’incrocio di queste realtà: una rete di supporto che si offre come interfaccia di pratiche diversificate, dalla ricerca alla docenza teologica alla presenza nei molti mondi ecclesiali e fuori di essi nella pubblica agorà,6 senza avere per questo la pretesa di rappresentare tutte le teologhe d’Italia.

Quanto alla produzione scientifica, le aree disciplinari che hanno più tradizione e che per questo motivo vantano anche il maggior numero di pubblicazioni sono quelle dell’esegesi biblica e della ricerca storica. Per l’aspetto biblico si può contare su puntuali ricostruzioni di Marinella Perroni,7 che hanno il pregio di non limitarsi a recensire i titoli, ma di analizzare i presupposti e le chiavi ermeneutiche. Il già citato contributo del Coordinamento così presentava la questione: «L’esegesi è forse il contesto scientifico in cui da più tempo e con più risorse si sono impegnate le studiose di teologia di tutti i continenti e di tutte le Chiese. L’interpretazione critica delle Scritture è considerata, specialmente a partire dall’epoca moderna e sulla spinta della Riforma protestante, questione sempre aperta. Dato che rimanda, oltre che alla pertinenza delle finalità e alla qualità delle metodiche interpretative, al diritto e, soprattutto, all’autorevolezza dei soggetti interpretanti, l’esegesi biblica ha inevitabilmente rappresentato uno dei momenti cruciali in vista del riconoscimento della soggettualità femminile (negata o esercitata, a seconda dei casi) come elemento strutturale della genesi e dello sviluppo della tradizione ebraico-cristiana».8

In questo ambito continuano a esercitarsi sia la ricerca accademica sia il contesto delle pratiche: esempio ne sia l’agile pubblicazione Corpo a corpo,9 che presenta una riflessione fra esegete ed esegeti sulle impostazioni ermeneutiche e alcuni esempi di letture bibliche, di diverso taglio e rilievo.

Anche a questo libretto si possono applicare le seguenti considerazioni: «Si deve recensire una lettura topica, spesso connotata come femminile e/o al femminile, che mira al riconoscimento del ruolo delle donne: in particolare, nel caso di studi sul Nuovo Testamento, il riconoscimento del ruolo comprimario delle prime cristiane nel cristianesimo delle origini ha avuto anche una funzione attualizzante in prospettiva ecclesiale. Nel contempo è arrivata a una configurazione metodologica propria e pretende legittimità epistemologica la proposta di un’ermeneutica femminista. Intorno agli anni Ottanta del secolo scorso tale paradigma esegetico – pur con notevoli differenze al suo interno, in modo non dissimile dagli altri ambiti scientifici – si caratterizza, per le studiose che non intendono abbandonare la tradizione ebraico-cristiana, come opzione ermeneutica in relazione alle domande poste al testo da soggettualità in precedenza negate10 e come indagine storico-critica sui testi anche in direzione storico-sociale. Se in qualche caso queste letture sembrano limitarsi alla ricerca di un sommerso femminile o di paradigmi profetico-liberazionisti, realizzando quasi un “canone nel canone” (Russel), nelle migliori realizzazioni (Schüssler Fiorenza) esse indagano l’interezza della Scrittura nella sua dimensione androcentrica e patriarcale, collegandola al contesto extra-canonico e imponendo un ripensamento forte riguardo al modo in cui va inteso il suo valore normativo. Si configura cioè un paradigma critico che intercetta tutte le grandi questioni esegetiche del Novecento, anche quelle ancora aperte, come la relazione fra metodo storico-critico e altri metodi, e anche quelle non sciolte rispetto alla recezione di Dei Verbum,11 quali il rapporto fra Scrittura e Tradizione, la formazione del canone, la scrittura ebraica e il canone cristiano, l’ispirazione».12

I livelli dell’esclusione

Per quanto riguarda la storia del cristianesimo, vale quanto affermato da Adriana Valerio: si deve rintracciare la subordinazione e l’esclusione, ma anche la presenza.13 L’esclusione infatti è spesso a livello dei testi, in cui le donne compaiono a tratti, quasi fossero un fiume carsico che ogni tanto affiora; è a livello della stereotipia che le accompagna, dalla donna «porta degli inferi» (Tertulliano, L’eleganza delle donne) alla debolezza morale e intellettuale loro attribuita come nell’idea che ognuno può generare se stesso come maschio o come femmina, a seconda che scelga la virtù o il vizio (Gregorio di Nissa, Vita di Mosè), ma anche all’idealizzazione estrema, che possiamo chiamare, con Cettina Militello che riprende Betty Friedan, «mistica della femminilità».

Molte volte, tuttavia, l’esclusione è a livello del lettore: studiosi, scrittori, docenti omettono i testi di mano femminile e/o che riguardano le donne, venendo così a negare memoria a una presenza testimoniata in maniera più forte di quanto si sarebbe disposti a credere. Così spesso non viene presentata la Passione di Perpetua parlando del martirio, non l’Itinerario di Egeria per parlare del catecumenato nel IV secolo, non il Centone di Proba per la poesia cristiana. Sono stati conservati inoltre epistolari maschili con risposte a donne: abbiamo raramente lettere di mano femminile, ma le risposte sono molto più fededegne delle bio/agiografie che le riguardano, che seguono modelli fissi. Altre lettere a firma doppia, come quelle di Salviano di Marsiglia e della moglie Palladia o di Paolino di Nola e Terasia, vengono attribuite, a prescindere, alla mano di lui.

Questi sono dati macroscopici: se vengono trascurati si dovrà ragionare attorno alle resistenze e alle precomprensioni che impediscono di vedere quanto chiaramente affermato (cf. il contributo di Lucia Vantini, sotto). Si può e – ritengo – si deve anche procedere oltre, e questo non solo per quanto riguarda le donne, ma anche per altri soggetti, ad esempio per la presenza di schiavi di padroni cristiani o per le opinioni di chi è stato dichiarato «eretico», ogniqualvolta insomma si dia un’evidente asimmetria: in questo caso anche semplici indizi nelle fonti vanno valutati attentamente. Questo modello di inventio si potrebbe indicare, con Annarosa Buttarelli in dialogo con Zambrano e Loraux, attraverso il plesso «indizi, interstizi, immaginazione».14

Dal simbolico al semiotico

La ricerca propriamente teologica, nelle diverse formalità che la contraddistinguono, va individuata in primo luogo negli interventi che portano teologhe di varia formazione a rispondere a inviti provenienti da tutto il territorio italiano. Ne nascono schemi e video, articoli e a volte capitoli di volumi o attenzioni sviluppate nel corso di studi generali. Questo si può osservare ad esempio nell’ecclesiologia, che vede impegnate diverse donne anche in Italia, a livello sia di docenza sia di produzione scientifica.15 Anche le altre discipline teologiche vedono una produzione significativa, ma ci soffermiamo qui sul caso emblematico del discorso «de Deo». Infatti, si potrebbe dire, non esiste teologa che non affronti in forma problematizzante (ma questo si potrebbe dire anche di molti teologi, riteniamo) il discorso su «un Altro o un’Altra che per brevità chiameremo Dio» (Luisa Muraro), come minimo denunciandone l’indebita maschilizzazione, almeno a livello di immaginario, di iconografia – si pensi al modulo iconografico del «Trono di grazia», cui si ispira anche la Trinità di Masaccio –, di catechesi.

Le pubblicazioni italiane, anche in questo caso più spesso articoli che monografie, non rendono forse ragione della continuità e della trasversalità dell’impresa. Si tratta infatti di discutere il significato dell’Origine e dunque della paternità di Dio, rifuggendo tuttavia da ingenuità e semplificazioni rispetto a quello che è «il caso serio del pensiero umano».16 Un caso particolare, per il contenuto preciso e il linguaggio efficace ma anche per l’accoglienza ricevuta e per la molteplicità di eventi cui ha dato vita, è Mamma, perché Dio è maschio? di Rita Torti,17 che a partire da un convegno dell’Ufficio scuola della diocesi di Parma sulla dualità maschile/femminile, presenta non soltanto il materiale didattico e gli elaborati di bambini della scuola primaria, ma anche un’interessante interlocuzione con la didattica della religione e infine con la pastorale e la teologia.

Elisabeth Green, poi, ne Il Dio sconfinato18 dialoga con la produzione di Marcella Althaus-Reid, oggi tradotta anche in italiano (cf. l’intervento di Letizia Tomassone, in questo numero a p. 61): Dio è l’abbà legato alla concreta manifestazione di Gesù di Nazaret, crocifisso fuori delle mura; continuamente attraversando confini ne denuncia la arbitrarietà, travolgendo l’immaginario del Regno come impero di un padre-padrone.

Nonostante l’impegno profuso si ha comunque molte volte l’impressione di dover iniziare sempre daccapo, come se quanto elaborato e diffuso non riuscisse a scalfire una visione androcentrica, in fondo incapace di far funzionare analogie e metafore proprio in un orizzonte che le richiede e da sempre le utilizza. In un recente studio su Julia Kristeva, e dunque utilizzando la sua distinzione tra semiotico e simbolico, Lucia Vantini suggerisce: «Per un linguaggio inclusivo su Dio non basta un cambiamento simbolico, ma occorre un’articolazione effettiva dell’eterogeneità arcaica che giace sul fondo delle rappresentazioni. Senza toccare le radici profonde delle parole, qualunque lavoro sul linguaggio otterrà al massimo un formale conflitto tra interpretazioni frontali, ma il lato sommerso che nutre i simboli continuerà a essere pensato sempre nello stesso modo, come un materno arcaico che non deve interferire con la Legge. Per questo necessario vincolo con il semiotico, quindi, l’ordine simbolico della teologia non può avanzare pretese di completezza, ma va necessariamente relativizzato. In una versione assolutamente letterale, infatti, il linguaggio teologico non solo perde la trascendenza che mira a significare, ma anche si arresta in una monologia chiusa per i soggetti non direttamente previsti dal sistema, come le donne».19

Mi sembra particolarmente importante questa osservazione per almeno due motivi: in primo luogo perché fornisce delle chiavi di interpretazione della difficoltà che provano molte teologhe nel far comprendere il proprio punto di vista, invitando a un lavoro più profondo, che non proceda unicamente per accumulazione di testi e soprattutto di interventi. In secondo luogo perché, entrando in questa forma nel dibattito sul contributo psicanalitico alla teologia, mostra come l’uso acritico e pre/analogico che spesso ne viene fatto non sia all’altezza non solo del caso in sé, ma neanche della tradizione teologica.20

Gender e dintorni

Come si accennava sopra, inoltre, nel recensire questa produzione si presenta una domanda cruciale: quali contributi recensire, sulla base di quali coordinate. Certo non è sufficiente che l’autrice sia una donna, ma non è neanche necessario che l’intera monografia sia in relazione, nel titolo e nella prospettiva, con «donna» o femminile»: quanto piuttosto che almeno s’interroghi con consapevolezza di «differenza/genere». Che cosa può significare questa versione concordistica tra «differenza» e «genere», al limite del qualunquismo, con tanto di barra diagonale a contrassegnarla graficamente? Che è a questo livello che si gioca una delle questioni più importanti, quella che chiede di confrontarsi con le categorie in uso, rispetto alle quali ritengo importante dar vita a forme discontinue, forse anche ossimoriche, per dar a pensare, per evitare l’ovvietà apparente che in questo caso è particolarmente dannosa, perché le parole portano con sé precomprensioni, ambiguità, aporie. Non credo che le Chiese debbano dar vita a categorie loro proprie, tanto meno in un contesto in cui, pur avendo da sempre battezzato anche le donne (!), c’è stato particolare bisogno dell’input proveniente dall’esterno. Si tratta di un orizzonte quanto mai complesso, già di per sé, reso inoltre di difficile trattazione per il campo polemico che si è creato attorno a queste categorie, soprattutto in ambito ecclesiastico.

Pare che oggi come oggi, infatti, tutto il dibattito sia polarizzato attorno a «ideologie del gender»: anche l’Instrumentum laboris per il Sinodo straordinario su «Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione», che ha recepito dalla consultazione di base elementi di novità, parla con attenzione di molte questioni, tra cui la violenza sulle donne (n. 66; cf. n. 75 sulle violenze compiute da parte di ecclesiastici; in Supplemento Regno-doc. 13,2014,456.457), prima assolutamente sottotraccia nei documenti cattolici, ma riserva genere – nella forma appunto di «ideologia del gender» – alle questioni controverse, quali l’amore fra persone dello stesso sesso (nn. 110-120) e, ancora (nonostante tutte le osservazioni ricevute!), la contraccezione (nn. 121-126).

La terminologia fa riferimento a un sistema binario di origine anglosassone, il sex/gender system, che a partire dagli anni Settanta sviluppa il paradigma di lotta alla discriminazione (uguaglianza) individuando nel termine gender la dimensione storica e culturale con cui viene vissuta la rispettiva realtà biologica. Nel tempo ha subito varie trasformazioni, facendo in alcuni esponenti prevalere radicalmente la costruzione del gender sulla base biologica (sex), e sostenendo che il sistema è talmente forte e pervasivo da poter orientare anche il dato fisico, fino a determinare il desiderio in forma vincolante eterosessuale.

In modo simile a quanto avvenuto in ambito francese alcuni anni fa, il caso è stato lanciato al parossismo dalla comparsa del sussidio dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (UNAR) per le scuole (Educare alla diversità, 2013) – per gli insegnanti, prima di tutto – e dalla proposta di legge contro l’omofobia, cui ha risposto una campagna di opposizione politica a sfondo ecclesiastico che ha permeato di sé l’orizzonte: sotto gli occhi allibiti di tante e tanti che utilizzavano da decenni «genere» per indicare che si diventa sé stessi in forma ermeneutica, storica e culturale, e che non erano preparati al genere letterario della anatematizzazione ecclesiastica – vero e proprio modello, con una lunga storia di condanne e pentimenti –. Ne può essere testimonianza la reazione perplessa con la cui la Società italiana delle storiche ha risposto a questo crescendo di polemiche: «Non esiste, infatti, una “teoria del gender”. Con questa categoria, usata in modo fecondo in tutta una serie di discipline che ormai costituiscono l’ambito dei gender studies, non s’introduce tanto una teoria, una visione dell’essere uomo e dell’essere donna, quanto piuttosto uno strumento concettuale per poter pensare e analizzare le realtà storico-sociali delle relazioni tra i sessi in tutta la loro complessità e articolazione: senza comportare una determinata, particolare definizione della differenza tra i sessi, la categoria consente di capire come non ci sia stato e non ci sia un solo modo di essere uomini e donne, ma una molteplicità di identità e di esperienze, varie nel tempo e nello spazio».21

Ideologia e forzature

Al polo opposto si trovano prese di posizione molto polemiche,22 che non lasciano varco neanche a precisazioni sulle modalità in cui viene utilizzata la prospettiva di genere – ad esempio la stessa produzione del CTI – o a riflessioni sul modo di uscire dall’impasse, come nella proposta di Guenzi e di Piana: «Lo scontro non è tuttavia necessariamente inevitabile. Sesso e genere (gender) non sono realtà alternative; sono dati che possono (e devono) reciprocamente integrarsi. Il che esige che si faccia spazio a una visione dell’umano più attenta alla complessità e alla globalità; a una visione, in altri termini, che faccia interagire costantemente tra loro natura e cultura. Il rapporto tra queste due ultime grandezze o, più precisamente, l’equilibrio tra di esse, è dunque la vera soluzione del problema. Non si tratta di optare per l’una rinunciando all’altra, ma di ridefinire i livelli sui quali vanno rispettivamente ricondotti il dato naturale e i dati di ordine sociale e culturale».23

La posizione cangiante e magmatica delle proposte gender-orientate non semplifica certo il compito. In particolare in tempi recenti si è assistito anche a un frazionamento della categoria, che fa corrispondere a singole differenze uno specifico gender, come avviene in alcuni casi nel cartello LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender), cui si aggiunge spesso «IQ» e, potenzialmente, un numero indefinito di opzioni. Così commenta Mirella Izzo in Manifesto pangender: «La forma sommatoria (L+G+B+T ed eventuali code Q e I di queer e intersessuali) di questo movimento ha raggiunto il massimo delle sue potenzialità, spesso attraverso forzature non realistiche».24 In questo modo si produce tra l’altro una dialettica molto particolare con gli alleati storici del gender, che sono le (plurali) visioni femministe, che si trovano a oscillare tra il sostegno alla forma radicalmente inclusiva e trasversalmente sovversiva di modelli patriarcali e il disagio per essere condotte, forse oltre ogni previsione, al di là di un soggetto definibile come femminile.

Il compito, che queste note non possono esaurire,25 potrebbe essere da una parte quello di analizzare caso per caso la produzione di teologhe e teologi per vedere come fanno funzionare la categoria, e dall’altra quello di lasciar tempo a una lettura non preconcetta di fenomeni volutamente trasgressivi: dalle proteste come quelle dei gruppi Femen e Pride si potrebbe cogliere un messaggio etico «perché nessuno sia escluso», più che lasciar emergere solo il fastidio per la forma irrituale con cui è offerto.

Un terreno di potenzialità e fraintendimenti

Già dalla sommaria presentazione, peraltro non nuova, si può anche capire che incertezze, contraddittorietà e timori nascano anche dallo stato dell’arte, che ha raggiunto punte molto sofisticate e nello stesso tempo in continua evoluzione, ma utilizza – e come potrebbe essere diversamente? – termini polivalenti, che vengono spesso trasportati da un sistema all’altro, cambiando quasi completamente di segno. Emblematico il caso della filosofia della differenza, tipica espressione dei femminismi europei, francese (Irigaray) e anche italiano, con l’elaborazione della Comunità filosofica Diotima (Università di Verona) e della Libreria delle donne di Milano. Si tratta di un pensiero molto sofisticato, che presenta «sia il dato biologico che l’ordine simbolico, sia la morfologia corporea che il lavoro dell’immaginario, alludendo alla loro inscindibilità»:26 non si tratta dunque di ipotizzare un femminile precostituito, ma di elaborare un pensiero almeno duale, in una situazione asimmetrica, dinamica. Tuttavia la terminologia, nonostante le precise assicurazioni fornite dalle autrici, è a rischio costante perché non raramente e soprattutto in ambito ecclesiastico viene piegata a indicare un femminile già dato: ancora una volta quello di una presunta natura.27

Molto più complesso e aporetico il rapporto con il sex/gender system, come si è appena detto. Non si tratta solo della questione, non banale peraltro in ambito ecclesiale, del campo immediato di sospetto che questo uso suscita, quanto della morfologia rigida del sistema stesso, che è evidente soprattutto nel suo uso meno recente: l’aspetto biologico/genetico distinto da quello storico e culturale rischia di riproporre un dualismo antropologico, in forma in ultima analisi cartesiana se non addirittura platonica,28 in cui la sessuazione riguarda solo la dimensione fisica. La posizione che rovescia la prospettiva, facendo prevalere il tratto ermeneutico e costruttivo su quello fisico, è meno dualista, ma non risolve la perplessità. Proprio la tanto aborrita rimozione della natura rappresenterebbe cioè, più che il tallone d’Achille del sistema, la spia della sua difficoltà: troppo rigida la forma sex/natura, al punto da risultare paradossalmente simile, in quanto reificata, su entrambi i versanti, sia quello di chi la pretende ontologica che quello di chi la ritiene ininfluente.

A questo punto il quadro è sufficientemente complesso da rappresentare una sfida degna di essere raccolta: in fondo si tratta di individuare uno spazio di laboratorio che possa evitare sia lo spirito della riserva sia un «cattivo infinito», entrambi inadeguati per una questione di questo tipo. Affrontandola non tanto fuori dallo spazio pubblico del dibattito, in solitudine aristocratica, ma tuttavia con la debita sospensione delle polemiche, ritengo ci sia spazio per rendersi conto che omettere il confronto costituirebbe un enorme danno, perché lascerebbe senza parole e senza orizzonte una questione che preme invece per essere portata a consapevolezza. In una situazione di grave analfabetismo ecclesiale, cui già mi riferivo all’inizio di queste note, e contemporaneamente di perdurante violenza sulle donne negli stessi nuclei familiari, sarebbe grave privarsi della riflessione critica sul tema. Differenza e genere rappresentano come minimo categorie analitiche, di sospetto e di trasformazione, mostrando potenzialità enormi: per le donne e per gli uomini (cf. lo spunto di S. Ciccone, qui a fianco), quale che sia il loro orientamento sessuale, per sviluppare le risorse della parzialità riconosciuta.

Antropologa inclusiva? Verso Firenze 2015

La sfida si potrebbe dunque sviluppare soprattutto sul versante antropologico, come peraltro si sostiene da più parti e già da tempo. A questo snodo epocale infatti si richiamava recentemente Sequeri: «Far valere [gli estremi] come il focus della questione femminile, tuttavia, espone anche a insidiosi dirottamenti e inconsapevoli riduzioni della più ampia e profonda questione antropologica che vi è implicata. In ogni modo, c’è quanto basta per raccomandare che il tema, anche nell’ambito della riflessione ecclesiale, non sia ridotto a una semplice questione di discernimento delle buone maniere o delle quote rosa, dei complementi sentimentali o del politically correct. Si tratta, in verità, nell’odierno passaggio d’epoca, di un argomento sistemico. In altri termini, il tema impone ormai una riconfigurazione della questione antropologica in quanto tale, e dunque, un crocevia per le sorti dell’umanesimo prossimo venturo».29

Ma la posta in gioco era lucidamente presente anche nell’intervento di Stella Morra al congresso dell’Associazione teologica italiana del 2007, il cui tema generale era appunto «L’identità e i suoi luoghi. L’esperienza cristiana nel farsi dell’umano».30 Morra segnala infatti come tale questione, di evidente rilevanza pratica ma con non ancora sufficiente elaborazione teorica, incontri alcuni scogli, che non vanno evitati, bensì affrontati: non solo dunque problemi, ma occasioni per la riflessione teologica. Tra questi punti caldi si deve ricordare l’attribuzione scontata del tema alle donne, che può però fornire risorse a un analogo pensiero maschile, e la mancanza di antiche radici di tradizione femminile, che può diventare invito a pensare diversamente. Non si tratta perciò di aggiungere semplicemente materiali, ma di cercare una generale riconfigurazione, con diversa metodologia: «C’è [anche] una differenza di metodo: questo luogo della formazione dell’identità che è l’identità sessuata si pone esattamente in quell’incrocio dell’immediatezza, tra l’immediatezza del soggetto e la mediatezza della realtà, dove si costituisce una particolare forma dell’immediatezza della coscienza comune. E questo luogo richiede strumenti e attenzioni metodologiche che sappiano articolare il sapere della realtà come si presenta con il sapere della teologia in una combinazione abbastanza inedita».31

Due le conclusioni aperte del contributo: da una parte l’idea che in un cantiere di lavori in corso sia opportuno confrontarsi con le diverse categorie offerte dai saperi non teologici, dunque con uguaglianza/differenza/genere e con le singole biografie. Questa è una pratica, come dicevo anche all’inizio, condivisa nel CTI, che non si sente vincolato a un’unica scuola, non per incertezza ma per convinzione. D’altra parte Morra tenta un’articolazione del tema a partire dalle diverse formalità – cristologia ed escatologia, teologia trinitaria, ecclesiologia –, mostrando come per l’antropologia uno dei rischi sia quello di restringere indebitamente il riferimento a una teologia dell’immagine, come se la conformazione a Cristo che con/costituisce per ognuno/a un’identità dinamica disponibile al compimento venisse, quando si parla dell’esser uomini e donne, sospesa e considerata irrilevante. In questo quadro si dovrebbe considerare anche la prospettiva pneumatologica,32 non come appendice romantica ma come parte integrante della teologia sistematica.

È interessante trovare anche una consonanza con una pensatrice come Rosi Braidotti, che nel postumano individua la necessità sia di partire da nuovi punti prospettici, sia di elaborare una visione monista, in tensione dialettica con gli spiritualismi delle vecchie antropologie ma anche con le nuove giustapposizioni del sex/gender system, in quanto rigidamente binarie. Certamente Braidotti si cautela da un troppo facile battesimo della propria visione, perché proclama che la declinazione «vitalistica del materialismo non può essere più lontana dall’affermazione cristiana della vita, dalla delega trascendentale del sistema dei valori e dei significati a entità più elevate del sé incarnato».33 Si può forse anche obiettare che alcune sue istanze sono espresse in modo eccentrico: postumano suona infatti dissacrante e disumanizzante. Ma questa eccentricità non è solo linguistica, vuole piuttosto indicare un’uscita da alcune secche, quali una visione antropocentrica medievale e moderna, ma anche i molteplici «post» che immaginano semplicemente di uscire dalla crisi proclamando post-modernità, post-umanesimo, post-gender e quant’altro. Certo non si tratta di aggregare ingenuamente all’antropologia cristiana in stato di cantiere l’ultima proposta, ma di dialogare con essa. L’antropologia che cerca un «nuovo umanesimo» in un orizzonte di complessità34 può trarre vantaggio anche dalla «caratteristica più evidente dell’attuale ridefinizione scientifica della materia, [che] è lo slittamento della differenza dagli schemi binari ai processi rizomatici; dalle opposizioni sesso/genere o natura/cultura ai processi di sessualizzazione/razzializzazione e naturalizzazione che fanno della vita in sé, o della vitalità della materia, il loro obiettivo generale».35

Mi sembra così d’interpretare anche l’invito contenuto nella Traccia per il V Convegno ecclesiale nazionale di Firenze 2015, che parla di risposta creativa e generativa «sia nella sollecita capacità di intercettare i problemi, sia nella gratuità e nella coralità con le quali li si affronta, rendendo possibile immaginare soluzioni fuori dalle piste già battute».36

Spero che l’affacciarsi di tanti temi e testi non risulti dispersivo e possa comunque permettere di intravedere l’istanza etica che attraversa non solo queste teologie dai nomi inconsueti – femministe, ecofemministe, queer –, ma anche i pensieri con cui dialogano: pensare gender/e non gender a un tempo (Butler), il postumano (Braidotti), la parzialità maschile come risorsa politica (Ciccone), tutti attraversati da passione inclusiva e dedizione politica, in una sorta di contropiede37 che non esiterei a definire profetico. La sfida è per tutti e tutte, anche per le Chiese ovviamente, quella di non permettere che la retorica delle belle affermazioni divori le pratiche di una giustizia che sia di questo mondo e che di questo mondo si prenda cura.

*Teologa, presidente dal 2013 del Coordinamento teologhe italiane (www.teologhe.org). Fondato nel 2003, il Coordinamento ha avuto come prima presidente Marinella Perroni, e ha come finalità valorizzare e promuovere gli studi di genere in ambito teologico, biblico, patristico, storico, in prospettiva ecumenica; e favorire la visibilità delle teologhe nel panorama ecclesiale e culturale italiano. Fa parte del Coordinamento associazioni teologiche italiane (CATI), alla cui guida da novembre è Giacomo Canobbio, segretario Andrea Gaino.

1 Ad esempio la nomina di Luzia Premoli come membro della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli e di Nuria Calduch e Bruna Costacurta nella Pontificia commissione biblica.

2 M. Perroni (a cura di), Non contristate lo Spirito. Prospettive di genere e teologia: qualcosa è cambiato?, Il Segno dei Gabrielli, Negarine (VR) 2007 offre una rassegna di brevi saggi tematici; Coordinamento teologhe italiane (a cura di), «Teologia e prospettive di genere», in P. Ciardella, A. Montan, Le scienze teologiche in Italia a cinquant’anni dal concilio Vaticano II, LDC, Leumann (TO) 2011, 163-191 presenta lo stato degli studi, elaborato nel contesto di un seminario CATI. In corso di stampa un numero di Vita monastica che raccoglie gli interventi presentati nella Settimana teologica di Camaldoli dello scorso agosto sul tema «Donne e uomini nella Chiesa».

3 S. Noceti, «Un caso serio della ricezione conciliare: donne e teologia», in Ricerche teologiche 12(2002) 1, 211-224.

4 C.C. Canta, Le pietre scartate. Indagine sulle teologhe in Italia, Franco Angeli, Milano 2014.

5 Cf. M.A. Grillo, L. Lugoboni, Lo straordinario dell’ordinario. Città, donne e Chiesa: la via italiana di Marisa Bellenzier e Ivana Ceresa, «Sui generis» 14, Effata, Cantalupa (TO) 2013.

6 Per lo statuto e anche l’attività dell’Associazione, si veda il sito www.teologhe.org.

7 M. Perroni, «Lettura femminile ed ermeneutica femminista del NT: status quaestionis», in Rivista biblica 41(1993), 315-339. Si vedano anche: «L’interpretazione biblica femminista tra ricerca sinottica ed ermeneutica politica», in Rivista biblica 45(1997), 439-468; «”Cent’anni di solitudine”: la lettura femminista della Scrittura», in Servitium 3(2003) 15, 607-620.

8 CTI (a cura di), «Teologia e prospettive di genere», 168-169; 172-173.

9 M. Perroni (a cura di), Corpo a corpo. Le donne e la Bibbia, Effata, Cantalupa (TO) 2015.

10 Cf. M.C. Bartolomei, «Il soggetto e la parola dell’altro. A proposito dell’interpretazione femminista della Bibbia», in Annali di storia dell’esegesi 71(1990), 323-334; Ead., «Sottrarsi o essere sottratto. Il paradigma dell’altro», in L’ombra di Dio. L’ineffabile e i suoi nomi, Cinisello Balsamo (MI) 1991, 185-210.

11 Cf. D. Scaiola, «La ricezione di Dei Verbum e la ricerca biblica», in Il Vaticano II e la sua ricezione femminile, 65-87, che invita le colleghe esegete a confrontarsi di più con questi temi, anche al di là di contenuti specificamente riguardanti «le donne».

12 CTI (a cura di), «Teologia e prospettive di genere», 172-173.

13 A. Valerio, Cristianesimo al femminile, D’Auria, Napoli 1990, 21-31. Si può vedere anche B.S. Zorzi, Al di là del «genio femminile». Donne e teologia nella storia della teologia cristiana, Carocci, Roma 2014. Interessante incrocio tra lettura biblica e storica il progetto internazionale «La Bibbia e le donne. Storia, cultura, esegesi», curato in Italia da Adriana Valerio: su 20 volumi previsti ne sono stati già pubblicati la metà.

14 A. Buttarelli, Sovrane. L’autorità femminile al governo, Il Saggiatore, Milano 2013, 60.

15 Per una recensione degli studi, cf. S. Noceti, «Pensare la Chiesa in prospettiva di genere», in Perroni (a cura di), Non contristate lo Spirito, 187-194; Ead., «La ricezione di Lumen gentium e la ricerca ecclesiologica delle donne», in C. Militello (a cura di), Il Vaticano II e la sua ricezione al femminile, EDB, Bologna 2007, 101-120. Importante in questo ambito il contributo scientifico di Cettina Militello e Serena Noceti anche e forse soprattutto nei manuali che affrontano la disciplina nel suo complesso: rispettivamente La Chiesa «il corpo crismato», EDB, Bologna 2003, e insieme a S. Dianich, Trattato sulla Chiesa, Queriniana, Brescia 2002.

16 M.C. Bartolomei, «La patrimaternità di Dio. L’antropologia teologica della paternità di Dio», in Esperienza e teologia 7(1998), 15-36; Ead., «Sottrarsi o essere sottratto. Il paradigma dell’altro»; Ead., «Introduzione» e «Quale Dio dicono le donne?», in M. Bellenzier, O. Cavallo (a cura di), Le donne dicono Dio. Quale Dio dicono le donne? E Dio dice le donne?, Paoline, Milano 1995, 9-41. Un’espressione poetica di Alda Merini può raccogliere la posta in gioco dell’ipotesi di «un Dio materno e plurimo», dove la questione, sia pure posta in forma poetica, non sta unicamente nel materno, ma anche nel plurimo. In Perroni (a cura di), Non contristate lo Spirito, M. Praturlon, «Il divino femminile: forme di apparizione e attualità di senso» (19-44) passa in rassegna il tema nelle religioni, mentre F. Brezzi, «Esuli figlie di Eva: filosofia della differenza e teologia» (45-74) rielabora il tradizionale orizzonte trinitario cristiano attraverso categorie di relazionalità. La nota monografia di E. Johnson, Colei che è. Il mistero di Dio nel discorso teologico femminista, Queriniana, Brescia 1999, rappresenta certo un punto di riferimento, anche se, al contrario dei contributi italiani, è affetta da una certa ripetitività e prolissità.

17 R. Torti, Mamma, perché Dio è maschio? Educazione e differenza di genere, Effata, Cantalupa (TO) 2013.

18 E. Green, Il Dio sconfinato. Una teologia per donne e uomini, Claudiana, Torino 2007.

19 L. Vantini, L’ateismo mistico di Julia Kristeva, Mimesis, Roma 2014, 227-228, dove si confronta con Joice A. Mercer.

20 Penso ad esempio alla disinvoltura e probabilmente alla superficialità con cui vengono fondate su Lacan affermazioni sulla struttura paterna della rivelazione cristiana.

21 Lettera inviata alla ministra Stefania Giannini, in www.teologhe.org/wp-content/uploads/2014/04/LetteraSIS_genere.pdf (accesso 16.1.2015).

22 Lungo sarebbe l’elenco. Valga per tutte L. Palazzani, Identità di genere? Dalla differenza alla in-differenza sessuale nel diritto, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2008.

23 G. Piana, Sesso e genere oltre l’alternativa, 9.7.2014, in www.viandanti.org/?p=8697 (accesso 16.1.2015). Si veda anche P. Guenzi, Sesso/genere, oltre l’alternativa, Cittadella, Assisi 2011.

24 M. Izzo, Oltre le gabbie dei generi. Il manifesto pangender, Gruppo Abele, Torino 2012, 62.

25 Per un esame un po’ più ampio mi permetto rimandare a C. Simonelli, «Teologia, differenza e gender: un dibattito aperto», in corso di stampa in Studia patavina 1(2015).

26 A. Cavarero, «Il pensiero femminista. Un approccio teoretico», in A. Cavarero, F. Restaino, Le filosofie femministe, Mondadori, Milano 2002, 78.

27 Cf. L. Vantini, «Uguaglianza, differenza e genere: paesaggi o natura morta?», in corso di stampa per Vita monastica (2015)

28 Già lo segnalava E.K. Børresen, secondo cui si raggiungerebbe addirittura una sorta di dualismo platonico: «Religion and Gender. Female and male genderedness as a main analytical category», in Ead., From Patristics to Matristics. Selected articles on gender models. Published on occasion of her 70/th anniversary 16 October 2002, Herder, Roma 2002, 3.

29 P. Sequeri, «Snodo epocale», in L’Osservatore romano «Donne Chiesa mondo», 2.1.2014.

30 S. Morra, «L’identità sessuata: volto, genere e differenza», in L’identità e i suoi luoghi. L’esperienza cristiana nel farsi dell’umano, Atti del XX Congresso nazionale ATI, Glossa, Milano 2008, 99-124.

31 Morra, «L’identità sessuata: volto, genere e differenza», 100.

32 C. Simonelli, «Vita madre dei viventi. Etica femminista: un’introduzione», in Studia patavina 61(2014) 3, 763.

33 R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, DeriveApprodi, Roma 2014, 147.

34 «Se grazie alla sua complessità (rispetto al resto dell’universo conosciuto) la biosfera tende a contrapporsi alla distruzione (all’entropia) e se grazie alla sua maggiore complessità il corpo umano porta a quelle elaborazioni mentali in cui è ancora più marcato lo sforzo di emanciparsi dalla morte, si può postulare che qualora vi sia un vita oltre la morte, essa debba venire intesa come un livello ancora più complesso del corpo: un corpo risorto, un corpo spirituale. L’emergenza e il conseguente monismo non riduzionista non possono certo dare informazioni su un’eventuale vita dopo la morte, ma forniscono un modello secondo il quale la fede in una vita dopo la morte sia da considerare non tanto come immortalità di una realtà incorporea, ma come complessità di una realtà corporea» (G. Bonaccorso, «L’epistemologia della complessità», in Rassegna di teologia 54[2013] 1, 93).

35 Braidotti, Il postumano, 104.

36 Comitato preparatorio del V Convegno ecclesiale nazionale, Traccia per il cammino, in Regno-doc. 1,2015,15. Cf. anche S. Segoloni Ruta, Tutta colpa del Vangelo. Se i cristiani si scoprono femministi, Cittadella, Assisi 2015 (di prossima pubblicazione): «Quando pensiamo la differenza fra i sessi la pensiamo ancora troppo in termini di ruoli, di compiti da svolgere, e non come una modalità di essere umani che si esplicita in ogni possibile attività. Se cominciassimo a pensare così faremmo più cose insieme, uomini e donne, e scopriremmo di lavorare meglio insieme, perché forieri di uno sguardo più completo sulla realtà e arricchiti di un’esperienza umana più ampia» (152).

37 Cf. M. Perroni (a cura di), In contropiede. Le donne rileggono la Costituzione, Ediesse 2014.

 

Fonte: Il Regno, gennaio 2015

http://www.dehoniane.it/control/ilregno/articoloRegno?idArticolo=950534

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