Umiltà e grandezza
Dio solo è santo. In modo provocatorio don Divo ripeteva spesso, intendendo le virtù morali, che Dio non ha bisogno delle nostre virtù, «non sa che farsene!» Solo le virtù teologali, fede speranza e carità, sono necessarie ed esigono un esercizio da parte dell’uomo che le accoglie come dono di Dio e le mette in pratica, mentre tutte le altre non sono che il traboccare della presenza e della santità di Dio nell’anima.
Diceva anche: «Non date la scalata al cielo», non cercate una vostra pretesa perfezione, perché Dio si trova anche nella semplicità di una vita che può sembrare povera e banale. Ma proprio per questo motivo, c’è almeno una virtù necessaria per la vita spirituale ed è l’umiltà che secondo i Padri della Chiesa, e soprattutto Agostino, non è una virtù morale ma è essenzialmente una “virtù cristiana”; dipende soltanto dalla fede, perché senza la fede non c’è la virtù dell’umiltà.
L’umiltà cristiana non è mai abiezione, non toglie mai all’uomo il senso della propria grandezza, al contrario è proprio il sentimento e il riconoscimento da parte dell’uomo di una sua grandezza, che dipende esclusivamente dalla libertà dell’amore di Dio: Dio ci ama nonostante l’abisso del nulla in cui ci troviamo.
Il cristiano vive così questa grandezza soltanto in un rapporto di dipendenza assoluta e di gratitudine somma all’Amore infinito che lo ha scelto. L’umiltà per questo motivo è una virtù eminentemente cristiana; anzi secondo sant’Agostino, è una virtù che possono avere soltanto i cristiani, perché implica il senso del nostro nulla e insieme della nostra grandezza.
L’umiltà cristiana
L’umiltà di cui parliamo è dunque umiltà cristiana, la sola che veramente ci dispone all’incontro con un Dio che è Amore. Don Divo afferma dunque che, quando ci si incammina sulla via dell’umiltà cristiana, è necessario avere anche la coscienza della nostra grande dignità. Ciascuno di noi è un valore assoluto, unico, non sostituibile da altri, proprio perché può realizzare un rapporto con Dio.
«Vorrei dire che il primo atteggiamento è quello dell’umiltà; ma se l’uomo non vive la coscienza di quello che è di fronte a Dio, vi è il pericolo di portarlo ad un’umiltà che non è cristiana. La nullificazione che l’uomo vive nei confronti di un universo che lo schiaccia, di una creazione in cui egli si sente come sommerso, può creare una certa umiltà, ma è un’umiltà che toglie anche ogni valore all’atto umano.
Che vuoi che sia tutta l’attività umana e tutta la grandezza umana che puoi vivere, se non hai prima coscienza della possibilità di un tuo emergere? Perciò dico: la prima cosa che l’uomo deve volere è la coscienza della sua dignità. L’umiltà cristiana non è questo atteggiamento per il quale l’uomo sente di non essere assolutamente più nulla e che non vale nulla il suo lavoro e la sua vita». (…)«L’uomo deve acquistare questa coscienza, invece, che vi è in lui un valore e che egli deve affermarlo, nei confronti di tutto e di tutti: di tutta la creazione, ma anche di fronte a tutti gli uomini messi insieme. Perché la persona umana è vertice: tutta l’umanità vale meno di me! Tutta insieme vale meno di me!»
«Indipendentemente da Dio, cioè dalla fede, l’uomo può avere la modestia, non l’umiltà (…). Senza Dio c’è soltanto il senso del nulla. La modestia potevano averla i pagani, quando credevano che la terra fosse al centro del mondo e gli uomini potevano valere qualche cosa nel mondo anche fisico.
Ma oggi nei confronti di questa vastità e di questa profondità abissale dei tempi, che cosa è la tua vita? Meno di un lampo! Sei totalmente perduto! (…)
Ecco l’importanza che hanno questi due atteggiamenti fondamentali. Non mai l’uno senza l’altro. Se noi avessimo soltanto il senso della nostra grandezza, questa grandezza non sarebbe vera se non fossimo umili, perché essa riposa soltanto sulla libertà dell’amore divino. Noi possiamo aver vera umiltà e vera coscienza della nostra grandezza; ma al di fuori del Cristianesimo non ci può essere né l’una né l’altra».
Umiltà, non abiezione
E ancora:
«È nella misura che noi viviamo questa grandezza che possiamo vivere l’umiltà cristiana. Questo che dico ora è importantissimo: l’umiltà cristiana suppone ed esige la consapevolezza della nostra grandezza, perché altrimenti è soltanto abiezione e non si può parlare di umiltà, ma si deve parlare di nullificazione dell’uomo. (…)
Non avendo nessun valore il suo atto, non avendo nessun valore la sua vita, non avendo nessun valore egli stesso, può fare quello che vuole. Se sono nulla e se la mia vita è nulla, che senso ha impegnarmi nelle virtù? Che senso ha il cercare di vivere un qualsiasi impegno? La mia vita non ha più nessun valore (…) (l’uomo) vive quello che vive… Se anche rispetta una certa morale, lo fa non per il suo valore intrinseco, ma perché gli fa comodo, perché vive in un mondo che punisce con le sue leggi l’immoralità.
Cioè la morale è finita; esiste soltanto un costume. Non mi si parli dell’umiltà prima di parlare della grandezza della nostra dignità; non mi si parli dell’umiltà prima della coscienza di quello che noi siamo di fronte a Dio; perché è soltanto di fronte a Dio che io realizzo, nel valore assoluto della mia persona, il valore assoluto della mia vita… Allora io posso essere umile, perché questa grandezza rimane tutta un dono che Egli mi fa.
Io ho certo un senso della mia grandezza, ma sento che questa mia grandezza a me vien data liberamente, gratuitamente da Dio. È il fatto che tutta la mia grandezza rimane un dono, che mi fa essere umile; non si fonda in me stesso la mia grandezza; trova anzi nell’amore gratuito di Dio il suo fondamento.
Per questo l’anima rimane umile. Umile, ma non nell’abiezione; umile, ma nella consapevolezza del suo valore. Umiltà e consapevolezza del proprio valore non sono due atteggiamenti che si oppongono l’uno all’altro.
Il sentimento della tua povertà, della tua indigenza, del tuo nulla, non ti nega di essere chiamato; anzi esige da te che tu viva questa grandezza; ma la vivrai soltanto nella misura che sentirai che questa costruzione poggia solo sulla gratuità dell’amore divino, poggia soltanto sul sentimento che Dio ti dona questa grandezza. La verità è che ognuno di noi, pur essendo nulla, è amato da Dio, ed ecco che la tua vita diviene una risposta a quest’amore infinito.»
L’umiltà e l’Io
Don Divo ci offre poi una bella definizione dell’umiltà:
«L’umiltà è l’incarnazione stessa dell’amore. Per una creatura non vi è altra possibilità di amare: non soltanto deve preferire Dio a sé, ma siccome Dio è Dio, deve preferirlo in tal modo a sé, che tutto e anche ella stessa scompaia, perché Egli sia riconosciuto come Dio… Non rimaniamo in noi stessi… Dio solo deve essere in noi. Questo è il carattere proprio dell’umiltà monastica: umiltà frutto di adorazione, umiltà che implica l’oblio di sé».
E riguardo al nostro cammino di monaci:
«Il monaco o è testimone di Dio o non è nulla… Il monachesimo, non ponendosi altro fine che quello della gloria divina, di per sé ci impegna ad una vita di umiltà, perché ci impegna a vivere una vita che sul piano naturale è inutile, vuota… Solo la perfetta umiltà è pura trasparenza, solo la perfetta umiltà rivela un Altro, il Signore… In noi gli altri non devono vedere più nulla: solo la luce, Dio solo».
Dicevamo all’inizio che bisogna fare spazio a Dio, che solo è Santo, piuttosto che sforzarsi di raggiungerlo. In questa prospettiva Il padre ci invita addirittura ad essere «insaziabili nella volontà dell’umiltà».
Fintanto che siamo in certo senso pieni di noi stessi, fare spazio a Dio non è possibile perché «la coscienza che abbiamo di noi stessi limita per noi il senso della divina immensità».
Si tratta di un lavorare alacremente a non ripiegarsi su se stessi, come siamo costantemente tentati di fare, di distrarci dal nostro io perché sia possibile riconoscere Dio.
Non si tratta però di uno smarrimento della nostra identità: «Nell’estasi l’uomo rapito totalmente a se stesso vede Dio, ma in Lui ritrova anche se stesso». Non si tratta di un annientamento metafisico, ma di un annientamento psicologico (…) il volere un posto, un nome per noi è un limite che poniamo a quest’infinita luce. «Proprio perché vogliamo lodarlo, vogliamo conoscerlo, vogliamo attestarlo, noi non lo possiamo che in “un’umiltà senza fondo”».
“Discendere” per “ascendere”
Un nostro cammino alla ricerca di quella disposizione interiore che ci consenta questa esperienza, ci dice don Barsotti, comporta necessariamente un “discendere”.
Diversamente dal cammino indicato dai santi Giovanni Climaco e Giovanni della Croce, che parlano di “un cammino dell’uomo verso Dio come di un’ascensione, di una salita: salita del monte, ascensione al cielo”, Barsotti dice che dobbiamo essere disposti a “discendere”: «Ora proprio perché non si tratta di ascendere un monte, ma di ascendere al cielo, noi non possiamo far nulla».
E spiega:
«Dio non ci ha fatto con le ali. O Dio ci rapisce e ci porta Egli stesso fino al suo trono, o rimaniamo quel che siamo. Quello che dobbiamo fare, il compito nostro è di discendere» intraprendendo un cammino di umiltà. (…)
«È precisamente nella misura che noi discendiamo che Egli ci solleva. (…) Tu devi discendere se vuoi salire: il salire è opera della grazia, il discendere è opera tua».
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