di Nicola Filippone
La vicenda umana e pastorale di don Pino Puglisi non può prescindere dal quartiere palermitano di Brancaccio nel quale egli nacque il 15 settembre 1937, celebrò la prima messa, nella chiesa di S. Giovanni Bosco, nel 1960, divenne parroco il 29 settembre 1990, fu assassinato il giorno del suo 56° compleanno Le notizie storiche su Brancaccio (cfr. S. Di Matteo, Palermo storia della città. Dalle origini ad oggi, Kalos, Palermo 2002 G. Paonita, http://www.angelfire.con/journal/puglisi/; A. Lo Faso di Serradifalco, Palermo 1713. Il primo censimento della popolazione della capitale del Regno di Sicilia sotto re Vittorio Amedeo di Savoia, Ila Palma, Palermo 2004) hanno inizio a partire dal 1684, quando don Antonio Brancaccio, nobile latifondista napoletano, si trasferì in Sicilia dove divenne governatore ed amministratore di Monreale. Nel 1747 egli fece costruire all’interno dei suoi terreni una chiesa dedicata a S. Anna che, successivamente, sarebbe diventata la parrocchia di S. Gaetano e della Madonna del Divino Amore, nella quale avrebbe esercitato il suo ufficio pastorale don Pino Puglisi.
Il quartiere, considerato ancora una delle aree più a rischio della città, ha un passato illustre, come testimoniano i tanti monumenti che, tutt’oggi, sembrano opporsi al degrado che vorrebbe imporsi sul territorio e sui suoi abitanti. A Brancaccio, nell’XI secolo, risiedeva il celebre emiro Giafar, nel castello della Favara, immerso in un lago artificiale con una vegetazione rigogliosa ed una fauna non comune. A Roberto il Guiscardo e Ruggero II risale la chiesa di S. Giovanni dei Lebbrosi, che Federico II cederà all’Ordine Teutonico della Magione. Sempre all’età normanna si ascrive il Ponte Ammiraglio, che congiungeva le due sponde del fiume Oreto, prima che il suo corso fosse deviato. Nei pressi di questo passaggio, in corrispondenza dell’attuale Corso dei Mille, la notte tra il 26 ed il 27 maggio 1860 i garibaldini combatterono una furibonda e decisiva battaglia contro le truppe borboniche, al termine della quale fecero ingresso a Palermo.
Dopo l’Unità d’Italia la città contava 194.463 abitanti, di cui 446 vivevano nella borgata di Brancaccio, entrata a far parte del mandamento Oreto che, assieme al mandamento Molo, si era aggiunto agli altri quattro più antichi: Palazzo Reale, Monte di Pietà, Castellammare e Tribunali. Negli anni postunitari Brancaccio conobbe un interessante sviluppo economico, attestato dall’attività di alcuni mulini e pastifici che, sebbene presenti in quella zona sin dal Medioevo, a funzionamento idrico grazie all’Oreto, nella seconda metà dell’Ottocento cominciarono a funzionare ad elettricità, divenendo più efficienti ed intensificando la loro produzione.
Nel secondo dopoguerra la borgata assunse la fisionomia di quartiere destinato a scopi economici quando, intorno agli anni Sessanta, vi si concentrò la maggior parte delle industrie palermitane, che diedero origine a quella che sarà nota come la “zona industriale Brancaccio”. Questa svolta formerà un tessuto sociale che costituirà un polo d’attrazione per le organizzazioni criminali. In quel decennio, infatti, la mafia stava compiendo un salto di qualità, in parte dovuto ad una sua connaturata disposizione ad adattarsi alle nuove condizioni socio-economiche ed a sfruttare tutte le occasioni di sviluppo che la città offre, in parte all’arrivo a Palermo della mafia di provincia, soprattutto di Cinisi e di Corleone che, dopo essere scesa a compromessi con i capi cittadini, diede inizio ad una guerra cruenta, che si concluse con l’egemonia dei corleonesi e dei loro alleati.
Ormai Cosa Nostra non è più uno stato nello Stato, non si limita soltanto a colmare le deficienze di cui le istituzioni sono responsabili al sud, creando un rapporto di dipendenza con la popolazione, che è sì basato anche sulla paura, ma essenzialmente poggia sulla fiducia che l’uomo d’onore è capace di suscitare per l’efficienza e la tempestività con cui sa risolvere i problemi. Adesso la mafia è uno stato contro lo Stato, che entra in competizione con esso, perché ha alzato il tiro, punta ad entrare nei grandi interessi degli appalti, delle opere pubbliche, della droga, della prostituzione, dell’estorsione. La criminalità organizzata progetta di sostituirsi alle istituzioni, specialmente in alcune zone della città, dove esercita il controllo del territorio con più successo delle Forze dell’ordine.
Per la realizzazione di questo piano essa ha bisogno innanzitutto della povertà delle persone, che le consente di esercitare su di loro un enorme potere ricattatorio. Sua alleata principale è la disoccupazione, che agevola il reclutamento di quanti accettano le sue proposte, in vista di un cambio radicale della propria condizione di vita. Un altro punto di forza di Cosa Nostra è la miseria culturale: grazie all’ignoranza essa può far passare messaggi ingannevoli, al fine di consolidare la mentalità clientelare, incapace di distinguere il diritto dal favore, che tende ad identificare col nemico tutto ciò che è riconducibile allo Stato ed ai suoi organi giudiziari. Lo “sbirro” è l’avversario numero uno perché esprime immediatamente la presenza delle istituzioni, “sbirro” diviene pertanto l’insulto più infamante che può rivolgersi ad un mafioso. Un ultimo indispensabile complice è il degrado morale, che produce uno sconvolgimento nella scala dei valori, associato ad una grande confusione su alcuni di essi, soprattutto su quelli più radicati nella società siciliana. Si relativizza il concetto della vita, che viene subordinato a quello di ricchezza materiale, uccidere un uomo in cambio di soldi o di prestigio personale, diviene un fatto possibile e legittimo. “Il comportamento del mafioso, ha scritto Salvatore Privitera, scaturisce spesso da un processo di ribaltamento della gerarchia dei valori […] La visione parziale della realtà lo porta a privilegiare solo ed esclusivamente i propri interessi e quelli della cosca di appartenenza […] Il valore vita (degli altri) cede sempre il passo quando entra in conflitto con gli interessi, anche i più meschini, della logica mafiosa” (S. Privitera, Per una rilettura critica della problematica, in S. Diprima (Ed.), Per un discorso cristiano di resistenza alla mafia, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 1995, 147). Si matura una concezione assoluta ed “estesa” della famiglia, sempre più sovrapposta ad aree urbane da egemonizzare col concorso di quanti sono disposti ad entrare a farne parte. Si crede perfino nella possibilità di conciliare il cristianesimo con l’affiliazione mafiosa, praticando riti di iniziazione sotto gli auspici di un santo protettore o con giuramenti pronunciati su immagini sacre.
Questo è il contesto nel quale don Pino Puglisi, il 2 luglio 1960 diviene sacerdote in Sicilia, esercitando il suo ufficio a Palermo e a Godrano e scontrandosi ben presto con una realtà che, come annunciatore del Vangelo, non può accettare. Dopo la sua ordinazione egli è subito impegnato a Brancaccio, viene infatti nominato vicario cooperatore del Santissimo Salvatore in Corso dei Mille e poi cappellano di S. Giovanni dei Lebbrosi. Nel 1964 è trasferito a Mondello, località balneare di Palermo, dove è vice parroco nella chiesa Maria SS. Assunta e cappellano dell’istituto per orfani e minorenni abbandonati “Roosevelt”, all’Addaura. Nel 1970 è inviato a Godrano, un piccolo comune della provincia, già noto all’epoca per le faide mafiose che in quel paese avevano luogo. Dopo vari incarichi a livello diocesano nei quali maturerà una notevole esperienza pastorale con i giovani, come pro rettore ed insegnante nel seminario, docente al liceo “Vittorio Emanuele II” e direttore del Centro Vocazionale Diocesano, nel 1990 è di nuovo nella sua Brancaccio, parroco di S. Gaetano.
Pur essendo vissuto in quell’ambiente, quando don Pino vi ritorna vuole aggiornare le sue conoscenze del quartiere, attraverso un’analisi precisa della situazione, che spazi dall’ambito religioso a quello culturale, che metta in luce i bisogni primari dei parrocchiani, per individuare da subito le strategie più efficaci di intervento. L’esito dello studio non è incoraggiante, nel dicembre 1991 padre Puglisi ne sintetizza così i risultati: “…L’ambiente è disomogeneo e la presenza della mafia è soltanto uno dei problemi. Certo non il minore, ma per molti la vera preoccupazione è riuscire a mangiare ogni giorno. Circa 150 famiglie arrivate dal centro storico si trovano concentrate in due enormi palazzi […] Stavano in case ormai inagibili, che crollavano a pezzi. Il Comune le ha fatte sgombrare e ha requisito questi due nuovi edifici. Le famiglie ora vi abitano ma si sono portate dietro solo la propria povertà. È una terra di nessuno. I bambini vivono in strada. E dalla strada imparano solo la lezione della delinquenza […] Sulla via Brancaccio, tra due passaggi a livello, vi è una zona chiamata Stati Uniti. Qui la povertà è anche culturale: molti non hanno conseguito neanche la licenza elementare. Come parrocchia abbiamo cercato di fare dei corsi per questi analfabeti, ma certo il nostro sforzo non è sufficiente […] C’è inoltre povertà anche dal punto di vista morale. In molte famiglie non ci sono principi etici stabili, ma tutto viene valutato sul momento, in base alla necessità […] L’evasione scolastica è anche dovuta al fatto che Brancaccio è l’unico quartiere di Palermo in cui non esiste una scuola media. Chi vuole studiare deve sobbarcarsi lunghi spostamenti. Evidentemente questo fa comodo a chi vuole che l’ignoranza continui. C’è la scuola elementare, ma non c’è neanche un asilo nido […] In sostanza si fa prima a dire quello che c’è…tutto il resto manca” (Dattiloscritto conservato nell’Archivio Puglisi del Centro Diocesano Vocazioni di Palermo).
Nel settembre 1992 il parroco, dopo aver sottoposto agli abitanti di Brancaccio un questionario, ottiene i seguenti risultati: al 90,25% degli intervistati non piace niente del quartiere; il 68,5% ritiene che esso sia sprovvisto di tutti i servizi; per il 10,5% mancano i servizi ricreativi, per l’8% non ci sono servizi sociali, il 7,5% lamenta l’assenza di quelli sanitari. L’unico dato incoraggiante è che, a due anni dal ritorno di Puglisi a Brancaccio, nessuno accusa la carenza di assistenza spirituale.
Non deve meravigliare l’attenzione di don Pino per le problematiche squisitamente sociali, egli diceva sovente di amare i posti che gli altri rifiutavano. C’era in lui il desiderio di realizzare quella promozione umana che è un tutt’uno con l’evangelizzazione. In un città, tale missione trova adempimento nei quartieri della periferia, che si trovano ai margini, non solo geografici, della città. Ha scritto Raimondo Frattallone: “Il risanamento dei singoli quartieri ispirato ai principi della solidarietà e della partecipazione è la premessa indispensabile per raggiungere progressivamente il risanamento dell’intera città e della stessa nazione. Perciò anche il riconoscimento della struttura del quartiere, sia come fatto amministrativo che come fatto politico, deve essere animato dal principio della solidarietà fra i cittadini e deve mirare direttamente a raggiungere l’obiettivo di una maggiore partecipazione, condivisione e solidarietà civile” (R. Frattallone, L’Ethos di solidarietà per la frattura Nord-Sud, in Chiesa e mezzogiorno. Riflessioni sul documento CEI “Chiesa italiana e mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà”, ITST, Messina 10 maggio 1990, 84).
Tratto da N. Filippone, La forza rivelatrice dell’amore. Il sacrificio di don Pino Puglisi nell’ottica della bioetica sociale, Athenaum, Firenze 2009.
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