A dieci anni dalla morte di G. Lazzati
Immergersi consapevolmente nella notte. Dire, con semplicità e forza, che la notte è notte. Ma sempre con l’anima della sentinella che è tutta verso l’aurora. Questa l’indicazione, ispirata a Isaia 21,11-12, che Dossetti coglie dall’esempio di Lazzati e offre ai cattolici come immagine del momento civile e politico italiano e dell’atteggiamento con cui affrontarlo (Dossetti parla nel 1996 qualche mese prima della sua morte).
Chiamato a Milano il 18 maggio 1996 per commemorare, presso la sede di «Città dell’uomo», i dieci anni dalla morte di Giuseppe Lazzati, Giuseppe Dossetti, svolgendo coerentemente la sua indicazione, ha descritto la notte «delle persone» e «delle comunità» e le sue «cause profonde… quali già Lazzati le indicava come realtà intrinseche alla nostra cristianità italiana», per concludere con l’esortazione, posta in un orizzonte escatologico, a «percorrere un cammino inverso a quello degli ultimi vent’anni, cioè mirare non a una presenza dei cristiani nelle realtà temporali e alla loro consistenza numerica e al loro peso politico, ma a una ricostruzione delle coscienze e del loro peso interiore…».
1. La sentinella interpellata
Lazzati è sempre stato – ma in particolare negli ultimi anni della sua vita – un vigilante, una scolta, una sentinella: che anche nel buio della notte, quando sulla sua anima appassionata di grande amore per la comunità credente poteva calare l’angoscia, ne scrutava con speranza indefettibile la navigazione nel mare buio e livido della società italiana.
Perciò mi pare che per lui e per la sua devota e ansiosa scrutazione possano valere le parole di un breve, e un po’ enigmatico, oracolo del libro di Isaia: inserito tra le profezie sulle nazioni pagane (in questo caso, come formalmente precisa la versione dei LXX, sull’Idumea oppressa dagli assiri).
«Mi gridano da Seir:
“Sentinella, quanto resta della notte?
Sentinella, quanto resta della notte?”
La sentinella risponde:
“Viene il mattino, e poi anche la notte;
se volete domandare, domandate,
convertitevi, venite!”» (Is 21,11-12).
2. Nessun rimpianto per il giorno precedente
Una prima riflessione si può fare su questo testo. Non c’è nessun cenno al giorno precedente: ai suoi pesi, alle sue prove, ai suoi tormenti e alle sue speranze (se ce ne potevano essere). Chi interpella la sentinella, e la sentinella stessa, non si ripiega a considerare – tantomeno a rimpiangere – il giorno prima.
Certo Lazzati non si faceva nessuna illusione, nei suoi ultimi anni, su ciò che si stava preparando per la cristianità italiana. Chi ha potuto avvicinarlo allora, avvertiva che la sua coscienza esprimeva un giudizio duro, lucido, su ciò che stava maturando per il nostro paese, appunto quello a cui stiamo assistendo ora dopo le ultime elezioni: non tanto lo sbandamento elettorale dei cattolici, ma le sue cause profonde, oltre gli scandali finanziari e oltre le collusioni tra mafia e potere politico, soprattutto l’incapacità di «pensare politicamente», la mancanza di grandi punti di riferimento e l’esaurimento intrinseco di tutta una cultura politica e di un’etica conseguente.
Perciò Lazzati, se posto di fronte agli ultimissimi accadimenti, non sarebbe stupito, né si attarderebbe in vani rammarichi per l’improvvisa caduta dell’espressione politica del cattolicesimo italiano. Io sono sicuro che egli da anni la vedeva per scontata e quasi fatale: pur essendo ben convinto – e con quale vigore! – della validità in sé del patrimonio ereditato dal passato meno recente (anteriore alla prima guerra mondiale e da quello prefascista) e dal passato più recente (soprattutto dei primi lustri del secondo dopoguerra). Tale eredità poteva annoverare un’elaborazione culturale, forse modesta, ma vivace; un’opera di formazione vasta e costante, di quadri e di masse; sforzi organizzativi appassionati e perseveranti; e soprattutto tanta fede e tanta speranza e tanti sacrifici di persone umili e realmente disinteressate; e infine, alcuni momenti forti di mediazione civile e politica riconosciuta da molti come valida.
A questa eredità si ricollegava Lazzati e l’ha anche gestita e arricchita di suo. Ma non credo che oggi, dopo tanta dissipazione che ne è stata fatta per leggerezza e per disonestà diffusa, egli si attarderebbe a insistervi o per lo meno non direbbe che il problema si riduce principalmente a rivendicare con energia il patrimonio passato e ad «avere l’orgoglio delle proprie ragioni».
Ragioni appunto del passato: cioè di ieri, o meglio di ieri l’altro. Non abbiamo ancora abbastanza considerato – e direi proprio che non ce ne vogliamo persuadere – quant’acqua sia passata dal 1989: in cinque anni è come se ne fosse passata tanta da sommergere non un’isola, ma un intero continente (l’Europa: e l’Europa soltanto?).
Che non ne siamo ancora persuasi, non siamo solo noi cattolici (o lo siamo solo nelle affermazioni generiche, e poi non ne deduciamo quasi nulla quando si tratta di operare) ma lo sono anche i laici, e in particolare le sinistre nostrane: e persino queste nuove destre, che hanno vinto le elezioni sulla scommessa del nuovo, ma che per ora si mostrano ancora attaccate a metodi
vecchi, a soluzioni archeologiche, e persino quando vorrebbero innovare (come fa la Lega) fanno proposte capaci di dare voce alla protesta degli interessi di oggi, e non capaci di interpretare il vero movimento della storia, italiana ed europea.
3. La notte va riconosciuta per notte
Dunque, a parer mio, Lazzati oggi non sarebbe un saggio laudator temporis acti, cioè non si attarderebbe a rimpiangere il passato di ieri o di ieri l’altro, o a riaccreditarlo di fronte agli immemori, ma si immergerebbe consapevolmente nella notte: direbbe con semplicità e forza che la notte è notte, ma sempre con l’anima della sentinella che (secondo un altro testo celebre della Scrittura, il De profundis) è tutta verso l’aurora:
«L’anima mia è verso il Signore
più che la sentinella verso l’aurora
più che la sentinella verso l’aurora»
(Sal 129/130, trad. Ravasi).
Pur non guardando al passato, e senza stabilire alcun confronto col tempo di prima, e pur guardando in avanti verso il mattino, la sentinella è ben consapevole che la notte è notte.
Prescindiamo da un disordine più generale, che investe tutta l’Europa (e che ha riflessi speculari sui suoi prolungamenti asiatici e africani). Guardiamo per ora solo all’Italia. Siamo di fronte a evidenti sintomi di decadenza globale.
Anzitutto sul piano demografico: abbiamo il tasso di natalità più basso, sicché se continuassimo sempre in questo modo, si profilerebbe tra un secolo e mezzo l’estinzione del nostro popolo. E comunque nella nostra società, a un crescente numero di anziani e di vecchi presto non sarà più un valido compenso il numero di giovani e di persone mature. Già oggi i minori di diciotto anni sono solo dieci milioni, su cinquanta, cioè un quinto del totale.
In secondo luogo, sganciato sempre più sistematicamente il matrimonio dal necessario e imprescindibile rapporto con la fecondità, si hanno due conseguenze:
– la fecondità cercata, quando è cercata, per conto suo, cioè non come realizzazione umana della pienezza della personalità, ma come questione di ingegneria genetica, che finisce quasi sempre con l’essere avulsa da qualunque spiritualità;
– e dall’altra parte l’atto sessuale tende sempre di più a dissociarsi da ogni regola, nella ricerca esclusiva di un piacere che si fa sempre più autonomo e più sofisticato, fino alle forme più perverse, come è sempre accaduto nei periodi di decadenza dei popoli e di grave perdita delle culture.
In terzo luogo questa ossessione del piacere sessuale, come porta a una continua ed eccessiva stimolazione dell’istinto naturale, così lo infiacchisce nelle sue stesse potenzialità naturali (e sono segnalate alte percentuali di questo decadimento). E ancora porta (con altri fattori concomitanti, quale l’eccesso furibondo di immagini mediatiche) porta, dico, all’ottundersi delle facoltà superiori dell’intelligenza, cioè la creatività, la contemplazione naturale, il discernimento, per una inabilità alla durata dell’attenzione e del confronto, e quindi dell’elementare capacità critica.
In quarto luogo 1a scuola, specialmente la scuola superiore – in gravissimo ritardo nel rinnovamento dei suoi ordini, delle sue strutture e dei suoi programmi – è sempre più inadeguata a compensare questo vuoto desolante: e in certi ambiti locali è fatalisticamente rassegnata a non funzionare più per nulla.
Infine, al vuoto ideale e conseguentemente etico, si tenta dai più di compensare con la ricerca spasmodica di ricchezza: per molti al di là di ogni effettivo bisogno vitale, elevata a scopo a se stessa. Si verifica così per parecchi ciò che la Prima epistola a Timoteo (6,9) chiama «il laccio di una bramosia insensata e funesta».
Così, all’inappetenza diffusa dei valori – che realmente possono liberare e pienificare l’uomo – corrispondono appetiti crescenti di cose – che sempre più lo materializzano e lo cosificano e lo rendono schiavo.
Questa è la notte, la notte delle persone: «la notte davvero impotente, uscita dai recessi dell’inferno impotente», nella quale la persona è «custodita rinchiusa in un carcere senza serrami» (Sap 17,13.15).
4. La notte delle comunità
In questa solitudine, che ciascuno regala a se stesso, si perde il senso del con-essere (il Mit-sein heideggeriano: pur esso, però, insufficiente, come cercherà di insistere Lévinas): e la comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole (di qui la fatale progressione localistica) sino alla riduzione al singolo individuo.
È appunto il singolo ciò su cui costruisce tutta la sua dottrina l’ideologo della Lega: i diritti sono solo degli individui, il diritto è solo individuale.2 E perciò rispetto agli altri non vi possono essere che contratti, in funzione dei rispettivi interessi e del reciproco scambio.
«Noi stiamo entrando in un’età caratterizzata dal primato del contratto e dall’eclissi del patto di fedeltà». Un’età, dunque, in cui «gli ordinamenti federali sono sistemi in cui si tratta e si negozia senza soste».
Al che ha già risposto Cacciari, concludendo appunto su Micro Mega il suo dialogo con Miglio: cioè che questo di Miglio è puro occasionalismo (invero alla sua volta teologico, a dispetto della sua grande pretesa di laicità) e che per tale via si ridurrebbe «il politico a pura contrattazione economica, per dissolvere il sistema in un coacervo di accordi e di convenzioni».
E perciò Cacciari gli ripropone la domanda che aveva già formulato: «Che cosa differenzia un tale sistema da quello che regola gli accordi fra imprese industriali e commerciali?».
C’è da chiedersi, a questo punto, se tali degenerazioni non siano insite nella decadenza del pensiero occidentale, come sostiene Lévinas. A suo parere, possono essere evitate non con un semplice richiamo all’altruismo e alla solidarietà; ma ribaltando tutta l’impostazione occidentale, cioè ritornando all’impostazione ebraica originale, nella quale si dissolve proprio questa partenza dalla libertà del soggetto. I figli d’Israele sul Sinai, nel momento più solenne e fondante di tutta la loro storia, quando Mosè propose loro la Legge, hanno detto: «Faremo e udremo» (Es 24,7).6
Cioè essi scelsero un’adesione al bene, precedente alla scelta tra bene e male. Realizzarono così un’idea di una pratica anteriore all’adesione volontaria: l’atto con il quale essi accettarono la Thorà precede la conoscenza, anzi è mezzo e via alla vera conoscenza. Questa accettazione è la nascita del senso, l’evento fondante l’instaurarsi di una responsabilità irrecusabile.
«L’accoglimento della rivelazione è una caratterizzazione dell’uomo come risposta, come coscienza della destinazione che porta all’Altro. Ben avanti ogni sermone edificante, ogni moralismo, ogni paternalismo: c’è una relazione e una responsabilità che mi costituisce prima ancora che io possa chiedermi come devo comportarmi e cosa devo fare» (P. Vinci, «Ebraismo e filosofia in E. Levinas», in AA. VV., Filosofia ed ebraismo, Giuntina, Firenze 1993, 124-127).
Comunque si può affermare di Lazzati che, anche se non ha svolto queste premesse teoriche, e se ha semplicemente tutto ricondotto – anche l’etica – al mistero di Cristo, suprema fondazione di ogni chiamata dell’uomo, ha però sempre visto il mistero di Cristo indissolubilmente congiunto a un’eticità rigorosa e sistematica. Egli ne ha analizzato e approfondito e, quel che più conta, ne ha testimoniato con i fatti, tutte le applicazioni in ogni ambito dell’esistenza personale e comunitaria. Da giovane laico si è impegnato nell’Azione cattolica e nella cultura. Così, fatto prigioniero, dal primo giorno all’ultimo dei due anni di internamento nei lager tedeschi, ha incessantemente cercato di infondere speranze e costanza e fedeltà nei compagni di prigionia. Rimpatriato, ha fatto tacere ogni preferenza personale, ha semplicemente riconosciuto il dovere del momento, e si è impegnato in politica ad tempus e sempre con limpido e nobile rigore etico. E dopo, con la stessa semplicità, è ritornato ai suoi studi e al suo insegnamento, e soprattutto al suo magistero continuo, col quale inculcava ai più giovani la passione etica nell’esercizio delle singole professioni. E finalmente ha ancora testimoniato la sua superiorità etica nella sua sofferta indipendenza e imparzialità di rettore all’Università Cattolica. E poi nella sua lunga malattia fino alla morte.
5. L’illusione dei rimedi facili e delle scorciatoie per uscire dalla notte
Ritornando ora all’oracolo di Isaia, e preso atto che esso parla di notte, e di notte fonda, dobbiamo ancora soggiungere che esso non lascia grandi speranze ai suoi interpellanti: ma con voluta ambiguità, annunzia sì il mattino, ma anche subito il ritorno della notte. L’oracolo del profeta non vuole alimentare illusioni di immediato cambiamento, e anzi invita a insistere, a ridomandare, a chiedere ancora alla sentinella, senza però lasciare intravedere prossimi rimedi.
Potremo anche per questo aspetto trovare qualche indicazione valida per noi ora, e sempre esempi validi in Lazzati.
Certamente, anzitutto, l’indicazione e l’esempio di una perseveranza durevole che sa, anche nelle circostanze estreme, sfuggire alla tentazione di soluzioni facili e di anticipazioni tattiche.
Oserei aggiungere un consiglio che, a mio avviso, emerge dalla nuova congiuntura che si sta creando nel nostro paese, proprio in questi giorni dopo la formazione del nuovo governo.
Conviene ripensare alle cause profonde della notte, quali già Lazzati le indicava, agli inizi degli anni ’80, come realtà intrinseche alla nostra cristianità italiana. Anzitutto una porzione troppo scarsa di battezzati consapevoli del loro battesimo rispetto alla maggioranza inconsapevole. Ancora, l’insufficienza delle comunità che dovrebbero formarli; lo sviamento e la perdita di senso dei cattolici impegnati in politica, che non possono adempiere il loro compito proprio di riordinare le realtà temporali in modo conforme all’Evangelo, per la mancanza di vero spirito di disinteresse e soprattutto di una cultura modernamente adeguata; e quindi un’attribuzione di plusvalore a una presenza per se stessa, anziché a una vera ed efficace opera di mediazione; e infine l’immaturità del rapporto laici-clero, il quale non tanto deve guidare dall’esterno il laicato, ma proporsi più decisamente il compito della formazione delle coscienze, non a una soggezione passiva o a una semplice religiosità, ma a un cristianesimo profondo e autentico e quindi a un’alta eticità privata e pubblica.
Ebbene, se queste erano, e sono tuttora, le cause profonde della nostra notte, non si può sperare che si possa uscirne solo con rimedi politici, o peggio rinunziando a un giudizio severo nei confronti dell’attuale governo in cambio di un atteggiamento rispettoso verso la chiesa o di una qualche concessione accattivante in questo o quel campo (per esempio la politica familiare e la politica scolastica).
Evidentemente i cattolici sono oggi posti di fronte a una scelta che non può essere che globale e innegoziabile, perché scelta non di azione di governo ma di un aut-aut istituzionale.
Non si può in nessun modo indulgere alla formula giornalistica della Seconda Repubblica, impropria, anzi erronea imitazione del modo francese di numerare la successione delle forme costituzionali, avvenuta nel paese vicino.
Non si vuol dire, con questo, che nel caso nostro non ci siano cose da cambiare, in corrispondenza delle grosse modificazioni intervenute nella nostra società negli ultimi decenni. È molto avvertita, per esempio, una diffusa e pervasiva alterazione patologica dei rapporti tra privati, partiti e pubblica amministrazione; come pure la pletoricità e macchinosità di un sistema amministrativo che non si adatta più alle dinamiche di una società moderna; e ancor più la degenerazione privilegiaria e clientelare dello stato sociale (tradito); la necessità di una lotta sincera e non simulata alla criminalità organizzata; e infine l’emergenza e la necessità di adeguata valorizzazione di una nuova classe operosa di piccoli e medi imprenditori.
Si può aggiungere l’esigenza di uno sveltimento della produzione legislativa, e perciò la riforma dell’attuale bicameralismo; e soprattutto un’applicazione più effettiva e più penetrante delle autonomie locali, da perseguirsi, però, al di fuori di ogni mito che tenda a stabilire distinzioni aprioristiche nel seno del popolo italiano e che perciò tenda a scomporre l’unità inviolabile della Repubblica.
Se tutto questo sarà fatto, nel rispetto della legalità e senza spirito di sopraffazione e di rapina, nell’osservanza formale e sostanziale delle modalità costituzionali, non ci può essere nessun pregiudizio negativo, anzi ci deve essere un auspicio favorevole.
Ma c’è una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto. Certo oltrepasserebbe questa soglia una disarticolazione federalista come è stata più volte prospettata dalla Lega. E ancora oltrepasserebbe questa soglia qualunque modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti dall’attuale Costituzione. E così pure va ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario, cioè per ogni avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell’esecutivo ai danni del legislativo, ancorché fosse realizzato con forme di referendum, che potrebbero trasformarsi in forme di plebiscito.
Questi oltrepassamenti possono essere già più che impliciti nell’attuale governo: per il modo della sua formazione, per la sua composizione, per il suo programma e per la conflittualità latente ma non del tutto occultata con il capo dello stato. Perciò, più che di Seconda Repubblica si potrebbe parlare del profilarsi di una specie di triumvirato: il quale, verificandosi certe condizioni oggettive e attraverso una manipolazione mediatica dell’opinione, può evolversi in un principato più o meno illuminato, con coreografia medicea (trasformazione appunto di una grande casa economico-finanziaria in signoria politica).
In questo senso ho parlato prima di globalità del rifiuto cristiano e ritengo che non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa, almeno fino a quando non siano date positive, evidenti e durevoli prove in contrario.
6. Convertitevi!
La sostanza ultima dell’oracolo della sentinella è al di fuori di ogni ambiguità: Convertitevi!
La radice ebraica S/^un, impiegata nel libro di Isaia, significa per sé «ritornare». Ma può esprimere anche, specificamente, il rivolgersi a Dio, cioè la conversione.
Secondo la sentinella non si tratta tanto di cercare nella notte rimedi esteriori più o meno facili, ma anzitutto di un trasformarsi interiormente, di un dietro-front intimo, di un voltarsi positivo verso il Dio della salvezza.
Radice di questa conversione è anzitutto la contrizione, il pentimento.
Nel caso nostro dobbiamo anzitutto convincerci che tutti noi, cattolici italiani, abbiamo gravemente mancato, specialmente negli ultimi due decenni, e che ci sono grandi colpe (non solo errori o mere insufficienze), grandi e veri e propri peccati collettivi che non abbiamo sino ad oggi incominciato ad ammettere e a deplorare nella misura dovuta.
C’è un peccato, una colpevolezza collettiva: non di singoli, sia pure rappresentativi e numerosi, ma di tutta la nostra cristianità, cioè sia di coloro che erano attivi in politica sia dei non attivi, per risultanza di partecipazione a certi vantaggi e comunque per consenso e solidarietà passiva.
Ma per quanto fosse convinto ed esplicitato e realizzato nei fatti, questo pentimento non basterebbe ancora. Inquadrandolo nel pensiero di Lazzati – soprattutto degli anni in cui cominciava più direttamente a pensare alla Città dell’uomo – si dovrebbe dire che i battezzati consapevoli devono percorrere un cammino inverso a quello degli ultimi vent’anni, cioè mirare non a una presenza dei cristiani nelle realtà temporali e alla loro consistenza numerica e al loro peso politico, ma a una ricostruzione delle coscienze e del loro peso interiore, che potrà poi, per intima coerenza e adeguato sviluppo creativo, esprimersi con un peso culturale e finalmente sociale e politico.
Ma la partenza assolutamente indispensabile oggi mi sembra quella di dichiarare e perseguire lealmente – in tanto baccanale dell’esteriore – l’assoluto primato della interiorità, dell’uomo interiore.
Questo potrebbe sembrare persino ovvio e banale: ma ovvio non è, come appare chiaramente da tanti segnali nel mondo cattolico italiano, da tante affermazioni contraddittorie che si susseguono, da tante preoccupazioni ben altre che di fatto animano gruppi e personalità, vecchie e nuove, del laicato e della gerarchia.
Mi si consenta perciò di precisare meglio che cosa è questo primato dell’interiore.
Muovo fondamentalmente da tre testi di s. Paolo:
– Rm 7,15-24: «Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio, io faccio, ma quello che detesto… Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo, infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio… Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento alla legge di Dio secondo l’uomo interiore, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra».
– 2Cor 4,16-18: «Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne».
– Ef 3,14-16: «Io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore».
7. L’uomo interiore
Dal confronto di questi tre testi possiamo ricavare:
– il significato fondamentale, preso dalla filosofia greca volgarizzata, di uomo interiore in s. Paolo;
– e a un tempo il suo slittamento verso il concetto propriamente semitico (ed evangelico, e tipicamente paolino) di uomo nuovo.
Tutt’e due sono indispensabili, a parer mio: e tutt’e due devono essere tenuti presenti e valorizzati nella ricostruzione etica che è necessaria perché la nostra conversione sia piena e matura: e perché l’eventuale operare politico dei cristiani si possa effettivamente sottrarre agli errori e alle colpe sinora commesse.
Cominciamo dall’uomo interiore nell’accezione della filosofia greca volgarizzata, ben presente nella frase riferita dell’Epistola ai romani: è l’uomo secondo ragione, secondo il voos (la mente) che impegna per il meglio le sue facoltà a costruirsi pienamente secondo quelle virtù che chiamiamo cardinali (e che anche gli antichi chiamavano così): la temperanza, la fortezza, la prudenza e la giustizia.
Dobbiamo riconoscere che noi cristiani le abbiamo di fatto trascurate: tutte o quasi tutte, almeno per certe loro parti o implicanze. Abbiamo magari insistito molto sulla temperanza, e in particolare sulla castità, ma assai meno sulla fortezza: che ci possa far sostenere non dico la persecuzione violenta, ma appena il disagio sociale di una certa diversità dall’ambiente che ci circonda, oppure che ci porti ad affrontare il contrasto e la disapprovazione sociale o comunitaria, per difendere esternamente una tesi sentita in coscienza come cogente.
Ancor meno abbiamo insistito sulla giustizia in quanto obbligo di veracità verso il prossimo (e di qui la tendenza a tante dissimulazioni, considerate spesso dai non cristiani tipicamente nostre). Soprattutto non abbiamo saputo raggiungere un senso pieno della giustizia, superando una sua concezione limitata solo a certi rapporti intersoggettivi e sapendola estendere ai doveri verso le comunità più grandi in cui noi siamo inseriti. È a questo punto che si è potuto asserire da altri (E. Galli della Loggia), in un ripensamento della vicenda storica del liberalismo nei confronti del cattolicesimo, nei decenni trascorsi dell’Italia unitaria, che al vuoto religioso o all’anticlericalismo del liberalismo, i cattolici non hanno offerto il compenso che potevano dare e che doveva essere loro proprio, per l’edificazione di un’etica pubblica.
Se questo è vero – come può apparire vero anche a prescindere dalla ricostruzione storica del Galli della Loggia, in conformità a molti e insistenti richiami lazzatiani in materia – dobbiamo riconoscere di avere negli ultimi decenni perduto un’occasione storica unica e probabilmente irrecuperabile, e dobbiamo, pur tardivamente, cercare di riempire il vuoto e di correggere i molti errori e peccati. Dobbiamo ora porci come obiettivo urgente e categorico di formare le coscienze dei cristiani (almeno di quelli che vorrebbero essere consapevoli e coerenti) per edificare in loro un uomo interiore compiuto anche quanto all’etica pubblica, nelle dimensioni della veracità, della lealtà, della fortezza e della giustizia (quanto ancora c’è da fare soprattutto per l’eticità tributaria, oltre le facili giustificazioni forse talvolta ovvie, ma sempre non consentite al cristiano!).
8. L’uomo nuovo e la Città dell’uomo
Ma s. Paolo ci insegna anche che all’uomo interiore si oppone (combatte contro) un’altra legge o forza antitetica che è nelle radici della nostra corporeità intaccata dal peccato.
E la consapevolezza di questo dovrebbe anzitutto portarci tutti all’umiltà: a edificare i nostri sforzi individuali e collettivi sul presupposto della nostra miserabile fragilità, che fa dire all’apostolo: «Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte»?
Umiltà, dunque: individuale e collettiva di noi tutti cristiani. Mentre è tanto facile che, come collettività, procediamo con falsa sicurezza, con infelice parrisia, se non con arroganza, che proprio ripensando a tutti questi decenni non dovremmo avere, ma dovremmo piuttosto sentire come ragione di confusione e di vergogna.
L’uomo interiore, tuttavia, può essere salvato, anzi, come dice s. Paolo, rinnovarsi di giorno in giorno se è potentemente rafforzato dallo Spirito di Dio. Allora l’uomo interiore può essere elevato a uomo nuovo, veramente essere in Cristo nuova creazione (2Cor 5,17 e Gal 6,15); rivestito di Cristo come è realmente ogni battezzato (Gal 3,27). Può così essere fortificato per ogni combattimento dalla panoplia di Dio (Ef 6,11); cioè rivestito della corazza della fede e dell’amore (1Ts 5,8), e rivestito, come eletto di Dio, di viscere di misericordia (Col 3,12).
Ma appunto tutto ciò deve essere di ora in ora implorato da Dio, credendo e confidando nella sua paternità misericordiosa: «piego le ginocchia… perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria…».
In ultima analisi, è solo questo che può vincere la notte. Lo squarcio operato nel buio – «nel momentaneo leggero peso della nostra tribolazione» – dal fulgore dell’enorme, letteralmente «eterno peso di gloria».
Ma per questo ci vogliono dei battezzati formati ad essere e ad agire nel tempo continuamente guardando all’ultratemporale, cioè abituati a scrutare la storia, ma nella luce del metastorico, dell’escatologia.
Purtroppo siamo invece più spesso abituati al contrario, cioè a immergerci continuamente e totalmente nella storia, anzi, nella cronaca: la nostra miopia ci fa pensare all’oggi o al massimo al domani (sempre egoistico), non oltre, in una reale dilatazione di spirito al di là dell’io. (Anzi, qualcuno poteva persino vantarsi di questo, come prova di concretezza e di realismo: non accorgendosi che tutto si riduceva a rimedio empirico, ad espediente effimero).
C’è un aspetto e una conseguenza particolare di questa auspicabile sanazione della nostra vista – sanazione, dico, operata dal richiamo escatologico – che mi pare, concludendo, di dovere fra le altre particolarmente segnalare: il ricordare sempre che «la chiesa non è ancora il regno di Dio: ne è, se mai, il germe e l’inizio».11 E va aggiunto che delle sue due funzioni: l’evangelizzazione (cioè l’annunzio del Cristo morto, risorto, glorificato) e l’animazione cristiana delle realtà temporali, la seconda spesso può concernere il Regno in modo molto indiretto. Il che porta a concludere che tutte queste realtà temporali che dovrebbero essere ordinate cristianamente (compresa la politica) possono essere finemente e saggiamente relativizzate, secondo le diverse opportunità concrete: e comunque sempre vanno rispettate nella loro autonomia e perseguite da laici consapevoli e competenti che, come diceva Lazzati, «vivono gomito a gomito, per così dire, degli uomini del loro tempo e di varia estrazione culturale… attraverso il confronto e il dialogo, naturalmente senza perdita della propria identità, sempre nel rispetto della natura di tali realtà e della loro legittima autonomia, con sincero sforzo di comprendere l’altro».12
È questa è la via – diurna e non notturna – verso la Città dell’uomo, nella prospettiva sempre intensamente mirata della città celeste, della nuova Gerusalemme.
Giuseppe Dossetti
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