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Dossetti – Le radici della Costituzione

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Una lunga premessa, quattro principi e un monito: questa la struttura dell’intervento del monaco Giuseppe Dossetti a Monteveglio (Bologna, 16 settembre 1996) per il primo incontro nazionale dei «comitati per la difesa della Costituzione». La premessa è relativa alla tragedia della guerra, che ha permesso di superare le concezioni di parte e le differenze ideologiche nella carta costituzionale. I quattro principi sono: a) unità e indivisibilità del popolo italiano e della Repubblica; b) il valore inviolabile della persona umana; c) la consistenza costituzionale dei corpi intermedi (famiglia, comune, regione, ecc.); d) la diffusione del potere. Il monito riguarda l’art. 138 sulla revisione costituzionale e il previsto referendum confermativo.

Dopo la lettera del 15 aprile al sindaco di Bologna Vitali in cui si sollecitava la formazione dei «comitati» (ve ne sono già 23 e altri 20 sono in gestazione) e una successiva a conforto per le prime adesioni, il 18 maggio 1996 Dossetti prendeva la parola a Milano per commemorare Lazzati, esprimendo un severo giudizio sull’attuale situazione politica. L’intervento più recente – «spererei proprio per l’ultima volta» – riprende e definisce la sua posizione sulla difesa della Costituzione.

 

(Originale dattiloscritto «non definitivo», distribuito nel corso dell’incontro).

 

 

 

 

I.

 

Mi si consenta una premessa che – in proporzione della durata complessiva del mio intervento – non sarà breve.

Mi domando: donde è nata la Costituzione italiana entrata in vigore il 1o gennaio 1948? Qual è la sua radice più profonda?

Alcuni pensano che la Costituzione sia un fiore pungente nato quasi per caso da un arido terreno di sbandamenti postbellici e da risentimenti faziosi volti al passato.

Altri pensano che essa nasca da una ideologia antifascista di fatto coltivata da certe minoranze, che avevano vissuto soprattutto da esuli gli anni del fascismo.

Altri ancora – come non pochi dei suoi attuali sostenitori – si richiamano alla resistenza, con cui l’Italia può avere ritrovato il suo onore e in certo modo si è omologata a una certa cultura internazionale.

E così si potrebbe continuare a lungo nella rassegna delle opinioni o sbagliate o insufficienti.

In realtà la Costituzione italiana è nata ed è stata ispirata – come e più di altre pochissime costituzioni – da un grande fatto globale, cioè i sei anni della seconda guerra mondiale.

Questo fatto emergente della storia del XX secolo va considerato, rispetto alla Costituzione, in tutte le sue componenti oggettive e al di là di ogni contrapposizione di soggetti, di parti, di schieramenti, come un evento enorme che nessun uomo che oggi vive o anche solo che nasca oggi, può e potrà accantonare o potrà attenuarne le dimensioni, qualunque idea se ne faccia e con qualunque animo lo scruti.

 

Che cosa è stata la seconda guerra mondiale?

Scusate se richiamo dati elementarissimi, che sono o dovrebbero essere presenti a tutti.

 

La seconda guerra mondiale è stata anzitutto sul piano oggettivo e fisico – di fronte ai nove milioni di morti della «grande guerra» (1914-1918) – ben più di cinquantacinque milioni di uccisi da azioni belliche;1 e segnò un coinvolgimento mai visto delle popolazioni civili, massacrate dai bombardamenti aerei (si pensi che il solo bombardamento di Dresda fece più di 100.000 vittime!) oppure deportate in massa, oppure esposte continuamente al rischio dei rastrellamenti e delle rappresaglie.

Inoltre sempre sul piano oggettivo, la seconda guerra mondiale ha portato a un mutamento mai verificatosi nella mappa del mondo: in Europa, in Asia, in Africa. Anzitutto ha avviato il deciso declino delle tradizionali grandi potenze europee e anche dell’Europa nel suo complesso; e ha dato vita a due blocchi mondiali contrapposti guidati, con ideologie antitetiche e con schieramenti militarmente paurosi, dalle due nuove superpotenze. E parallelamente essa ha portato al rivelarsi della debolezza intrinseca e della insostenibilità morale dei grandi imperi coloniali, e perciò ha dato l’impulso decisivo a una quasi totale decolonizzazione, e alla conquista progressiva dell’autonomia di molti paesi nuovi in Africa e in Asia: e per contro al simultaneo affacciarsi di due vecchie entità in passato apparse dormienti e ora avviate a rivelarsi come protagonisti mondiali, cioè la Cina e l’India, con un totale di due miliardi di soggetti.

E ancora: sul piano delle idee la seconda guerra mondiale è stata la sconfitta di tutta la cultura romantica e di molti dei suoi derivati, e per contro l’affermazione, in larga parte dell’umanità, del «marxismo realizzato».

Come pure è stata l’inizio e il progresso di costumi e di modi di vita, individuali e collettivi, radicalmente mutati, assai più di quanto non sia avvenuto in proporzione con la «grande guerra»: costumi e modi di vita diffusamente permeanti ovunque: ovunque dalle metropoli ai villaggi, dall’America all’Africa e all’Asia, in conseguenza dei nuovi mezzi di comunicazione sociale, la televisione soprattutto.

E infine la seconda guerra mondiale è stata l’eccezionale incremento di nuove tecnologie e quindi l’inizio di un balzo incommensurabile negli oggetti, nell’intensità e nelle forme del la produzione industriale, con complesse, sempre più complesse conseguenze nella trama e nell’ordito dell’economia e della finanza delle nazioni e in quella internazionale.

Ma correlativamente non sono mancate anche novità decisive che la seconda guerra mondiale ha implicato o avviato sul piano delle grandi religioni: anzitutto con un fatto ancora di incalcolabile importanza spalancando la strada al «sionismo realizzato» e al ritorno di milioni di ebrei alla terra dei padri e alla loro lingua e cultura; e ancora innestando nuovi fermenti critici e dinamici nel cristianesimo; e infine determinando, con certe premesse economiche (petrolio) e sociali e nuove ideologie, il risveglio dei popoli arabi e il conseguente rialzarsi mondiale dell’islam.

Infine, proprio sulla soglia del suo termine, la seconda guerra mondiale ha lasciato in eredità al futuro due oggetti che hanno condizionato l’ultimo mezzo secolo e che ancora condizioneranno gli anni a venire:

– cioè la V2, il missile lanciato sull’Inghilterra a partire dal settembre 1944, costruito dal giovanissimo ingegnere Wernher von Braun (che alla fine della guerra si consegnò agli americani e che concorse in modo decisivo alla costruzione dei missili intercontinentali e del missile Saturno che consentì lo sbarco sulla luna);

– e l’altro: la bomba atomica, esplosa per la prima volta a Hiroshima il 6 agosto 1945.

La congiunzione di questi due oggetti ha tenuto il mondo sotto l’equilibrio del terrore.

 

Tutte queste cose, se pure in diverse proporzioni di sviluppo, sono comprese o almeno si sono iniziate tra il 1o settembre 1939 (invasione tedesca della Polonia) e il 2 settembre 1945, cioè quando – dopo i due roghi atomici di Hiroshima e di Nagasaki – il Giappone accettò la resa senza condizioni agli americani: e la guerra ebbe allora davvero termine.

In questo enorme evento globale sono incluse anche le conseguenze che esso ha provocato per l’Italia: più di 400.000 morti tra militari e civili; stragi e deportazioni senza limiti; incalcolabili distruzioni e rovine (nel 1945 la produzione industriale era ridotta al 30% di quella del 1938; la produzione cerealicola a 41 milioni di quintali di fronte agli 81 milioni del 1938; l’inflazione era salita spaventosamente (da 22 miliardi di lire circolanti nel 1938 a 319 miliardi nel ’45, che arrivarono nel ’49 a 869 miliardi); e ancora e soprattutto l’aggravarsi culturale ed etico-sociale, oltre che economico-politico, dello squilibrio tra il sud (occupato dagli alleati) e il nord (occupato per quasi due anni dai tedeschi); e infine la distruzione di ogni tessuto e istituzione civile e politica.

Ma queste, che furono le conseguenze per noi italiani, vanno incluse nell’evento «seconda guerra mondiale»: e non dovevano essere, nel 1945, e non possono neppure oggi essere considerate a parte, ma vanno inquadrate e potenziate dalla considerazione dell’evento mondiale in cui sono inseparabilmente iscritte.

 

 

 

II.

 

E di diritto e di fatto questo evento mondiale fu ben presente sin dagli inizi ai lavori precostituenti e costituenti.

I lavori preparatori guidati dal Ministeri della Costituente (ministro Nenni) non potevano non risentire di questa atmosfera globale: in particolare nella cosiddetta Commissione Forti sulla Riorganizzazione dello stato, insediata il 21 novembre 1945, cioè a pochissimi mesi dalla fine della guerra e dal suo ultimo episodio, le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. I lavori della Commissione Forti non rimasero chiusi e sigillati nel Ministero della Costituente, ma ne fu dato regolarmente conto in un apposito bollettino di informazione, cosa che si augurerebbe ancora oggi per la cosiddetta Commissione Speroni.

Perciò il clima della Commissione Forti, almeno nelle sue idee essenziali, non poteva non trasmettersi all’Assemblea Costituente eletta a un semestre di distanza (il 2 giugno 1946) che, con il contemporaneo referendum istituzionale, metteva fine alla monarchia e dava inizio alla repubblica.

Anche il più sprovveduto o il più ideologizzato dei costituenti non poteva non sentire alle sue spalle l’evento globale della guerra testè finita. Non poteva, anche se lo avesse cercato di proposito in ogni modo, dimenticare le decine di milioni di morti, i mutamenti radicali della mappa del mondo, la trasformazione quasi totale dei costumi di vita, il tramonto delle grandi culture europee, l’affermarsi del marxismo in varie regioni del mondo, i fermenti reali di novità in campo religioso, la necessità impellente della ricostruzione economica e sociale all’interno e tra le nazioni, l’urgere di una nuova solidarietà e l’aspirazione al bando della guerra.

Quindi l’acuirsi delle ideologie appena ritrovate e l’asprezza dei contrasti politici tra i partiti appena rinati, e lo stesso nuovo fervore orgoglioso determinato dalla coscienza resistenziale non potevano non inquadrarsi, in corto modo, in più vasti orizzonti, al di là di quello puramente paesano e non poteva non inserirsi anche in una nuova realtà storica globale a scala mondiale.

Insomma, voglio dire che nel 1946, certi eventi di proporzioni immani erano ancora troppo presenti alla coscienza esperienziale per non vincere, almeno in sensibile misura, sulle concezioni di parte e le esplicitazioni, anche quelle cruente, delle ideologie contrapposte e per non spingere in qualche modo tutti a cercare, in fondo, al di là di ogni interesse e strategia particolare, un consenso comune, moderato ed equo.

Perciò la Costituzione italiana del 1948 si può ben dire nata da questo crogiolo ardente e universale, più che dalle stesse vicende italiane del fascismo e del postfascismo: più che dal confronto scontro di tre ideologie datate, essa porta l’impronta di uno spirito universale e in certo modo trans-temporale.

È qui il luogo di ricordare che questa base di largo consenso – nonostante i dibattiti assai vivaci lungo il corso di tutti i lavori e gli antagonismi che dividevano allora il paese – portò a una votazione finale del testo della Costituzione che raggiunse quasi il 90% dei componenti dell’Assemblea costituente.

Non solo emblematicamente ma effettivamente la triplice firma apposta alla sua promulgazione il 27 dicembre 1947 sta a significare in modo causativo la coscienza unitaria dalla quale nasce: la firma di Enrico De Nicola, capo provvisorio dello stato, erede della tradizione liberale; la firma di Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea Costituente e fondatore, con Gramsci e Togliatti, del Partito comunista italiano; e la firma di Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio e già primo successore di Sturzo alla segreteria del partito popolare.

 

 

 

III.

 

Le premesse fatte erano necessarie per ben comprendere e motivare il carattere, spettante alla nostra Costituzione, di legge prima e suprema di tutto l’ordinamento repubblicano, dal 1948 in poi. Questo carattere è a un tempo:

– estrinseco, cioè relativo alle circostanze eccezionali che hanno maturato e fatto adottare la nostra Carta fondamentale, circostanze ben difficilmente riproducibili o equiparabili a qualunque altro evento-matrice della nostra storia;

– e insieme intrinseco alle disposizioni che la compongono, particolarmente, ma non solo, quelle della prima parte, che concerne le garanzie dei diritti fondamentali di ogni cittadino.

Questo carattere di legge superiore è rafforzato dalla speciale disposizione (art. 138) che ne assicura (come si dice) la rigidità. Rigidità che non vuol dire immodificabilità assoluta, ma che è una modificabilità speciale, cioè ottenibile solo con un procedimento tutto particolare, rafforzato rispetto al procedimento richiesto per qualunque altra legge o deliberazione degli organi dello stato.

Per essere ancora più concreti e più espliciti, si può convenire sull’opportunità, oggi, di certe modifiche nelle funzioni e nella struttura delle Camere, nel rafforzamento della figura del presidente del Consiglio nei confronti dei partiti e dei singoli ministri, nell’ampliamento anche forte dei poteri delle regioni, ecc.

 

Ma è importantissimo essere ben chiari sul principio rigoroso che tali modifiche non possono avvenire altro che con la piena osservanza della procedura legittima prescritta dall’art. 138.

E questo tanto più va detto e ribadito perché la cultura superficiale e facilona che si è andata formando negli ultimi anni sta perdendo questa coscienza e tende pian piano ad ammettere, almeno implicitamente o surrettiziamente, uno snervamento di principio (cioè indipendentemente, ripeto, dalle possibili e opportune riforme attuabili con l’iter prescritto); snervamento che implicherebbe ulteriori gravi affievolimenti di tutto il nostro ordinamento giuridico e sociale: con le ovvie conseguenze di una labilità generale dei diritti e dei doveri personali e comunitari, e di uno sviamento aggravato della coscienza etica collettiva.

 

 

IV.

 

E ora possiamo passare in rassegna alcuni principi fondanti della nostra Carta, che sono espressione del grande evento in cui essa si radica e che sono tuttora adeguati ai bisogni e ai caratteri della nostra società di oggi e di quelli che si intravvedono per il futuro.

1) Primo principio: quello dell’unità e indivisibilità del popolo italiano, e per conseguenza della sua espressione statuale, cioè della Repubblica italiana (art. 1 e 5).

Nel momento costituente, non erano ignote spinte tendenzialmente secessionistiche: non solo di qualche minoranza etnica al confine settentrionale od orientale, ma anche di una grande regione dell’estremo sud.

L’indipendentismo siciliano aveva anzi una sua rappresentanza all’Assemblea costituente.

Perciò fu quella un’occasione per prendere coscienza approfondita delle cause storiche, remote e recenti, e delle motivazioni in atto, sul piano sociale e politico, di queste tendenze secessioniste. E fu anzi l’occasione di incominciare, per quel che vi poteva essere di giusto, a dare loro soddisfazione, provvedendo con gli statuti regionali speciali, che ne soddisfacevano le esigenze più vere, ma a un tempo ribadivano con ben meditata e pacata fermezza e con rinnovate motivazioni l’unità e indivisibilità di tutto il popolo italiano.

Di fatto il nostro popolo era uscito dalla seconda guerra mondiale, dall’occupazione straniera, dalla prolungata divisione in due tronconi e dalla resistenza, era uscito, dico, cementato – al di là di tutti i problemi e gli squilibri vecchi e nuovi – e più consapevole della sua fondamentale coesione nazionale, etnica, culturale e socio-politica.

A questa fondamentale unità, nelle intenzioni dei costituenti e nel dettato della Costituzione, non si oppone – anzi si potrebbe dire che la convalida e la rende più piena e più ricca – il riconoscimento e ancor più il promuovimento delle autonomie locali (art. 5 e 114ss). (Anche se poi occorre soggiungere subito che questa parte della Costituzione ha trovato di fatto lenta, faticosa e ancora incompleta attuazione da parte del nostro legislatore).

Ma insieme occorre riconfermare in questa sede quanto ha scritto Giorgio Napolitano su La Repubblica del 13 maggio 1994, e cioè che «il discorso del federalismo va collocato all’interno del principio dell’unità e indivisibilità della Repubblica: questo infatti è uno dei principi costituzionali che non solo non si debbono da parte delle sinistre, ma non si possono da nessuna parte mettere in gioco».

 

2) Il principio personalistico: garantito per tutti i cittadini. In ognuno la Costituzione riconosce il valore insopprimibile e inviolabile della persona umana, e quindi della pari dignità sociale ed eguaglianza davanti alla legge, senza nessuna distinzione di sesso, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di posizioni personali e sociali (art. 3).

Da questo principio supremo la Costituzione deriva, prima di tutto, il diritto al lavoro (e perciò appunto la Repubblica è detta fondata sul lavoro: art. 1) e tutti gli altri diritti civili: libertà personale, inviolabilità del domicilio, libertà e segretezza della corrispondenza, libertà di circolazione e di soggiorno, libertà di riunione, di associazione, di professione religiosa, di propaganda e di culto, di pensiero, di stampa (tit. I).

Al medesimo principio si riconnettono anche tutti i rapporti sociali e le relative libertà (tit. II: e in particolare il diritto alla famiglia e alla salute e alla scuola), e i rapporti economici (tit. III: e in particolare la libertà sindacale e la libertà di sciopero).

Tale garanzia costituzionale dei diritti civili, sociali, economici, politici, è concepita dalla nostra legge fondamentale non come un riconoscimento statico, ma come una realtà dinamica, in via di sviluppo, cioè i diritti fondamentali devono essere assicurati dalla Repubblica:

– in modo negativo, rimuovendo gli ostacoli di ordine economico-sociale che possono ridurre di fatto la libertà e l’uguaglianza;

– in modo positivo, favorendo il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti ai vari livelli della vita del paese (art. 3 e 4).

Di più si deve aggiungere che per non pochi di queste libertà e diritti, secondo l’opinione oggi del tutto prevalente tra i costituzionalisti (meno una piccola minoranza) non si può dare rivedibilità costituzionale restrittiva, neppure nella forma prescritta dall’art. 138.

Può essere messa in dubbio solo la delimitazione delle disposizioni sottratte alla rivedibilità costituzionale, ma la immodificabilità assoluta è stata riaffermata da varie sentenze della Corte.

Prima di tutto affermando, a proposito dell’art. 7 (che introduce il riconoscimento dei Patti Lateranensi), che questi patti non potessero comunque violare le libertà fondamentali e i principi supremi della Costituzione.

Poi, a proposito dell’art. 11, riaffermando lo stesso concetto a proposito dell’ordinamento comunitario europeo.

Infine, nella sentenza n. 1146/1988, la Corte ha affermato che «la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale, neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quali la forma repubblicana (art. 139) quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assogettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione… Non si può pertanto negare che questa corte sia competente a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali, anche nei confronti dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale».

E un’altra sentenza, la n. 366/1991, ha affermato: «In base all’art. 2 della Costituzione, il diritto a una comunicazione libera e segreta è inviolabile, nel senso generale che il suo contenuto essenziale non può essere oggetto di revisione costituzionale».

 

3) Terzo principio: è la consistenza costituzionale attribuita a corpi intermedi – fra la persona e lo stato – territoriali e non territoriali: quali la famiglia, il comune, le province, la regione, le confessioni religiose, la scuola di vario ordine e grado, le università e le accademie, i sindacati, gli ordini professionali, i partiti, le libere associazioni di opinione, di assistenza, di volontariato, ecc.

Anzitutto va fatta qualche osservazione a proposito dei corpi intermedi territoriali: i comuni, le province, le regioni (art. 5 e 114ss). Ho già accennato che in materia si deve costatare una grave carenza nella volontà politica, nei decenni passati, di attuare la Costituzione in tutte le sue virtualità, sicché giustamente, da varie parti, si profilano proposte per modificare la Costituzione, nel senso del riconoscimento di una più larga e approfondita autonomia soprattutto delle regioni: in particolare e con le proposte avanzate dalla Lega Nord e con le proposte della sinistra, oggi formulate nel solco della Commissione bicamerale della scorsa legislatura.

Nelle proposte della Lega soprattutto di pochissime macroregioni, a parte la non dissimulabile tendenza secessionista, si deve rilevare l’irriducibile contraddittorietà costituzionale al principio dell’unità della Repubblica. Inoltre potrebbero portare – come già ha rilevato Stefano Rodotà – a una discriminazione dei diritti fondamentali dei cittadini, secondo l’area in cui si trovano a vivere: specie il diritto alla salute, il diritto al lavoro, il diritto all’istruzione.

Ma ancor più sono contraddittorie allo stesso principio da cui pretendono di muovere, cioè di esaltare le autonomie locali, perché porterebbero ad affievolire o ad alterare l’autonomia già raggiunta sinora da corpi intermedi (soprattutto le singole regioni già ben individuate, differenziate e funzionanti che verrebbero comunque – da un lato incorporate, e dall’altro gravemente pregiudicate nelle attuali loro relazioni paritarie con altre regioni incluse in una diversa macro-regione).

Al progetto della bicamerale si può per lo meno obiettare che spingendo – come è detto nella relazione che l’accompagna – «il regionalismo ai limiti del federalismo», non pare che abbia tenuto conto di una norma che è nella Costituzione tedesca (che oggi molti citano, forse senza averla letta), cioè l’art. 72, che attribuisce allo stato federale il compito di mantenere l’unità politica ed economica del paese e l’eguaglianza delle condizioni di vita dei cittadini «prescindendo dai confini territoriali di ogni singolo Land».

Questo o altra analoga norma non è detta esplicitamente nel progetto della bicamerale per fornirne il senso profondo e la chiave di interpretazione generale.

Quanto invece ai corpi intermedi non territoriali, data la loro grande varietà di scopi, di funzioni, di maggiore o minore immediatezza con la sfera di sviluppo della persona, può essere difficile fare un discorso unitario generale: ma va almeno detto che alcuni di essi presentano una insurrogabilità nativa che si connette strettamente ad alcune delle prerogative più inviolabili della persona (esempio precipuo la famiglia: ma anche la scuola, e anche le associazioni volontarie per certe forme particolarmente qualificate di assistenza), e perciò si ricollegano a un altro principio fondamentale della nostra figura di stato, che appunto stiamo per illustrare.

 

4) Quarto principio: che potrebbe essere detto il principio – non soltanto della separazione dei tre poteri secondo la dottrina classica dopo Montesquieu (legislativo, esecutivo, giudiziario), ma piuttosto il principio della diffusione del potere fra una pluralità di soggetti distinti, e dei reciproci contrappesi, e perciò di un più garantito equilibrio complessivo. Come recentemente ha confermato Sabino Cassese di fronte al pericolo di una dittatura elettiva (quale quella che potrebbe immaginarsi da certi sprovveduti membri della maggioranza) o per contro di un certo tipo di rafforzamento incontrollato dell’esecutivo, cioè del governo, il potere nelle democrazie contemporanee, e così anche nella nostra Costituzione, tende a una razionalizzazione e a distribuirsi in una pluralità di soggetti veramente di estrazione diversa e tra loro indipendenti.

Si hanno così:

– poteri elettivi: il parlamento, di una o due Camere, elette in modo diverso, cui compete la funzione legislativa vera e propria;

– ancora poteri elettivi concorrenti con i precedenti, ma in modo differenziato, per estrazione e per competenze, cioè le assemblee regionali, che si devono integrare con l’apporto delle province e dei comuni;

– poteri non elettivi, ma designati solo in base alla loro competenza tecnica, accertata con pubblico concorso, assunti e soggetti a un ordine autonomo da ogni altro potere, per la sola funzione giudiziaria, ed espressi e coordinati dal Consiglio superiore della magistratura (di estrazione mista);

– altri poteri, per aree sottratte, nel loro specifico più proprio, all’indirizzo del governo, e costituzionalmente garantite nella loro indipendenza: per esempio la scuola (art. 33);

– infine la stessa gestione amministrativa (non nel suo indirizzo e nel suo controllo), che è compito proprio della burocrazia;

– da ultimo vi è il potere di garantire la Costituzione, affidato a un organo, la Corte costituzionale, che si potrebbe dire un vero e proprio contropotere: che può perciò annullare persino decisioni del parlamento (proveniente esso pure da un’investitura mista: il capo dello stato, la magistratura e il parlamento).

Orbene, tale razionalizzazione del potere, cioè questa distribuzione del potere fra soggetti adeguatamente distinti e contrappesati, è forse uno dei pregi più raffinati e delicati della Costituzione italiana, ne costituisce un risultato positivo e davvero meritevole della più gelosa salvaguardia, al di là di ogni riforma possibile.

È anche un condensato perfettamente sintetico di tutta la nostra vicenda storica e dell’evoluzione istituzionale dell’ultimo secolo in Europa: potrà esigere qualche perfezionamento (al massimo una figura più stabile ed effettivamente coordinatrice del primo ministro), ma assolutamente non può essere giocata sull’onda di avventati presidenzialismi che precipiterebbero il nostro alto livello costituzionale in una regressiva catastrofe. Come pure non può essere messa in pericolo da qualunque riforma che intacchi la totale indipendenza e unità (comprese le procure), dell’ordine giudiziario.

Fra l’altro, può tornare a proposito una smentita energica di un bugiardo e incomponibile abbinamento – oggi di moda nelle fantasie riformatrici di certe parti politiche e nei discorsi più superficiali dei media – cioè l’abbinamento del federalismo-presidenzialismo. Come se fosse avente un minimo di razionalità. Non si avverte che o si dà un federalismo reale e forte, e allora non può esservi neppure l’ombra di un presidenzialismo efficiente, ma solo una specie di vago direttorio collegiale delle cosiddette macro-regioni; o si dà presidenzialismo effettivo, e allora non si dà che una facciata di federalismo, destinata, o prima o poi, a mostrare la sua insostenibilità reale, cioè a sparire e ad essere inghiottita dal potere accentratore dell’unico Presidente eletto dal Popolo.

 

 

 

V.

 

Per finire, dobbiamo ancora ritornare all’articolo 138 della Costituzione circa il modo della sua revisione.

Il 24 agosto scorso, il governo ha presentato al Senato un progetto intitolato dapprima come «Norme transitorie in materia di revisione costituzionale».

Si propone cioè una modificazione dell’articolo 138. L’attuale articolo 138 prevede, per la definitiva approvazione delle leggi costituzionali, il referendum popolare solo quando esse non siano state approvate nella seconda votazione prescritta delle due Camere con la maggioranza di due terzi di ciascuna Camera, e faccia invece domanda del referendum, entro tre mesi dalla pubblicazione della legge, un quinto dei membri di una Camera, oppure 500.000 elettori, oppure 5 consigli regionali. La norma transitoria, che dovrebbe essere adottata per le leggi costituzionali che saranno approvate nel corso della presente legislatura, prevede comunque il referendum popolare.

Che dire? Può sembrare una concessione all’eventuale opposizione, e infine un rafforzamento della rigidità costituzionale: può sembrare, come dice la relazione del governo, studiato perché i cittadini «possano partecipare pienamente al processo di riforme del nostro sistema istituzionale, perché soprattutto le nuove regole, suggellate dal voto popolare, divengano e siano sentite da tutti come patrimonio comune, come conquista duratura entro cui proseguire proficuamente la nostra esperienza democratica».

Ma anzitutto si può obbiettare la stranezza di una norma transitoria da valere solo per la presente legislatura: e per la prossima? Ci si vuole mettere forse al sicuro dalla previsione di un’alternanza nella maggioranza? Da qui il sospetto non irragionevole di una norma di comodo per l’attuale maggioranza.

In secondo luogo la concessione di un solo mese di tempo dalla pubblicazione della legge all’indizione del referendum. Soprattutto nella previsione di una riforma organica di tutta o di grande parte della Costituzione, come si può pensare che in questo lasso così breve si possa prendere da tutti i cittadini una conoscenza adeguata del progetto, dare agli esperti la possibilità di discuterlo, e sperare che le ragioni in contrario addotte dagli esperti possano rifluire con serenità e diffusamente sull’opinione pubblica?

Questa è una obiezione assoluta al progetto: da fare valere in modo intransigente, richiamando i tre mesi previsti dall’articolo 138. Altrimenti il sospetto ragionevole diventerebbe certezza che tutto è preordinato per una riforma precipitosa sulla quale si vuole carpire un consenso irriflesso della gente.

E poi nel merito: il referendum previsto dall’attuale articolo 138 è nell’intenzione dei costituenti un referendum oppositivo, perciò non rimesso all’iniziativa del governo, ma di chi contesta la nuova legge costituzionale, mentre diventerebbe ora un referendum confermativo: e questo sposta tutte le previsioni sul controllo della Corte costituzionale che deve garantire l’omogeneità e l’univocità del quesito sottoposto al popolo.

La Corte costituzionale ha più volte ribadito 1’inammissibilità del referendum abrogativo avente contenuto multiplo e disorganico, come è ovvio, per l’impossibilità degli elettori di esprimersi alternativamente con un sì o un no chiaro. Ma tutto questo è relativo all’oggetto dei referendum abrogativi, quali sinora sono stati sempre i referendum sottoposti al popolo.

Si avrebbe così l’assurdo di un requisito necessario per il meno, cioè per l’abrogazione di una legge, e non per il più, cioè per l’introduzione di una revisione costituzionale che potrebbe estendersi a una complessa pluralità di istituti. E che accadrebbe quando tra questi istituti ce ne fosse qualcuno (come il famoso tetto fiscale da non oltrepassare) che può allettare il consenso di molti e può far passar sopra ad altre più impervie riforme?

Ma anche al di fiori di questa ipotesi limite, è ben chiaro che, proponendo all’elettore una pluralità di oggetti, si tenderebbe a fare spostare l’attenzione dell’elettore non tanto sui quesiti espliciti sottoposti, ma sul quesito implicito, cioè l’approvazione generale della politica del Governo.

Il costituzionalista di Firenze Paolo Barile ha proposto che il controllo sul quesito proposto al referendum confermativo, se proprio lo si volesse ritenere escluso dalla competenza esplicita della Corte costituzionale, venga comunque esercitato dalla Corte di cassazione in sede di Ufficio elettorale centrale; oppure che si possa sperare che il presidente della repubblica rilevi di sua iniziativa, come garante della Costituzione, l’inammissibilità di un referendum su un quesito complesso e disomogeneo; o che infine la Corte costituzionale possa essere investita di un conflitto istituzionale contro l’atto presidenziale di indizione del referendum.

Ma lo stesso Barile si dichiara consapevole che il vero rimedio, la soluzione lineare, sarebbe che il parlamento varasse una modifica della legge del 1971 sul referendum, per introdurre il controllo della Corte costituzionale anche per il referendum confermativo.

Sarebbe questo il modo, retto e chiaro, di dare una prova concreta di buona fede da parte dell’attuale maggioranza.

Ma lo possiamo sperare?

 

 

Giuseppe Dossetti

 

 

Note:

 

1 Dati ricavati da: B. Liddel Hart – B. Pitt, Storia della seconda guerra mondiale, Rizzoli, Milano 1967, vol. VI, 525, (trad. it. dell’originale inglese History of the Second World War, Purnell, Bristol 1966, opera curata dall’Imperial Museum di Londra).

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