di Giuseppe Savagnone
Mai, forse, come in questo momento della storia è stata forte la tentazione di dubitare del senso e del valore della democrazia. Ovunque si volga lo sguardo, la fiducia nelle capacità di discernimento del “popolo”, che dovrebbe esserne la base, riceve ogni giorno dolorose smentite. Se anche si prescinde dalle correnti islamiche fanatizzate, basta una rapida scorsa alla situazione dei grandi Paesi occidentali per vedere lucidamente che le spinte emergenti sono rivolte, attualmente, alla difesa dei privilegi e non alla condivisione, alla chiusura e non all’apertura, al mantenimento dello status quo e non al cambiamento.
Dagli Stati Uniti all’Inghilterra, dalla Germania all’Italia agli Stati dell’Europa Orientale, il “popolo sovrano” sembra interessato a una cosa, più che ad ogni altra: la difesa dei propri interessi, interpretati in un modo così angusto e miope da determinare, poi, l’effetto contrario a quello voluto (esemplare il caso della Brexit). Le grandi prospettive, aperte su un mondo nuovo e diverso, le visioni ariose del futuro, che avevano ispirato il progetto di una vera comunità politica europea al tempo di Schuman, di Adenauer, di De Gasperi, o il sogno della “Nuova Frontiera” al tempo del presidente americano John Kennedy – quali che siano stati, poi, i limiti e le contraddizioni di questi personaggi e delle loro effettive scelte politiche – , sono un vago ricordo menzionato nei manuali scolastici.
E’ vero: queste rotture col presente richiedono un senso critico e una progettualità che sono sempre stati per lo più riservati alle élite. La gente comune di solito ha troppi “pensieri” per poter avere il tempo e la voglia di pensare. Ma in passato aveva trovato dei validi punti di riferimento in personalità autorevoli e creative, che avevano saputo attirare l’attenzione e il consenso popolare con proposte significative, di cui tutti avevano potuto capire il valore. È difficile trovare traccia di ciò nello squallore della lotta in corso per la Casa Bianca, nelle convulsioni populiste che agitano la maggior parte degli Stati europei, nell’attuale rissa, a casa nostra, sul referendum costituzionale.
La crisi delle nostre democrazie è in fondo la crisi di classi dirigenti divenute incapaci di dire cose davvero nuove e interessanti alle masse dei loro rispettivi Paesi, sempre più divise tra una indifferenza che rasenta la rassegnazione (vedi la crescita dell’astensionismo) e una ribellione, in fondo altrettanto disperata, contro i cambiamenti storici in corso (vedi i “muri”, fisici o spirituali, per fermare i migranti).
Sto rileggendo in questi giorni alcune pagine che un grande filosofo francese, Jacques Maritain – famoso per la sua opera Umanesimo integrale, ritenuta l’ispiratrice di molti partiti democratici cristiani del Novecento – , ha scritto all’indomani della seconda guerra mondiale in un altro libro, L’uomo e lo Stato. Maritain era un convinto sostenitore della democrazia e ha dovuto faticare non poco per farne comprendere il valore a un mondo cattolico ancora diffidente, in molti settori, nei suoi confronti. Eppure, egli è perfettamente consapevole che «il popolo sonnecchia. Come regola generale la gente preferisce dormire». Per questo, egli osserva, «il popolo dev’essere risvegliato». Non una volta, non due, non tre: continuamente. E non sempre i suoi rappresentanti sono in grado di farlo perché, avendo un disperato bisogno del consenso della maggioranza, non si possono permettere il lusso di essere davvero alternativi ai sogni mediocri dei più.
Secondo Maritain, dunque, al di là delle persone che si sceglie – a sua immagine e somiglianza, salvo poi a lamentarsene (giustamente) – «il popolo ha bisogno di profeti». Per questo egli ha parlato della necessità di «minoranze profetiche d’urto» – come lui le chiama – , che esercitino questo difficile e scomodo ruolo. Ciò a cui Maritain pensava erano «piccoli gruppi dinamici liberamente organizzati (…) che non si interessassero dei successi elettorali, ma si votassero totalmente a una grande idea sociale e politica, e che agissero come un fermento all’interno dei partiti politici o al di fuori di essi».
Coloro che volessero dar vita a queste «minoranze profetiche» dovrebbero avere delle profonde convinzioni di fondo, maturate in un clima comunitario di sincero confronto e possibilmente di amicizia, capaci di ispirare poi delle proposte veramente alternative sui problemi pratici. Dovrebbero inoltre essere consapevoli delle difficoltà e dei sacrifici a cui sarebbero votati dal loro compito (non dimentichiamo che i profeti spesso vengono perseguitati, e che ai membri di queste minoranze è assegnata una funzione di «urto» destinata a suscitare reazioni). Dovrebbero infine dedicarsi davvero al servizio del popolo, e non strumentalizzarlo per i propri fini settari. Perché il rischio di un simile travisamento – è inutile negarlo – c’è.
Se si rispettano queste premesse, però, delle «minoranze profetiche d’urto» possono essere funzionali a una corretta esperienza democratica, tenendo viva nell’opinione pubblica la tensione vero ciò che supera il ristretto orizzonte del presente e i meschini calcoli dell’utilità immediata. E, se quello che dicevo all’inizio è vero (e mi sembra davvero difficile negarlo), forse come non mai abbiamo bisogno, in Italia e non solo in Italia, del fiorire di iniziative politico-culturali di questo genere, non come alternativa al “governo del popolo”, ma per risvegliare, al di là della frammentazione provocata dagli interessi particolaristici, la coscienza di questo popolo, condizione essenziale perché esso torni ad essere davvero “sovrano”.
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