(foto d’archivio privato concessa da Nora Ales: padre Puglisi è l’ultimo in alto, a destra)
di Valentina Chinnici
Padre Puglisi a casa mia è sempre stato una figura mitica.
Mia madre se lo era ritrovato compagno di classe, all’Istituto Magistrale De Cosmi: un ragazzino smilzo con i calzoncini corti, seduto nel banco dietro di lei.
A quel tempo mia madre portava lunghissime trecce nere, di cui andava tanto fiera, e quel compagnetto dispettoso si divertiva a tirargliele con energia, per poi assumere aria serissima e impassibile di fronte alla professoressa che non capiva perché mai la composta signorina Ales si agitasse all’improvviso nel suo primo banco.
Ci raccontava spesso mia madre di quegli occhi vivi e intelligenti, di quanto fosse bravo in matematica, aggiungendo, con sottile compiacimento, che nei temi però era più brava lei: ogni tanto, infatti, lo aiutava al punto che una volta la solita professoressa aveva mormorato: “Puglisi, Puglisi, mi pare che qui c’è lo zampino di Ales”.
Passarono due anni.
All’inizio del nuovo anno scolastico, però, il secondo banco restò vuoto: Dov’è Puglisi? Mah… Dice che è entrato in seminario. Si vuole fare parrino. C’era rimasta male mia madre. In fondo le sarebbe mancato quel ragazzino sempre sorridente, con le orecchie grandi e le mani immense. Lo ritrovò, trent’anni dopo, e fu ben lieta di affidargli le sue figlie nei ritiri spirituali che teneva in giro per la Sicilia. Mi ricordo un’estate, a Romitello, quando andammo a riprendere le mie sorelle maggiori, e io nutrivo un po’ d’invidia perché ero ancora troppo piccola per questi ritiri. Invidiavo le mie sorelle contente, che raccontavano di questo prete semplice e speciale, disposto a confessarti persino mentre era al volante per andare a recuperare il ritardatario di turno, se capiva che per te era urgente. Me lo ricordo ancora, nella primavera del ’93, ritto in piedi sulla scalinata del sagrato della mia parrocchia, dove era venuto in visita per non so quale incarico diocesano che rivestiva. Siccome appunto, a casa nostra lui era un piccolo mito, lo guardai a lungo, emozionata e indecisa sul salutarlo. Mi venivano in mente solo frasi del tipo: Salve, sono la figlia di Noruccia Ales, la compagna a cui lei tirava le trecce al De Cosmi! Oppure: Buongiorno, sono Valentina, le mie sorelle hanno fatto dei bellissimi ritiri spirituali con lei a Romitello, anni fa.
Mi parvero frasi troppo stupide e dunque, saggiamente, tacqui. Lui però si accorse di quello sguardo fisso e lo ricambiò con un sorriso luminoso e cordiale. Scappai via a casa e riferii a mia madre di quell’incontro fortunato. Che bello, commentò. Me lo hai salutato, non è vero?
“Veramente no. Però mi ha sorriso”. Ah, fece mia madre delusa. Sei sempre la solita timida.
Mi ricordai di questo episodio insignificante sei mesi dopo, quando, il 15 settembre, i boss di Brancaccio si accorsero che il piccolo parrino cominciava a diventare pericoloso, e per questo andava tolto di mezzo. Ricordo ancora la reazione incredula e straziata di mia madre, durante il telegiornale: Lo sapevo che era un santo, ma non pensavo che avrebbe avuto il coraggio del martirio. Come Gesù Cristo…
Da quel giorno padre Puglisi fu ufficialmente santo a casa mia. Mia madre incominciò a pregarlo come già faceva con papa Giovanni, che in effetti a quel tempo non era santo neanche lui, e sistemò una sua fotografia nel suo altarino personale, in camera da letto, accanto a quella di suo padre, dei suoi fratelli defunti e, appunto, all’immaginetta di papa Roncalli.
Adesso, che faccio l’insegnante di lettere, e proprio nella scuola media dove anche padre Pino fu professore di religione per qualche tempo, mi ritrovo spesso a parlare di padre Puglisi, a far vivere la sua testimonianza, il suo messaggio di legalità, di giustizia, di attenzione agli ultimi.
Non poteva dunque lasciarmi indifferente il gran fermento vissuto in questi giorni dalle parrocchie palermitane, impegnate ad accogliere proprio una reliquia di padre Pino Puglisi: si tratta di un frammento di una costola, quella più vicina al cuore, parte della quale è stata anche inviata a papa Francesco. Le scolaresche ricevono inviti a partecipare a questo evento/celebrazione, in cui si prende spunto dal passaggio della reliquia, custodita in una teca d’argento cesellato, per fare memoria della figura di Don Pino, il piccolo parroco che fece paura ai boss della sua Brancaccio.
Ora, da insegnante – e da cattolica – che ha portato con sé i propri ragazzi, molti dei quali musulmani, indù o non credenti, non posso fare a meno di domandarmi quale sia la funzione, per la Chiesa del terzo millennio, della venerazione di una reliquia. A cosa serve insomma una reliquia? A ricordare che il beato è vissuto davvero e che la sua testimonianza è autentica? Se è questo il motivo, non bastava forse la testimonianza di quanti lo hanno conosciuto e ne diffondono a tutt’oggi le parole e i gesti? Se si voleva un qualcosa di tangibile, non sarebbe bastato, per esempio, il testo della Bibbia che è stato sepolto con lui nella sua stessa bara, a dire l’amore immenso che padre Pino nutriva per le Scritture?
Era veramente necessario asportare quel frammento osseo, esporlo in una solenne urna d’argento e farlo girare per vie e parrocchie, in cortei guidati dalle confraternite? Proprio lui, Padre Puglisi, che certa mentalità devozionistica aveva combattuto, tanto che, come testimonia un amico: “Si era dovuto confrontare duramente due anni addietro quando, appena arrivato a Brancaccio, aveva dovuto controbattere alle richieste di dar vita ad una festa grande e dispendiosa in onore del santo. Lui aveva messo alla porta quegli uomini ritenendo scandaloso che in un quartiere così povero fosse possibile pensare a sperperare tanto denaro in inutili luminarie e in rumorosi fuochi pirotecnici. Modesto ed umile, padre Puglisi evitava sempre le luci dei riflettori, anche quando operava in prima fila”[1].
In un suo celebre componimento, il poeta latino Orazio diceva di se stesso “Non omnis moriar”, Non morirò del tutto. E aveva ragione, perché il suo carpe diem lo ha eternato da duemila anni molto di più che se avessimo rinvenuto una qualsiasi testimonianza tangibile della sua esistenza. Quanto più allora non morirà mai padre Puglisi, con quel suo “Me l’aspettavo” che ha toccato persino il cuore del suo assassino, a cui ha rivolto un sorriso che resterà per sempre come una reliquia.
Certo, le reliquie esistono in molte religioni, e nella Chiesa hanno una loro secolare tradizione, che rimanda all’importanza della dimensione corporea della nostra Fede nel Dio incarnato. Ma siamo certi che sia ancora imprescindibile, in una società multietnica e postmoderna, rinverdire questa tradizione medievale, che tra l’altro non è e non deve essere dirimente in un percorso di fede, se è vero che lo stesso Gesù ha rimproverato Tommaso che voleva vedere e toccare il costato ferito del Signore, proclamando beati quelli che pur non avendo visto crederanno?
E’ curioso constatare come l’usanza delle reliquie si trovi anche in ambito del tutto laico.
A Washington, ad esempio, sono conservati i capelli del presidente omonimo, lenzuola e fazzoletti imbevuti del sangue di Lincoln e l’unghia del piede di Elvis Presley, così come celebre è il cuore del famoso compositore e pianista Fryderyk Chopin, custodito in Polonia.
Quanto a noi Cattolici, che con la venerazione delle reliquie marchiamo ulteriormente la distanza dai fratelli protestanti, dobbiamo sempre vigilare perché questa antica usanza sia almeno riempita di un qualche senso forte, per far sì che una figura straordinaria come quella di padre Puglisi non sia relegata a oggetto di adorazione a scopo miracolistico e/o devozionistico. La pietà popolare è importante e merita rispetto, certamente, ma qui è in gioco la testimonianza autentica del prete di Brancaccio. Altrimenti le reliquie finiscono con lo svuotarsi di senso, e diventano merce buona per essere venduta sui siti internet, dove infatti si trova mercimonio di sedicenti reliquie di don Bosco o addirittura della Madonna e di San Giuseppe, quest’ultima alla modica cifra di 350 euro[2].
Vigiliamo, allora, con rispetto ma con intransigenza, perché la reliquia, quale che sia, possa essere solo e soltanto un volano, un dito puntato verso il cielo, che ci spinga a indagare, per esempio, come e perché quel piccolo parrino faceva tanta paura ai boss del suo quartiere. Cosa faceva concretamente, oltre a ‘togliere i ragazzi dalla strada’ come fanno migliaia di preti in tutte le periferie del mondo?
Su Internet, per fortuna, si trovano anche reliquie vere, e non solo le patacche di ebay. Una per tutti, la voce viva di padre Pino che ci ricorda, con forza, che, se ognuno fa qualcosa… allora si può fare molto.
Solo così la testimonianza di padre Puglisi non sarà mai minimamente appannata.
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