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Forse siamo più bravi a cantare

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di Giuseppe Savagnone

 

 

 

   L’accanita discussione di questi giorni sul ddl Cirinnà, in Parlamento e fuori, ha lasciato aperti i problemi su cui si sono scontrati maggioranza e opposizione, ma ha soprattutto evidenziato la grande  difficoltà che abbiamo, nel nostro Paese, a fare un dibattito degno di questo nome. Giustamente da parte di alcuni – di entrambe le parti – si è fatto notare che la posta in gioco  avrebbe meritato maggiore serietà  di quella dimostrata dai protagonisti del confronto. Anche se, a dire il vero, la discordia comincia già nell’individuare quale sia questa posta:  per i sostenitori del ddl il riconoscimento dei diritti di cittadini, per gli oppositori la salvaguardia o meno della identità dell’istituto matrimoniale.

 

   Ma, per quanto inquietante, questa difficoltà radicale di comunicazione  non è stato il fatto più allarmante. Più grave è stata la percezione, avvertita da molti, che il problema oggettivo sia diventato ostaggio di strategie o addirittura di tattiche partitiche, che l’hanno trasformato da questione etico-politica in strumento di propaganda pre-elettorale. Gli scontri che si sono verificati non solo e non tanto fra i partiti, ma al loro stesso interno, sono sembrati spesso dominati, più che da un reale interesse a far prevalere ciò che è giusto e conforme al bene comune,  dall’intento  di mettere in difficoltà gli avversari e di vincere, alla fine, un braccio di ferro.

 

   In questa logica si capiscono le esagerate mosse ostruzionistiche dell’opposizione, che ha presentato migliaia di emendamenti, e le ancora più scomposte contromisure messe in opera dal governo e dai sostenitori del ddl Cirinnà, col cosiddetto “canguro”, volto a cavalcarli in un sol colpo, colpendo, così, la legittima dialettica democratica e non solo la forma discutibilissima con cui i “nemici” cercavano di farla valere.   Che, a questo punto, il movimento 5 stelle,  punto fermo nello schieramento dei sostenitori del ddl, abbia cambiato idea almeno tre volte nel giro di pochi giorni – passando dal pieno appoggio al “canguro” e dal rifiuto di votare altro che il ddl nella sua integrità, alla disponibilità a votarlo senza l’articolo sulle adozioni,    alla decisione di lasciare libertà di coscienza nella votazione (sempre sulla base dell’adesione al “canguro”), fino al repentino ritiro del suo appoggio al “canguro”, che ha rimesso tutto in discussione – è perfettamente intonato al contesto.

 

   Non è solo la classe politica, però, a diversi interrogare sulla sua capacità di parlare seriamente di cose serie. La stampa ha fatto la sua parte. Emblematico l’episodio che ha visto protagonista il cardinale Bagnasco. Il suo famoso invito a ricorrere al voto segreto ha suscitato polemiche infinite. Laici e moltissimi cattolici sono insorti contro quella che è stata definita una «entrata a gamba tesa». Il presidente del consiglio e quelli delle due camere hanno garbatamente ma fermamente fatto appello alla laicità dello Stato. I commentatori hanno speculato su una guerra intestina nel seno dell’episcopato e indicato nella frase del presidente della CEI una possibile svolta nella linea di non interventismo dettata fin qui alla Chiesa da papa Francesco.

 

   Anch’io, lo dico francamente, ero molto seccato, come credente che ci tiene a essere anche un cittadino, di una simile  prova di integralismo clericale. Sono andato a verificare su «Avvenire», il giornale della Conferenza episcopale: non c’erano dubbi. La frase, pronunziata dal prelato rispondendo a un giornalista, mentre usciva da una celebrazione liturgica, era riportata tra virgolette: «Ci auguriamo che il dibattito in Parlamento e nelle varie sedi istituzionali sia ampiamente democratico, che tutti possano esprimersi, che le loro obiezioni possano essere considerate e che la libertà di coscienza su temi fondamentali per la vita della società e delle persone sia non solo rispettata ma anche promossa con una votazione a scrutinio segreto» («Avvenire» del 12 febbraio 2016).

 

   Ebbene, potete immaginare la mia sorpresa quando ho letto, due giorni dopo, su un quotidiano insospettabile, questa onesta precisazione riguardo all’accaduto: «Certo, l’errore è stato causato anche dalla fretta: Bagnasco ha dovuto rispondere a un giornalista per strada, fuori dalla celebrazione della funzione del mercoledì delle Ceneri e, a onore del vero, senza che egli abbia mai pronunciato l’espressione «voto segreto» che era invece contenuta nella domanda che gli era stata rivolta. Ma comunque un passo falso» (Paolo Rodari, su «Repubblica» del 13 febbraio 2016). Sono andato a rileggere la dichiarazione, eliminando questa aggiunta fatta dai giornali (compreso quello dei vescovi), e ho chiesto mentalmente scusa al card. Bagnasco per la mia istintiva reazione, perché ho dovuto riconoscere che si era limitato a enunciare un principio del tutto condivisibile, eludendo la domanda propriamente politica. Erano stati i giornali a creare il caso.

 

   E la società civile? Francamente mi sembra triste che la decisione di una questione così delicata debba passare attraverso il festival di Sanremo. È vero che da sondaggi condotti da un altro quotidiano anch’esso non sospetto, gli italiani sulla questione cruciale delle adozioni da parte di coppie omosessuali, sono in netta maggioranza contrari – il 54%, contro il 39% dei favorevoli –  (mentre c’è una prevalenza di favorevoli ai diritti: 52% contro 44%) –  (cfr. «Corriere della Sera» del 14 febbraio 2016), ma puntare  sui nastrini arcobaleno esibiti dai cantanti durante le loro esibizioni mi è sembrato un modo un po’ rozzo di fare pubblicità a uno dei due punti di vista, proprio mentre era in pieno svolgimento  la discussione. Anche se forse, per il modo in cui la si è condotta finora, è meglio ripiegare sulla nostra bella tradizione canora.

 

 

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