Giorgia Meloni: con Papa Francesco o con Trump?

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© EU/Christophe Licoppe in Wikimedia Commons

Due riferimenti personali

Nelle comunicazioni fatte nei giorni scorsi, in vista del Consiglio europeo, rispettivamente al Senato e alla Camera, Giorgia Meloni ha menzionato con stima due personalità di cui oggi, per motivi diversi, si parla molto.

«Voglio rivolgere un affettuoso saluto al Santo Padre che anche in un momento di prova non ha fatto mancare la sua forza e la sua guida», ha detto al Senato, suscitando una standing ovation che conferma come, almeno nel nostro paese, la figura di questo pontefice sia per tutti, al di là delle divisioni politiche, un punto di riferimento molto importante.

Alla Camera, invece, ha parlato in termini decisamente positivi di Donald Trump, elogiando la sua linea nelle trattative per risolvere la guerra in Ucraina e definendo quanto fatto finora dal presidente americano «un primo significativo passo che deve portare a una pace giusta e duratura».

Non stupisce il richiamo alla «guida» del papa da parte di una persona, come la Meloni, che ha sempre rivendicato la sua adesione al cristianesimo, e non soltanto come scelta strettamente personale, ma come ispiratrice della sua attività pubblica. 

È rimasto celebre il suo grido appassionato, durante il comizio tenuto in Spagna per il partito «Vox»: «Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy una madre, soy cristiana». 

E più volte, anche dopo essere andata al governo, la premier ha sottolineato la sua intenzione di tutelare e riaffermare i valori della tradizione cristiana, contro un laicismo “di sinistra” che li snobba e, ancora di più, contro una progressiva “sostituzione etnica” – che rischia di diventare anche religiosa e culturale – determinata dall’ingresso di un numero sempre maggiore di migranti provenienti dal mondo islamico.

Ma anche il riferimento al presidente degli Stati Uniti non ha nulla di sorprendente. Non sono un mistero la simpatia e la stima di Trump nei confronti della nostra premier, che è stata l’unica leader europea ad essere invitata alla cerimonia dell’insediamento del nuovo inquino della Casa Bianca e che già prima era volata appositamente a trovarlo per chiedergli l’autorizzazione al rilascio del tecnico iraniano accusato dalla CIA di terrorismo, nello scambio con Cecilia Sala. 

L’ambizione frustrata di Meloni di fare da “ponte”

Anche nei successivi sviluppi, che hanno visto il presidente americano assumere posizioni in assoluto contrasto con il diritto internazionale e ispirate, esplicitamente, al criterio della legge del più forte – come quelle nei confronti della Danimarca e di Panama, minacciati addirittura di un’aggressione militare in nome dell’interesse degli Stati Uniti a parti del loro territorio – , Giorgia Meloni ha ostinatamente rifiutato di prendere una posizione critica. 

Resistendo anche quando la minaccia, su un piano politico ed economico, si è rivolta contro l’Europa, esclusa dalla trattativa sull’Ucraina e colpita da dazi pesantissimi, che hanno coinvolto loro malgrado i governi europei in una vera e propria guerra doganale.

L’argomento portato dalla nostra premier per giustificare il suo silenzio tombale è l’esigenza di mantenere la possibilità di un dialogo con gli Stati Uniti. Un’esigenza, peraltro, condivisa da tutti gli altri governi europei, senza che questo impedisca loro di esprimere verso la nuova linea della politica americana una chiara posizione critica. 

Al fondo, in realtà, c’è, fin dall’inizio, l’ambizione della Meloni di fare da “ponte” fra le due sponde dell’Atlantico – fuor di metafora, fra le posizioni trumpiane e quelle delle democrazie europee – di cui però la forza dei fatti ha finora dimostrato in modo evidente il carattere puramente velleitario.

Tanto più che il presidente americano, al di là degli elogi, non sembra tenere in grande considerazione la nostra premier e, per il suo dialogo con l’Europa, ha preferito incontrare quello inglese Starmer e quello francese Macron.  

Alla Meloni non è rimasto che aggregarsi a malincuore alle riunioni indette dallo stesso Macron, suo storico rivale. E, alla fine, invece di unire i due campi contrapposti, ha finito per essere costretta a saltellare continuamente dall’uno all’altro aderendo una volta alluno, un’altra a quello opposto e rimanendo marginale in entrambi. 

Da un lato, è costretta, anche per motivi economici, a restare legata al carro europeo, come dimostrano anche la recente adesione al programma di riarmo e la partecipazione all’incontro di Londra dei paesi “volenterosi” intenzionati a creare una forza d’interposizione tra Russia e Ucraina (sia pure ribadendo l’intenzione dell’Italia di non inviare soldati italiani). 

Ma contemporaneamente si sono moltiplicati i segnali di adesione alla linea di Trump. Clamorosa la scelta dell’Italia di non firmare la protesta che tutti gli altri i governi occidentali hanno opposto alle sanzioni decise dal presidente americano contro la Corte Penale Internazionale, rea di aver emesso un mandato di cattura nei confronti del premier israeliano Netanyahu, amico del presidente americano. 

E, più recentemente, quella di non formare il documento del parlamento dell’UE in cui si criticava il modo in cui gli Stati Uniti stanno gestendo le trattative di pace in Ucraina.

Così come è stata molto significativa anche la decisione della Meloni di partecipare al convegno degli ultraconservatori organizzato in America dai seguaci di Trump, anche dopo che il suo ispiratore, Steve Bannon, aveva concluso il proprio intervento facendo il saluto nazista. 

Decisione la cui gravità è evidenziata dal contemporaneo rifiuto opposto invece, dopo quel gesto, dal leader dell’estrema destra francese, Bardella, indignato da questo esplicito riferimento a un passato che dovremmo tutti ricordare con orrore.

La pace di Trump e quella di Papa Francesco

L’apprezzamento senza riserve dell’operato del presidente americano nella questione Ucraina, espresso ora alla Camera, conferma questa linea. Il problema che si pone, a questo punto, è la compatibilità di queste prese di posizione pro-Trump con il riconoscimento della «guida» di Papa Francesco.

Perché è vero che il nuovo ospite della Casa Bianca ha ripreso con estrema decisione un tema che il pontefice da almeno tre anni continua a mette in primo piano nel suo magistero, quello della pace, ma proprio su questo punto sono evidenti le abissali differenze che separano le due prospettive. 

La pace di Trump è fondata sulla violenza nei confronti del più debole e ha uno sfondo dichiaratamente utilitaristico per il “pacificatore”. La «pace giusta» proposta dal presidente americano per l’Ucraina, con l’incondizionata approvazione della Meloni, si basa sull’esplicito ricatto per cui il popolo ucraino, dopo anni di sofferenze per difendere la propria autonomia, può salvarsi all’invasione militare russa solo accettando la colonizzazione – da parte dell’America –  del proprio sistema minerario e delle proprie principali fonti energetiche. 

Accettando per di più che il proprio presidente venga estromesso dal tavolo delle trattative in cui è ricevuto con tutti gli onori il governo aggressore, e pubblicamente umiliato a livello mondiale con un trattamento che si riserverebbe neppure all’ultimo dei servi. Per non parlare del  clamoroso capovolgimento della verità storica, per cui l’iniziativa della guerra è stata da Trump attribuita proprio all’Ucraina. 

Così la soluzione della guerra di Gaza sarebbe la deportazione in massa dei due milioni di palestinesi risiedenti nella Striscia per creare là un resort di lusso, cancellando con una conferenza stampa di 40 minuti tutte le regole del diritto internazionale, che definiscono la “pulizia etnica” un crimine contro l’umanità.

Senza una parola di critica – né tanto meno uno stop – ai metodi dell’esercito israeliano, che hanno meritato al premier dello Stato ebraico la condanna della Corte Pena Internazionale per i crimini commessi contro i civili.

Non è questa la pace che Papa Francesco  ha sempre invocato. Essa non è basata sull’arbitrio del più forte, ma sulla fraternità tra i popoli. E non è funzionale agli interessi economici del neocapitalismo, ma alla crescita delle persone. In ultima istanza, quella a cui il papa richiama si ispira a quel vangelo che, ad ogni pagina, è in radicale contraddizione con la logica a cui si ispirano le parole e i comportamenti di Trump.

Il test delle politiche verso i migranti

Un test particolarmente significativo di questa divergenza insanabile è l’atteggiamento verso i migranti. Già in campagna elettorale Trump aveva preannunciato «la più grande deportazione della storia», riguardante undici milioni di persone. 

Le immagini agghiaccianti, diffuse con orgoglio dalla stessa Casa Bianca e che ora stanno facendo il giro del mondo, raffiguranti colonne di poveracci incatenati e umiliati, trascinati verso gli aerei che devono portarli fuori del paese dove hanno cercato di ricostruire la loro vita, confermano che parlava sul serio. 

Non si va lontano dal vero se si riconosce in questa politica quella che la Meloni cerca di realizzare, sia pure ancora senza pieno successo, con il progetto Albania e in genere con tutta la sua politica migratoria.

Ricevendo sempre più consenso in un’Europa che ha smarrito le sue radici cristiane e non riesce a trovarne neppure di umane. E che, nell’illusione di difendere la propria identità, conferma, con questa paura dell’ “altro,” di non averne nessuna. In questo – solo in questo – hanno ragione i politici e i giornali di destra: l’Italia è un modello.

Papa Francesco ha innumerevoli volte denunziato questa politica come radicalmente anticristiana, arrivando a definirla «grave peccato». Né poteva fare altrimenti, perché il vangelo fa dell’accoglienza dello straniero bisognoso un criterio fondamentale per distinguere chi è con Cristo e chi non lo è. 

Il Signore addirittura arriva a identificarsi col migrante. «Fui forestiero e mi avete accolto» (Mt 25). Nell’ottica di un cristiano, quello che Trump e la Meloni stanno facendo è perseguitare Gesù stesso.

Ritornano le appassionate parole della nostra premier: «Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy una madre, soy cristiana». Sulle due prime affermazioni nessun dubbio.  Ma la terza rischia di essere, alla luce di quanto detto, solo uno slogan elettorale. 

Come un puro gioco retorico appare il riferimento a Francesco come «guida» a cui l’Italia – almeno quella istituzionale – si ispira. La cruda verità è che il nostro governo, e in particolare la sua premier, vanno nella direzione opposta a quella che da sempre la Chiesa propone nel suo insegnamento sociale e che Papa Francesco non si stanca di ribadire.

Il tentavo di mascherare questo dato innegabile si può spiegare con motivazioni di tipo elettoralistico, ma non giova alla serietà del discorso pubblico. Meloni deve scegliere se stare con il vangelo e con Papa Francesco, oppure con Trump.

2 replies on “Giorgia Meloni: con Papa Francesco o con Trump?”

  • Condivido pienamente. L-analisi è lucida e completa. Per Meloni valgono le parole “vergogna” e “tradimento”

  • Sono perfettamente d’accordo con l’analisi del prof.Savagnone. Meloni si comporta come un re travicello che vuole cavalcare i poteri “forti” per il suo, debole e infingardo.

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