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Gli appelli ai cattolici giovano ai cattolici?

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Il rischio della specificità

Nel suo editoriale di gennaio Nuccio Vara, il Direttore responsabile della rivista “Poliedro” – mensile dell’Arcidiocesi di Palermo –, ha delineato lo scenario politico che renderebbe opportuna un’assunzione di responsabilità da parte del mondo cattolico per arginare le derive prodotte non tanto dall’attuale governo – che semmai ha dato loro voce – ma da una sorta di regressione antropologica degli italiani, fatta di ripulsa verso ogni forma di solidarismo.

Nel suo contributo Vara ha anche fatto riferimento alla Lettera aperta ai cristiani pubblicata da Giuseppe Savagnone su questo nostro sito.

Entrambi gli interventi esorcizzano la possibilità di “ricorrere a vecchie formule e a soluzioni sorpassate” (Vara). Occorrerebbe dunque creatività e modalità nuove di intervento e di presenza, da parte dei cattolici.

Serve un’entità ben definita?

Con profondo rispetto per questo tipo di approcci, che giustamente pongono un tema serio che è quello del rischio di ignavia politica, non da ora nutro qualche perplessità sull’identificazione dei “cattolici” come entità ben definita cui rivolgere appelli specifici.

Peraltro nei contributi che si leggono qua e là si oscilla, a mio parere alquanto illegittimamente, tra l’appellativo di cattolici e quello di cristiani, per quanto nel pezzo di Vara ci sia la spia della consapevolezza che i cattolici sono una parte dei cristiani (“i cattolici tra essi”, scrive).

La Lettera a Diogneto da lui peraltro citata riguarda, appunto, i cristiani, perché all’epoca della sua composizione la differenza tra cattolici, protestanti e ortodossi era di là da venire.

Purtuttavia non si leggono analoghi appelli al mondo protestante o al mondo ortodosso.

Sembra che solo i cattolici possano essere destinatari del discorso politico, forse per la loro storica (e non sempre edificante) sensibilità per questi temi.

Ma a parte questa precisazione di carattere ecumenico, anche qualora si voglia allargare il campo ai “cristiani”, a me pare che la loro caratterizzazione specifica non giovi principalmente a loro stessi, per due ragioni.

Sottovalutati o sopravvalutati?

Potrebbe sembrare infatti che appellarsi ai cristiani affinché escano “dalle sagrestie e dalle ritualità della vita parrocchiale” (Vara) sottenda una sorta di rischio, che magari gli altri cittadini non corrono.

Il rischio dell’autoreferenzialità e della chiusura dentro le proprie pratiche religiose. È come se si volesse ricordare loro che sono anch’essi cittadini e che in quanto tali devono farsi sentire. Non ne escono bene.

Ma neppure gioverebbe un appello che faccia riferimento ad una specifica riserva di senso che li distinguerebbe dagli altri soggetti che non hanno orientamento cristiano o religioso in genere.

Questa specifica riserva di senso proverrebbe dalla fede? Come dire: la professione di fede renderebbe i cristiani particolarmente “appellabili” rispetto agli altri cittadini in ordine alle problematiche puntualmente rappresentate da Savagnone e Vara?

L’insegnamento della Lettera a Diogneto

La circostanza che le testate (tra cui questa su cui scrivo) da cui provengono questi appelli rimandino all’appartenenza cattolica forse potrebbe, con apparente paradosso, mantenere a maggior ragione implicita l’assunzione di responsabilità civile anche di coloro che professano una fede.

In questo si realizzerebbe pienamente l’auspicio della Lettera a Diogneto: “I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei loro vestiti… Abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri; rispettano e adempiono tutti i doveri dei cittadini, e si sobbarcano tutti gli oneri come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera”.

Differenza cristiana?

Come se fossero. Questa espressione rimanda ad un dato interiore, non ostentato. Infatti la “stranierità” dei cristiani non riguarda la loro azione nel tessuto civile, bensì il loro statuto sacramentale e, si potrebbe dire, ontologico, scarsamente pertinente per il nostro discorso.

È vero, come dice Vara, che questo stare nel mondo senza essere del mondo, costituirebbe, parafrasando un bel libro di Enzo Bianchi, la differenza cristiana, ma questa “modalità esistenziale” a mio modo di vedere non prelude necessariamente a specifici appelli.

Un altro bel libro di Bianchi peraltro si intitola “Non siamo migliori”. Qualora gli appelli anche involontariamente lo presumessero. Cosa che conoscendo personalmente i due autori mi sento di escludere categoricamente.

Gli appelli ai cristiani (o cattolici, nella fattispecie) contengono dunque quanto potrebbe contenere qualsiasi appello ai cittadini. Perché qui di politica si parla, non di teologia o di spiritualità.

La fede di un Puglisi e l’agnosticismo o ateismo (così egli diceva) di un Falcone, rispetto al terreno su cui hanno sacrificato le loro vite, pari sono.

Che poi le motivazioni profonde cui ciascuno dei due attingeva fossero differenti, non rende differente il valore civile della loro azione.

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