di Luciano Sesta
Dopo lo tsunami del 2011 in Giappone, lo storico cattolico Roberto De Mattei dichiarò, davanti ai microfoni di Radio Maria, che non si poteva escludere, anzi era molto probabile, che il disastro fosse un ammonimento divino, un segno del fatto che Dio non è indifferente al peccato degli uomini. De Mattei, in quell’occasione, si compiaceva di ricordare che lo stesso terremoto che rase al suolo Messina nel 1908 era stato preceduto dalle oscure profezie di un sacerdote, il quale invitava i propri concittadini a convertirsi, soprattutto in riferimento alle bestemmie comparse sulle mura di alcune abitazioni della città. Anche in occasione del maremoto del 2004, che ha ucciso migliaia di persone nell’Isola di Sumatra e nel Sud-est asiatico, organi di stampa cattolici come “Il Timone” ospitarono articoli in cui si sosteneva, esplicitamente, la funzione teologicamente punitiva del disastro, tramite cui Dio avrebbe dimostrato di essere più forte dell’ateismo imperante della nostra cultura. Affermazioni analoghe sono provenute, qualche giorno fa, sia da Antonio Socci sia da padre Giovanni Cavalcoli, questa volta a proposito del terremoto che sta colpendo il centro Italia. Qui il motivo dell’ira divina, ci viene detto, sarebbe la mancata consacrazione dell’Italia alla Madonna (Socci) e l’approvazione della legge sulle unioni civili (Cavalcoli).
Come si può vedere, il giustizialismo è una tendenza diffusa in taluni ambienti cattolici nostrani. Sarebbe tuttavia un errore contrastarlo solo sul suo stesso terreno, ossia quello teologico. La questione se davvero i terremoti e gli tsunami siano una punizione divina, infatti, prima ancora che un problema teologico, è un problema logico – com’è ben illustrato qui– e, soprattutto, psicologico. Riguarda cioè più il buon senso e la fede personale del singolo che non la dottrina cattolica oggettivamente considerata. La quale, a ben vedere, non autorizza alcuna interpretazione univoca di singoli eventi, quali possono essere un terremoto o l’approvazione di una legge.
Cosa c’è, allora, dietro il giustizialismo cattolico a cui stiamo assistendo soprattutto negli ultimi anni? Nietzsche ricorda che già un padre della Chiesa come Tertulliano (II sec), nel suo De Spectaculis, riteneva che una parte della beatitudine del cristiano consistesse nel contemplare la pena eterna a cui saranno sottoposti i non cristiani. Sembra che anche Tommaso d’Aquino, sulla stessa linea, abbia scritto: “Beati in regno coelesti videbunt poenas damnatorum, ut beatitudo illis magis complaceat”. Collocando all’inferno il nemico Bonifacio VIII, colpevole di averlo esiliato e reso politicamente perdente, anche Dante è probabilmente rimasto vittima di questa sindrome giustizialista. Esprimendo il bisogno di avere un nemico da veder punito, quasi per avere conferma di trovarsi dalla parte giusta, il giustizialismo è un sintomo di insicurezza, un tentativo di compensare una fede ancora immatura o vacillante. Una fede talmente in crisi da sentirsi minacciata, per esempio, da una legge dello Stato contraria a ciò che si ritiene giusto e che diventa, così, il capro espiatorio su cui scaricare le tensioni provocate dal proprio disagio.
Questa lettura “freudiana” trova conferma nel fatto che la punizione divina è invocata quasi sempre in occasione di peccati che riguardano la sfera della procreazione e della sessualità. Dopo gli attentati di Bruxelles nessuno ci ha detto che Dio stava punendo l’Unione Europea per il cinismo con cui sta assistendo in poltrona alla morte di migliaia di migranti. Evidentemente il buon Dio, anch’egli ossessionato dalla legge Cirinnà, reputa il peccato di chi lascia morire migliaia di persone molto meno grave di quello commesso da due uomini o da due donne, magari non credenti, che hanno rapporti omosessuali. E che dire del peccato, non certo leggero, di certi responsabili della finanza mondiale, di chi ha scritto le norme dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, di chi truffa e impoverisce, di chi muove guerra e violenza, di chi, ai nostri semafori, aziona infastidito il tergicristalli quando un poveretto cerca solo di essere aiutato offrendo un piccolo servizio? Perché Dio non manda almeno un piccolo sisma anche per ciascuno di questi peccati? Forse anche Lui, come noi, pensa che il peccato non provenga dal cuore dell’uomo, ma sia localizzato fisicamente nei suoi organi genitali?
Qualche anno fa, nel corso di un’intervista con Peter Seewald, papa Benedetto XVI ha riconosciuto che l’omosessualità è largamente diffusa fra sacerdoti e religiosi, e in un numero significativo di casi anche praticata (Benedetto XVI, La luce del mondo. Una conversazione con Peter Seewald, Libreria Editrice Vaticana 2010, pp. 212-213). Ciò non significa, necessariamente, che questi religiosi e sacerdoti conducano una doppia vita, dal momento che molti di loro si trovano in sincera difficoltà nel vivere una rinuncia di cui non avevano magari previsto il peso o che, al momento dell’ordinazione, non immaginavano si sarebbe presentata. Forse è anche pensando a queste situazioni che Papa Francesco ha assunto, nei confronti del tema dell’omosessualità, una posizione più serena e meditata. Posizione che ha profondamente disorientato tutti coloro che, essendo abituati a demarcare rigidamente il peccato dalla virtù, dividono il mondo in buoni e cattivi, in credenti e non credenti, in cattolici fedeli e cattolici fuorviati. È proprio in questi soggetti che emerge un meccanismo psicologico che Nietzsche aveva descritto come caratteristico di tutti i cristiani, ossia il risentimento e lo spirito di vendetta nei confronti di chi, non cristiano, può permettersi di godere ciò a cui il cristiano, a denti stretti, deve invece rinunciare. Il bisogno di veder colpito il proprio nemico, il bisogno di sapere che i propri sacrifici non sono vani, la segreta e inconfessabile invidia nei confronti di una libertà alla quale si è rinunciato e che gli altri invece possiedono, è la vera radice del giustizialismo.
Che tale radice sia innanzitutto psicologica, si diceva, non esclude che vi sia in gioco anche un problema schiettamente teologico. Com’è noto, la Santa Sede ha preso le distanze dalle parole pronunciate da padre Cavalcoli, il quale, nel corso di un’intervista di chiarimento della sua posizione, ha replicato invitando i vertici della Chiesa a rileggere la Bibbia e a ripassare il Catechismo. Si citano, al riguardo, l’episodio biblico della distruzione di Sodoma e Gomorra (Gn 19, 1-29) e l’affermazione paolina, ripresa dal Catechismo della Chiesa Cattolica, del carattere intrinsecamente perverso – il Catechismo dice “disordinato” – dei rapporti omosessuali (Rm 1, 24-28). Nella Bibbia, tuttavia, vi sono tanti altri episodi, e precetti, come quello che prevede la pena di morte per le donne che si sposano senza essere vergini (Deuteronomio 22, 20) o per chi si unisce alla propria moglie durante il periodo mestruale (Levitico 20, 18), che nessun cattolico, per il solo fatto che sono contenuti nella Bibbia, oserebbe ritenere vincolanti. È curioso, da questo punto di vista, che cattolici fortemente critici nei confronti del mondo protestante finiscano per adottarne il peculiare criterio esegetico, ossia la sola Scriptura. È chiaro che alla Bibbia possiamo far dire tutto e il contrario di tutto. C’è dunque bisogno di un’interpretazione, di un discernimento fra ciò che è essenziale e ciò che non lo è. E Cavalcoli, che è cattolico, sa probabilmente che questo discernimento è affidato al magistero della Chiesa e alla sua tradizione viva, non certo alle sue personali congetture.
A questo riguardo, tuttavia, la tradizione della Chiesa è spesso identificata con un elenco di verità da tirar fuori all’occorrenza e costi quel che costi, senza alcuna preoccupazione per lo stile con cui ciò deve essere fatto. Ci sono casi in cui, per il solo fatto di essere proclamata nel modo sbagliato in un contesto sbagliato, quella che sarebbe stata una verità diventa una falsità. Ammesso e non concesso che Dio “punisca” gli uomini tramite i disastri naturali, nessuno sarebbe comunque autorizzato a farsi portavoce, in un singolo caso concreto, di questa drammatica verità. Solo così ciascuno sarà libero di arrivare da sé a quell’eventuale conclusione. Se invece la “sanzione divina” è sbattuta in faccia da chi si attribuisce il privilegio di conoscere “i pensieri di Dio”, l’effetto sarà quello, contrario, di un totale (e legittimo) rifiuto non solo della punizione, ma anche del ben poco gradevole Dio che la somministra. La verità iniziale, come si può vedere, può diventare una falsità a causa dello zelo di chi pretende di esserne il portavoce.
Con la scusa di “servire la verità”, purtroppo, molti cattolici danno solo libero sfogo alle loro personali e discutibili opinioni, noncuranti del male che procurano nel prossimo e del pessimo servizio che rendono alla stessa causa che vorrebbero promuovere. Di fronte al dolore umano che deriva da un disastro naturale, quando i sopravvissuti potrebbero trovare nella fede un’ultima speranza di salvezza, il peccato “che grida vendetta agli occhi di Dio” non è certo l’omosessualità, ma quello di chi, attribuendo a Dio l’atteggiamento capriccioso e vendicatore di chi vuole farsi giustizia, toglie alle vittime il diritto di potersi rivolgere a Lui come un Padre buono e misericordioso. Se proprio si ama citare la Bibbia, si potrebbe ricordare che agli amici di Giobbe che si ostinavano a insinuare che i mali da lui subiti fossero la giusta punizione per i suoi peccati, Dio stesso si rivolge dicendo: “La mia ira si è accesa contro di voi, perché non avete detto di me cose rette” (Gb 42, 7). Usando un linguaggio “intimidatorio” a loro stessi caro, potremmo dire che certi cattolici “dovranno rendere conto a Dio” di certe loro affermazioni ben più di quanto debba farlo un omosessuale o un parlamentare che ha promosso le unioni civili. Soprattutto se si pensa che “a chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto” (Lc 12, 48).
Già nell’Antico Testamento, come si può vedere, è Dio stesso a smentire una concezione retributiva della giustizia, come poi ancora più chiaramente si vedrà nel Vangelo: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13, 2-3). E ai suoi discepoli che, davanti a un uomo cieco, gli chiedono chi tra lui e i suoi genitori avesse peccato, Gesù risponde: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio” (Gv 9, 1-3). Questi brani dimostrano che il male non è frutto di un automatismo giuridico, in cui a una colpa segue sempre una pena. Gli uomini, infatti, sono tutti peccatori, ma non tutti sono ciechi o muoiono a causa del crollo di una torre. Se ci fosse davvero un rapporto di causa ed effetto fra il peccato di tutti e la morte violenta di alcuni, Dio sarebbe un pessimo giudice, che distribuisce a casaccio punizioni esemplari, discriminando fra i sopravvissuti, che possono giovarsi dell’ammonimento, e i colpiti, che invece rimangono inchiodati alle loro colpe e che, soprattutto, vengono ingiustamente usati come strumento di conversione per chi riceve il monito.
E giungiamo così al punto teologico decisivo. Proprio l’abusato riferimento all’episodio di Sodoma e Gomorra, riletto alla luce del Vangelo, dimostra il carattere non teologico, ma “fondamentalistico”, ossia puramente letterale, delle ipotesi di Cavalcoli e di tanti altri giustizialisti. Di fronte all’intenzione divina di distruggere Sodoma a causa del peccato dei suoi abitanti, Abramo chiede di risparmiarla nel caso si trovasse in città un certo numero di giusti. Dio acconsente, ossia accetta di risparmiare i peccatori per evitare che, con essi, muoiano anche i giusti (vv. 23-24). Rimane l’idea che il peccatore meriti la punizione, fino a quando la preghiera di Abramo si fa più audace, chiedendo che, a causa dei giusti, i peccatori siano non solo risparmiati, ma anche perdonati: “E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?” (v. 24b). Come ha scritto Benedetto XVI, qui Abramo «non si limita a domandare la salvezza per gli innocenti. Abramo chiede il perdono per tutta la città e lo fa appellandosi alla giustizia di Dio. Così facendo, mette in gioco una nuova idea di giustizia: non quella che si limita a punire i colpevoli, come fanno gli uomini, ma una giustizia diversa, divina, che cerca il bene e lo crea attraverso il perdono che trasforma il peccatore, lo converte e lo salva (Benedetto XVI, L’uomo in preghiera, Udienza Generale, mercoledì 18 maggio 2011). Se è dunque vero che «non si possono trattare gli innocenti come i colpevoli», è anche vero che Dio, proprio perché è Dio, può «trattare i colpevoli come gli innocenti, mettendo in atto una giustizia “superiore”» (ivi). Che non è quella che ci saremmo aspettati, magari sulla scorta del nostro inconfessabile spirito di vendetta.
Si obietterà: ma Sodoma, alla fine, è stata distrutta. Non vi si sono infatti trovati i dieci giusti che avrebbero convinto Dio a risparmiarla. È vero. Ma cosa significa ciò? Che qui siamo ancora nell’occhio per occhio e dente per dente dell’Antico Testamento. E, dunque, che quest’episodio va letto alla luce del Nuovo Testamento, anziché esserne scorporato per motivi ideologici. E alla luce del Nuovo Testamento il significato è chiaro: Dio distrugge Sodoma non perché la punizione dei peccatori corrisponda al suo desiderio, ma per far vedere che non può esserci alcun uomo giusto capace di salvarla: “tutti hanno peccato e son privi della gloria di Dio,ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia” (Rm 3, 23). Gesù è l’unico vero giusto che, morendo in croce, salva tutti gli uomini. La mancanza anche di un solo giusto a Sodoma è perciò una mancanza profetica, che prelude al mistero dell’Incarnazione: per garantire la presenza di almeno un giusto, Dio stesso si fa uomo, diventa Lui il giusto che manca. E questo significa, come nota acutamente ancora Benedetto XVI, che d’ora in poi la “punizione” non ha più ragion d’essere, perché un giusto grazie a cui risparmiare tutti gli altri «ci sarà sempre», ed è Lui, Gesù. Lo stesso Gesù che, bisognerebbe forse ricordarlo più di quanto non si faccia, mentre è ancora appeso sulla croce chiede al Padre di perdonare i propri crocifissori, perché “non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34).
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