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I cento giorni di Giorgia Meloni

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«Fare l’Italia»

L’enfasi con cui Giorgia Meloni ha sottolineato la scadenza dei primi cento giorni di governo, rivendicando la svolta che essi rappresentano rispetto al passato («Non è più la Repubblica delle banane», ha sottolineato), suggerisce una verifica critica che si ponga al riparo sia degli attacchi indiscriminati delle opposizioni, sia delle celebrazioni con cui la stampa di destra – da «La Verità», a «Libero», al «Giornale», a «il Tempo» – ha salutato la ricorrenza.

Il riferimento – a parte il remoto caso dei cento giorni vissuti da Napoleone dopo la fuga dall’Isola d’Elba (conclusi peraltro con la sconfitta definitiva di Waterloo) – è ai primi “cento giorni” di governo in cui presidente americano Roosevelt avviò il vasto e radicale programma di riforme economiche e sociali conosciuto con il nome di New Deal, grazie al quale, fra il 1933 e il 1937,  gli Stati Uniti riuscirono a superare la grande depressione che aveva stremato il paese.

Nella narrazione proposta dalla Meloni, fin dalla sua ascesa al potere, qualcosa di simile doveva rappresentare la costituzione del nuovo governo. Da qui, da parte della premier, una frequente rappresentazione fortemente negativa delle condizioni dell’Italia e un appello a unirsi tutti al suo sforzo per cambiarle radicalmente. «La nazione si può risollevare: nonostante le intemperie noi ce la possiamo fare, ma dobbiamo farlo insieme», diceva nel gennaio scorso in un’intervista al Tg1.

E già nel corso delle trattative per la formazione del governo aveva avvertito i suo avversari politici della Sinistra: «Si mettano l’anima in pace: siamo qui per risollevare la nostra Nazione. Sarà un percorso pieno di ostacoli, ma daremo il massimo. Senza mai arrenderci». Fino a citare, più recentemente, perfino Garibaldi: «Qui si fa l’Italia o si muore».

I successi

Per veicolare questa rappresentazione dei fatti, la premier ha voluto creare una rubrica social “Gli appunti di Giorgia”, con cui entrare in diretto contatto con gli italiani. E proprio su questa ha sottolineato i successi di questa prima tappa del suo governo: «Lo spread negli ultimi cento giorni è sceso da 236 a 175 punti base. La Borsa ha registrato un aumento del 20%, la Banca d’Italia stima che nel secondo semestre 2023 l’economia italiana sarà in netta ripresa e che quella ripresa si stabilizzerà nel 2024 e nel 2025. E che l’inflazione tornerà a livelli accettabili».

In particolare, ha osservato, «il prezzo del gas, dopo l’iniziativa europea del tetto, su cui l’Italia ha avuto un ruolo fondamentale, sta continuando a scendere, e penso che nelle prossime settimane finalmente vedremo i risultati di questo lavoro lunghissimo».

 Fra i punti sottolineati dalla Meloni ci sono anche i suoi viaggi in  Algeria e Libia e gli accordi conclusi con questi paesi per fare dell’Italia l’hub energetico d’Europa, con l’intento di «rimettere l’Italia dove deve stare, al centro del Mediterraneo». 

Sono tutti risultati senz’altro positivi. Come lo è la tenuta del buon clima europeista, garantito anche dall’incondizionato sostegno all’Ucraina. Forse, però sarebbe stato più corretto precisare che si è trattato soltanto di una prosecuzione del lavoro già ampiamente avviato dal governo Draghi, sulla cui linea il nuovo esecutivo si è mosso fedelmente, con una continuità che appare alquanto paradossale, se si pensa alla strenua opposizione condotta nei suoi confronti da Fratelli d’Italia. La sola reale differenza è l’evidente minor prestigio del nostro premier rispetto all’ex presidente della Bce, di cui è stata probabile manifestazione anche l’ improvviso irrigidimento del presidente Macron sulla questione dei migranti.

La svolta

Delle novità nella linea politica, certo, ci sono state. Di una, nel suo video messaggio, Giorgia Meloni ha pure parlato, come di un successo – e questa volta davvero in discontinuità col passato – , ed è la politica nei confronti dei flussi migratori. In linea con le promesse elettorali che gli italiani hanno premiato, il nuovo governo si è subito impegnato a contrastare l’immigrazione clandestina.

Lo ha fatto, per la verità, concentrandosi esclusivamente sull’attività delle navi di «Medici senza frontiere» e di altre Ong, che salvavano in mare i migranti in pericolo. In realtà, si trattava appena dell’11% degli sbarchi sulle coste italiane. Ben poca cosa, senza contare gli ingressi via terra, che non sono stati neppure presi in considerazione.  Il “decreto sicurezza” – col divieto di effettuare più di un salvataggio per volta e con l’obbligo di approdare non al porto più vicino, ma a quello indicato dalle autorità italiane, che ormai è sistematicamente scelto tra i più lontani – serve dunque solo a complicare la vita a chi cerca di  salvare vite, ma non a risolvere il problema.

Suscitando così il dubbio che si sia soprattutto voluto sbandierare un’idea e una presa di posizione, purtroppo radicalmente contrarie ai princìpi di umanità e di solidarietà. Come ha osservato «Avvenire», con la sua scelta «il governo comunica una visione dei salvataggi in mare come un’attività dannosa, da circoscrivere, scrutare, penalizzare» (non a caso la Chiesa cattolica è stata estremamente critica nei confronti di questa linea).

Le contraddizioni

Ci sono altre cose che nel bilancio dei cento giorni di Giorgia Meloni sono state omesse. Una serie di decisioni che poi hanno dovuto essere ritirate o corrette, sotto la pressione di critiche più che giustificate, meritando a questo esecutivo il titolo di “governo delle retro-marce”, in stridente contraddizione con l’immagine di uno Stato più forte.  

A cominciare dal primo decreto legge, quello anti-Rave, che fu necessario modificare perché, nella sua prima edizione, rischiava di mettere in pericolo le libertà fondamentali previste dalla nostra Costituzione; per continuare con il dietrofront, imposto dall’UE, sulla questione del POS. Dopo tanti bellicosi proclami della vigilia elettorale, riguardo alla necessità di rivendicare il ruolo dell’Italia e di alzare la voce per farsi sentire finalmente dall’Europa, nella sostanza la Meloni ha dovuto accettare quello che a Bruxelles era stato deciso.

Un’altra contraddizione, rispetto all’immagine di affidabilità e di coerenza che si cercava di esibire, è stata determinata dalla decisione del governo di non rinnovare gli sconti sulle accise (che la leader di FdI, quando non era al comando, aveva promesso addirittura di eliminare), con il conseguente aumento del prezzo della benzina. Dopo tante promesse di ridurre le tasse, si è trattato di una imposta indiretta (mascherata), che ha colpito indiscriminatamente ricchi e poveri, egualmente obbligati quotidianamente a usare l’automobile. Per di più si è cercato maldestramente di coprire l’incoerenza con lo scaricare la responsabilità dell’aumento su pretese speculazioni dei distributori, che si sono infuriati e hanno fatto uno sciopero costringendo anche questa volta il governo a modificare il tiro.

L’ultimo – e il più grave – episodio di manifesta contraddittorietà nella politica di questo esecutivo è quello del disegno di legge, approvato in questi giorni, riguardo all’autonomia differenziata. «Puntiamo a costruire un’Italia più unita, più forte e più coesa», ha rassicurato Giorgia Meloni, in una nota. Come questo possa avvenire lasciando alle regioni più ricche un’autonomia che praticamente sottrae allo Stato una gran parte delle sue attribuzioni – comprese quella dell’Istruzione, della Sanità, del Commercio con l’estero, della Ricerca scientifica e tecnologica, della Protezione civile, della gestione dei porti e degli aeroporti, per portare solo alcuni esempi – , questo non lo ha spiegato.

Ma qui la contraddizione era già insita nel programma di governo in cui, per potersi alleare in funzione elettorale, era stato necessario mettere insieme una misura che rafforzava il centralismo statale, come il presidenzialismo voluto dalla Meloni, e l’autonomia regionale, cara alla Lega. Ora si raccolgono i frutti di questa incongruenza e a prevalere sembra la volontà della seconda, rappresentativa dell’8% degli elettori! Gli altri italiani  dovranno accontentarsi dell’assicurazione della Meloni che «qui si sta facendo l’Italia».

A meno che, come sostengono alcuni, non si tratti solo di una mossa ad effetto per aiutare la Lega in vista delle imminenti elezioni regionali in Lombardia. Ma  forse una simile lettura comporterebbe ancora maggior discredito per questo governo.

Per non dover accettare che Dante sia il fondatore del pensiero di destra

Un ultimo accenno problematico riguarda non le decisioni dell’esecutivo nel suo complesso, ma le prese di posizione dei singoli ministri. Non si può non citare, a questo proposito, l’ineffabile dichiarazione del ministro della Cultura – sì, della Cultura! – , Gennaro Sangiuliano, il quale, ansioso di rivalutare la tradizione culturale a cui il governo si ispira,  ha sostenuto essere Dante il fondatore del pensiero di destra in Italia. Un’affermazione che ha scatenato le risate di tutti i competenti e che smentisce automaticamente quello che il ministro voleva dimostrare circa la dignità culturale del suo partito.

Siamo davanti a una svolta? Per certi versi no. Non c’è nulla che questo governo stia facendo di buono che non fosse già stato avviato da quello precedente. La svolta purtroppo c’è nella qualità e nell’indirizzo delle altre scelte, quelle compiute dal governo per dimostrare la propria identità ideologica e politica.

Il problema è che non c’è attualmente una vera alternativa. L’opposizione è in profonda crisi e divisa. Se si vuole che qualcosa cambi davvero rispetto a questa Seconda Repubblica, di cui il governo Meloni sembra essere solo un’ultima, modesta espressione, deve nascere qualcosa di veramente nuovo dalle risorse spirituali e intellettuali del nostro paese. Ma questo non possiamo forse attenderlo né da questa Destra né da questa Sinistra, dobbiamo inventarlo noi.

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