Un’alternativa?
In tempi di coronavirus, e soprattutto adesso che in molti Paesi, tra cui l’Italia, comincia la cosiddetta “fase 2”, è frequente sentir proporre l’alternativa tra la necessità di far ripartire l’economia e quella di garantire la tutela del diritto fondamentale delle persone, che è quello alla salute e alla vita.
Due possibili strategie
A questo proposito, fin dall’inizio, erano possibili due strategie per affrontare la pandemia. Una, adottata dalla Cina e, poco dopo, dall’Italia – seguita successivamente dalla Spagna e via via dagli altri Paesi europei – incentrata sul contenimento del contagio e quindi sul confinamento della popolazione: il cosiddetto lockdown, con la conseguente chiusura delle attività commerciali e produttive, allo scopo di impedire la trasmissione del virus.
L’altra, teorizzata dal premier inglese Boris Johnson – che poi però l’ha rinnegata – e dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump – il quale continua ancora oggi a riproporla –, consiste nel lasciare che la vita della collettività continui il suo corso normale, accettando di pagare il prezzo di un certo numero di vittime e puntando sulla cosiddetta “immunità di gregge”, che alla lunga rende il virus meno pericoloso.
La svolta tardiva del Regno Unito
Quest’ultima posizione non partiva affatto da una sottovalutazione del pericolo. Ha fatto il giro di tutti i mass media del mondo la drammatica previsione del premier britannico: «Molte famiglie perderanno i loro cari». Ma si reputava questo costo accettabile. Finché uno studio dell’Imperial College non ha segnalato, numeri alla mano, la sua insostenibile drammaticità, costringendo Johnson a cambiare linea, prima di ammalarsi lui stesso gravemente. Quando però ormai le conseguenze del mancato lockdown erano irreparabili: oggi il Regno Unito, pur avendo subìto l’impatto della pandemia due settimane dopo l’Italia, è il primo Paese d’Europa per numero di decessi.
Le resistenze di Trump al lockdown
Analogo, per certi versi, ma ancora più ondivago, il percorso di Trump. Il presidente americano ha a lungo ignorato le pressanti richieste del team di scienziati e medici guidato dal virologo Anthony Fauci e solo con un mese di ritardo ha accettato a malincuore che venissero prese misure di contenimento, diversificate peraltro da Stato a Stato, e senza nascondere la sua simpatia per gli americani che contestavano in piazza il lockdown.
Fino alla recente dichiarazione, seguita alle notizie sulle pesantissime perdite dell’economia, con cui ha annunziato che «l’America deve ripartire dopo i lockdown per il coronavirus anche se ci saranno dei morti». E morti ce ne sono davvero tanti, negli Stati Uniti, dove il numero di casi di coronavirus ha superato quota 1,2 milioni, mentre i decessi si avvicinano rapidamente alla cifra dei 100.000, a un ritmo di oltre 2000 al giorno.
Il dibattito in Italia
In questo scenario internazionale si situa anche il dibattito in corso in Italia, dove i sindacati, nella cosiddetta “fase 1”, si sono battuti strenuamente per una chiusura totale delle fabbriche, per scongiurare il pericolo che gli operai pagassero sulla propria pelle la mancata interruzione della macchina produttiva. Adesso, all’inizio della “fase 2”, sono invece in primo piano le tensioni fra governo e Confindustria e governo e regioni, sulla ripartenza o meno delle attività commerciali e produttive, con i virologi e i medici che insistono sulla prudenza e i gestori di industrie, negozi e servizi che, sostenuti dai governatori regionali, chiedono a gran voce di poter riaprire.
Economia vs vita delle persone?
Siamo dunque davvero davanti alla scelta tra una linea che privilegia la vita delle persone, tutelando la loro salute, anche a costo di gravissime perdite economiche, e una che, in nome delle esigenze dell’economia, è disposta a sacrificarle?
A mettere in discussione, però, questo modo – forse un po’ troppo semplicistico – di porre il problema, c’è la considerazione, inconfutabile, che la difesa della vita e della dignità degli esseri umani esige anche il buon funzionamento dell’economia, in particolare del lavoro. Ora, è un dato di fatto che milioni di persone in tutto il mondo sono state precipitate, dal lockdown e dal conseguente blocco delle attività economiche, in una condizione drammatica di indigenza.
Sembra dunque più appropriato constatare che siamo davanti a una di quelle situazioni in cui due valori – entrambi fondamentali per la persona umana – entrano in conflitto, rendendo in ogni caso traumatica la scelta.
Non siamo tutti nella stessa barca
Ma in realtà la questione è ancora più complessa. Perché, a guardare più attentamente ciò che sta accadendo, nel mondo e in Italia, si scopre che dietro i termini comunemente usati per indicare questo conflitto – salute, lavoro – il coronavirus ha fatto emergere una galassia estremamente variegata di situazioni molto differenti.
È stato rilevato giustamente, a questo proposito, che la confortante espressione usata da papa Francesco nel suo discorso del 27 marzo, con riferimento alla tempesta sedata – «siamo tutti nella stessa barca» –, è vera per certi versi, ma per altri non risponde alla reale situazione delle nostre società. Siamo nella stessa tempesta, ma non nella stessa barca.
Il costo del mancato lockdown per gli anziani…
A evidenziarlo è il fatto che il prezzo da pagare, rinunziando al lockdown per proteggere l’economia, non è equamente distribuito. Innanzi tutto fra le generazioni. Le vittime della pandemia sono in larga maggioranza persone anziane – nelle sole case di riposo, secondo l’Oms, costituiscono, nel mondo circa la metà! I «cari» a cui pensava Johnson, prima di essere colpito lui stesso, erano probabilmente i nonni.
La scelta del primato dell’economia acquista in questa luce, al di là delle intenzioni di chi la propone, il sinistro significato di una liquidazione della fascia meno produttiva, per età e disabilità, della popolazione.
…e per tutti i marginali
Ma non è solo una questione generazionale. Le statistiche dicono che nei Paesi più colpiti dal coronavirus – gli Stati Uniti e l’Inghilterra – sono di gran lunga più esposti alla morte per coronavirus le persone di colore. Così in America i più colpiti sono di gran lunga gli afro-americani. Quanto al Regno Unito, è recentissima la segnalazione del quotidiano «The Guardian» secondo cui le persone di colore hanno probabilità di morire per il coronavirus quattro volte superiori alle persone bianche.
Il mancato lockdown per difendere l’economia, dunque, non è pagato da tutti nello stesso modo. Quali che possano essere gli altri fattori discriminanti, coloro che lo pagano sono quelli che la stessa economia rende marginali. Ma a questo punto il servizio alle persone rischia di capovolgersi nella difesa dell’interesse del sistema.
Il diverso costo del lockdown
Ma anche il lockdown in nome della salute, dove è stato attuato con maggiore coerenza, come in Italia, non è stato affatto egualitario nel colpire il lavoro delle persone. C’è chi ha potuto viverlo nella sicurezza di condizioni economiche ampiamente consolidate, e chi, invece, si è visto interrompere l’attività da cui traeva di che vivere. Senza parlare di quanti, specialmente al Sud, “si arrangiavano” lavorando “in nero”…
E le sue ricadute umane sono state molto diverso per chi è restato chiuso nella propria villa o in uno spazioso appartamento, e per quelli – secondo l’Istat, oltre un quarto degli italiani! – che l’hanno dovuto gestire all’interno di case anguste e sovraffollate. (Si è scoperto, a questo proposito, che le abitazioni, nel nostro Paese, in media misurano 81 metri quadrati, meno dei 95 del Giappone e dei 97 della Spagna, o dei 109 della Germania e dei 112 della Francia). E se la salute è, secondo la famosa definizione dell’Oms, non solo l’assenza di malattie, ma «il pieno benessere fisico, psichico e sociale delle persone», anche questo è una minaccia alla salute, questa volta provocata proprio dal lockdown.
Il vero problema: quale economia e quale salute?
Qui il problema del lockdown non è, allora, il conflitto tra economia e salute, bensì a quale economia e a quale salute le persone abbiano diritto. Abbiamo visto che entrambe, in realtà, possono appellarsi ai diritti delle persone. Ma il coronavirus è piombato a scoperchiare – nelle nostre progredite società – una situazione diffusa di profonde disuguaglianze che vanificano il senso di questo appello.
L’economia che si vuole tutelare, invocando l’apertura delle attività produttive e commerciali, si svolgeva già prima in un contesto culturale e sociale che ora rende inevitabile che siano i più deboli a pagare con le loro vite la sopravvivenza della macchina produttiva. Ma anche la salute, che ora si cerca di difendere arroccandosi nella chiusura, è in ultima istanza quella dei privilegiati che non sono frustrati e esasperati dalla disoccupazione e dal confinamento in spazi angusti. Se lavoro e salute sono in contrasto, allora, non è perché una delle due sia dalla parte della dignità della persona, ma perché, allo stato attuale, non lo sono nessuna delle due.
La colpa non è del coronavirus. Esso sta solo facendo emergere, acuendole, le ferite nel cuore delle nostre società. E il pericolo più grande è forse quello di credere che l’importante sia lasciarcelo alle spalle, per dimenticare queste ferite e tornare ad essere come eravamo prima.
Lascia un commento