Ho visto recentemente un gruppo di ragazzini in gita scolastica e mi ha colpito il fatto che non facevano chiasso scherzando tra di loro, come accadeva quando ero ragazzino io, e neppure erano riuniti intorno a uno di loro che suonava la chitarra: stavano ognuno per conto proprio, col capo chino sui rispettivi cellulari, alla ricerca di messaggi in arrivo e impegnatissimi a mandarne a loro volta, premendo freneticamente i tasti con entrambi i pollici.
La scena è così frequente che menzionarla potrebbe essere quasi banale. Come banali sarebbero commenti della serie: «Che gioventù! Ai miei tempi…». Forse meno banale sarebbe rendersi conto che questi nostri figli non scelgono di comportarsi così: sono solo nati in un contesto sociale e culturale in cui questi mezzi di comunicazione sono diventati indispensabili per mantenersi in relazione con gli altri – compresi i loro genitori, che gliene fanno dono, mentre sono ancora piccoli, per poterli raggiungere e magari controllare quando sono fuori casa. Che poi, essendo “nativi digitali”, riescano ad usare questi mezzi con maggiore naturalezza e abilità dei loro padri e dei loro professori, non è certo una colpa. E l’utilità che ne deriva per tutti è indubbia. Non bisogna scandalizzarsi di ciò che è nuovo.
Platone, che era contrario all’avvento della scrittura – anche questa, ai suoi tempi, era una nuova tecnica comunicativa, rispetto alla trasmissione orale – ne ha tracciato nel Fedro un profilo che ne mette in luce tutti i pericoli, del resto assolutamente reali. E le sue critiche appaiono estremamente convincenti, salvo che per il fatto che ci sono pervenute perché Platone le ha messe per iscritto… Ogni considerazione moralistica, volta a demonizzare ed escludere smartphone, tablet, computer, sarebbe dunque del tutto fuori luogo.
Neppure, però, si può ripiegare sulla posizione opposta, che rinunzia ad ogni riflessione critica su questi nuovi strumenti tecnologici, basandosi sul principio, spesso ripetuto, che la tecnica, di per se, è del tutto neutra e che a dover essere giudicato è casomai l’uso che se ne fa. Questo non è vero per nessuno strumento tecnico e meno che mai per quelli della comunicazione.
Per la tecnica in generale, intanto, è bene prendere coscienza che essa incide profondamente sulla nostra identità di esseri umani. E questo è tanto più vero da quando i suoi progressi si sono accelerati a un ritmo vertiginoso, in questi ultimi due secoli. Come ha scritto Umberto Galimberti, «la domanda non è più: “Che cosa possiamo fare noi con la tecnica?”, ma: “Che cosa la tecnica può fare di noi?”».
Il punto è che gli elementi artificiali che siamo in grado di costruire entrano sempre più a far parte della nostra costituzione fisica: lenti a contatto, bypass, arti meccanici, peacemaker, non sono più oggetti esterni di cui ci serviamo, ma si trovano dentro di noi.
Il fatto che «ogni medium è una “estensione di noi stessi”», secondo l’affermazione di McLuhan, è particolarmente evidente nel caso dei mezzi di comunicazione. L’illusione che essi si pongano “tra” i comunicanti, in uno spazio neutro che non coinvolge né loro, né il messaggio che si scambiano, è stata ormai da tempo superata. In realtà, i diversi mezzi di comunicazione plasmano, di epoca in epoca, un tipo di uomo abbastanza diverso. Ciò è già evidente nel passaggio dalla comunicazione orale a quella scritta.
Chi vuol raccontare una storia, oppure semplicemente una barzelletta, deve trasmetterla immedesimandosi nei personaggi della narrazione, imitarne i toni di voce, i gesti. Soggetto e oggetto non sono nettamente distinguibili. La scrittura, invece, pone una chiara distanza tra chi comunica e ciò che sta comunicando. Nascono così, allo stesso tempo, l’oggettività e la soggettività. Nel momento in cui si distingue da ciò di cui scrive, il soggetto è in grado di percepirsi come tale, sviluppando così un atteggiamento di introspezione che nelle culture orali era assente. Secondo molti studiosi senza la scrittura non sarebbe mai nata la scienza moderna, ma neppure quel tipo di interiorità, complessa e problematica, che ha caratterizzato tutto lo sviluppo della civiltà occidentale.
Quanto al rapporto con gli altri, chi vuole raccontare qualcosa cerca qualcuno a cui raccontarla, magari formando intorno a sé un piccolo crocchio di ascoltatori. Così era nel clan quando, la sera, gli anziani, seduti vicino ai fuochi, ripetevano le antiche narrazioni che avevano a loro volta ricevuto dai loro padri. Chi invece vuole scrivere – una lettera, un libro – o desidera leggerli, chiede che lo si lasci solo. Qualcuno si è spinto fino ad affermare che l’individuo è nato con la scrittura.
Oggi assistiamo a una rivoluzione mediatica – l’avvento del virtuale – che si presenta altrettanto decisiva di quella della scrittura nel determinare l’identità dell’essere umano. I ragazzini davanti al loro smartphone sono da valutare non in termini morali, ma in una prospettiva antropologica.
Ancora una volta, siamo davanti a un mezzo artificiale di comunicazione. Ma con una differenza fondamentale rispetto a quelli a cui eravamo abituati finora. Mentre tutti quelli del passato portavano inscritto il marchio del loro essere degli intermediari, e dunque dei semplici mezzi, per accostarsi a qualcosa di ulteriore, a cui rimandavano, la realtà virtuale no. Si presenta come autoreferenziale, pretendendo di sostituire, non di rappresentare il mondo reale. Non per nulla si parla di “realtà” virtuale. Nessuno può scambiare la descrizione scritta di un paesaggio con il paesaggio vero. Invece, visto sullo schermo, il paesaggio virtuale sembra vero. Il mondo virtuale ha le credenziali per diventare il nostro mondo.
Ma poiché la realtà virtuale è pur sempre un artificio, fruibile in modo individuale, essa non ha la capacità di unire le persone come l’ha la realtà “vera”. Le può mettere in comunicazione, ma senza mai determinare una effettiva comunità. Perché quest’ultima si dà quando siamo, così come siamo, davanti all’altro così com’è, legati a lui da un rapporto che è quello che è e che perciò vincola, rendendo responsabili delle proprie parole e dei propri comportamenti di fonte all’altro. Invece, sulla rete, ognuno si presenta con la fisionomia che sceglie di assumere e si rivolge a interlocutori che a loro volta sono solo virtuali, stabilendo un’“amicizia” che in realtà non li vincola, perché non comporta alcuna responsabilità e può essere interrotta a piacimento, in modo del tutto indolore, in qualsiasi momento.
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