Reazioni opposte, ma tutte fuori misura
Le reazioni, all’indomani dell’affossamento del ddl Zan al Senato, riflettono una radicale contrapposizione etica e politica. «I diritti possono attendere», è il titolo de «La Repubblica». «Il Parlamento dei diritti negati» titola «La Stampa». «Vergognatevi», è il titolo di «Domani». Sulla stessa linea il commento del segretario del PD Letta, che scrive amareggiato su Twitter: «Hanno voluto fermare il futuro. Hanno voluto riportare l’Italia indietro».
Di segno opposto le reazioni dei giornali di destra. «Fine del delirio gender», titola «Il Giornale». «Affondata la legge bavaglio» è il titolo de «La Verità». «Libero» esulta, più che per il contenuto del ddl bocciato, per la sconfitta degli avversari politici: «Piange il PD. Che bello», titola in prima pagina. Così anche Salvini, soddisfatto soprattutto perché ha visto il ddl «affossato dall’arroganza di Letta».
In realtà, proprio alla vigilia della votazione che ha segnato la liquidazione del disegno di legge, si era registrata, da parte del segretario del Partito democratico, una timida apertura. Letta aveva ipotizzato un’esplorazione con le altre forze politiche «per cercare di capire le condizioni che possano portare a un’approvazione rapida del testo».
Mossa apprezzata da Renzi, che aveva ribadito la sua idea: «Se vogliamo che la legge passi, vanno cambiati i passaggi più delicati». A fare muro contro lo spiraglio aperto dal segretario del PD era stato però il mondo LGBT+, secondo cui il disegno di legge contro l’omotransfobia andava approvato così com’era, senza altre mediazioni e rinvii.
Davanti a questo spreco di depressioni, indignazioni e manifestazioni di esultanza, non guasta forse un momento più pacato di riflessione sul significato di ciò che è accaduto.
La prima considerazione che si impone è l’enorme sopravvalutazione del ddl Zan – e quindi del suo affossamento – sia da parte dei suoi sostenitori delusi, sia da quella dei suo oppositori esultanti. Basta rileggere (o forse, da parte di molti, leggere) il testo in questione per rendersi conto che esso non introduceva affatto la tutela dei diritti delle persone omosessuali e transessuali, ma si limitava a inasprire le pene per chi li avesse violati e a prevedere una giornata all’anno dedicata alla loro valorizzazione.
Che poi il voto del Senato abbia posto fine al «delirio gender» è una evidente esagerazione retorica, visto che la questione non si esaurisce certo in una maggiore o minore tutela giudiziaria, come chiunque può constatare oggi davanti al moltiplicarsi – nella pubblicità, nei film, ma anche nella esperienza quotidiana – degli esempi di omosessualità e di transessualità.
Una tardiva apertura al dialogo
Quanto alla tesi che il ddl costituisse una «legge bavaglio», essa ha certamente assai maggiore fondatezza di quelle precedenti. Non si può, però, ignorare lo sforzo fatto dai proponenti, con l’introduzione, in corso d’opera, dell’art.4, esplicitamente rivolto ad evitare questo effetto. Uno sforzo da molti giudicato (a ragione) insufficiente, ma da cui si poteva partire per un dialogo più costruttivo.
In realtà né dall’una né dall’altra parte questo dialogo è stato fermamente voluto. Solo tardivamente la Conferenza episcopale italiana è passata da una posizione di netto rifiuto dell’iniziativa parlamentare dell’on. Zan a una più possibilista e costruttiva, spiegando che non ne voleva l’affossamento, ma la modifica. E ancora più tardivamente, come si è appena visto, l’on. Letta si è mostrato disponibile ad accogliere questa ipotesi di modifica.
Alla fine hanno vinto i “falchi” di entrambi gli schieramenti, portando a uno scontro frontale che ha visto la vittoria della destra, ma che in ogni caso è stato caratterizzato dalla incapacità, dell’uno e dell’altro fronte, di uscire dai rispettivi schemi ideologici.
L’ideologia della sinistra…
Perché di ideologia si tratta, quando si continua a vedere nella lotta – in sé sacrosanta – contro l’omofobia e la transfobia la questione centrale nella situazione odierna del nostro Paese e a farne, perciò, la punta di diamante della politica della sinistra. In una società che ha quasi 8 milioni (per la precisione 7 milioni e 734 mila) “incapienti” – cittadini, cioè, che hanno un reddito complessivo non superiore a 8mila euro annui o con pensione fino a 7.500 euro – il «futuro» a cui mirare non si può ridurre a inasprire le pene per chi incita alla violenza contro gli omosessuali, per quanto giusto ciò possa essere, ma richiede una ridefinizione radicale dell’assetto socio-economico della nostra società neocapitalista, sostanzialmente ispirate, con delle occasionali attenuazioni, a quelle spietate di Squid Game. I «diritti che possono attendere», i «diritti negati», e la cui negazione merita il «Vergognatevi», rivolto alla nostra classe politica, sono “anche”, ma non “prima di tutto “ (e in definitiva quasi esclusivamente) quelli per cui la sinistra si è battuta in questi anni all’ultimo sangue e che, a quanti hanno il problema elementare di arrivare alla fine del mese, non possono non apparire un lusso.
… E quella della destra
Ma ideologico è anche l’appello ai grandi valori etico-religiosi della tradizione cristiana da parte di chi, in nome di essi, si è strenuamente battuto contro il ddl Zan. L’ostentazione del vangelo da parte di Salvini non può far dimenticare – anche se gli italiani ci sono riusciti, perché hanno poca memoria! – che la Lega è nata da una scelta religiosa che contrapponeva i valori pagani e il dio Po alla religione cristiana e al cattolicesimo in particolare. «Io ci credo, in Dio» – spiegava Bossi. «Ma non è il Dio che ci raccontano al catechismo. È un Dio che sta ovunque, nell’acqua e nel fuoco, nell’aria che respiriamo (…) Penso che il mio sia una specie di panteismo».
Anche quando si è adattata alla visione cristiana, la Lega non è stata in linea con la visione del vangelo. Significativa la dichiarazione dell’eurodeputato leghista Borghezio, presidente dell’organizzazione “Padania cristiana” ed esponente di punta dell’anima cattolica della Lega, che ha ritenuto di poter circoscrivere il concetto evangelico di “prossimo” a «coloro che fuoriescono dal nostro stesso ceppo»: per lui, è «solo nell’ambito di questa ben delineata categoria di “prossimità” che deve intendersi il precetto dell’amore fraterno. Di conseguenza, per quanto mi riguarda, non è estendibile al vù cumprà o al vù lavà, certamente prossimi di molte altre persone, ma non del sottoscritto. Grazie a Dio».
Perciò non si può non condividere l’opinione del noto storico cattolico Franco Cardini: «Gli antiabortisti che auspicano l’affondamento dei gommoni dei clandestini e che vorrebbero escludere un bambino dal diritto ad avere una casa, a frequentare una scuola, a fruire di un posto-mensa, solo perché è extracomunitario, non sono cattolici nemmeno se riempiono la casa di crocifissi».
Il discorso vale anche per la pretesa leghista di difendere, sul tema del gender, la visione cristiana della sessualità e della famiglia. E lo conferma la vita privata di Salvini, ispirata, al di fuori dei comizi, a ben altre prospettive. Come del resto quella (pubblicamente ostentata) di Berlusconi e, in forme meno eclatanti, quella della Meloni.
Ma dove sono i cattolici?
In questo contesto, la domanda che sorge spontanea è: ma dove sono finiti i cattolici (quelli che il vangelo non lo sventolano, ma lo leggono e cercano di praticarlo)? Dopo la fine della Prima Repubblica, sembrano scomparsi, inghiottiti, senza lasciare tracce, dai due poli che hanno dominato la Seconda.
Avrebbero dovuto essere loro – i laici cristiani, non i vescovi! – ad aiutare la sinistra a ricordare il primato del bene comune e dei valori in esso inclusi, a cominciare dalla giustizia, e la destra a capire che la difesa della vita nascente (nei confronti dell’aborto) o morente (nei confronti dell’eutanasia) e della famiglia (nei confronti delle teorie del gender) non ha senso se poi non si rispettano le persone già nate e non ancora moribonde, siano esse italiane (i poveri), siano straniere (i migranti).
La presenza dei cattolici nei due schieramenti – sia a livello di vertice che di base – è risultata e rimane, invece, irrilevante. E c’è da temere che, quando il card. Bassetti apre le porte a un futuro testo che possa riproporre le esigenze contenute nel ddl Zan, sottolineando che esso dovrà però tenere conto anche della voce dei cattolici, quella a cui pensa sia la voce della Conferenza episcopale o della Santa Sede, non quella dei laici.
Dobbiamo rassegnarci a questo stato di cose o possiamo sperare di cambiarlo? A spingerci ad preferire la seconda ipotesi non è la difesa degli interessi del cattolicesimo, ma la constatazione che entrambe le posizioni maturate in questa Seconda Repubblica senza il contributo del pensiero politico cristiano sono disastrose – non per la Chiesa, ma per le persone. Ma è plausibile un risveglio culturale e politico del laicato cattolico che, senza pensare a un “partito cristiano” – renda di nuovo rilevante il vangelo nella ispirazione delle scelte politiche? È una domanda a cui forse dovrebbe cercare di dar risposta il Sinodo che si è appena aperto.
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