La spaventosa strage di Manchester ha ancora una volta chiamato in causa quel terrorismo islamico che sembra inverare la tesi del politologo Samuel P. Huntington sullo «scontro di civiltà». Secondo Huntington, la fine del bipolarismo ideologico tra mondo comunista e mondo capitalista, simboleggiata dal crollo del muro di Berlino, nel 1989, ben lungi dal segnare l’inizio di un’era di pace, ha aperto la via alla esplosione di quei conflitti culturali e religiosi che la divisione in due blocchi aveva fino ad allora mascherato e tenuto sotto controllo.
Lo studioso americano, che scriveva alla fine del secolo scorso, prevedeva perciò che un nuovo scontro frontale fosse destinato a dividere il pianeta, ma che esso non si sarebbe svolto sul terreno delle ideologie politiche, e neppure dei diversi modelli economici, come in passato, ma contrapponendo e diverse «civiltà», quella islamica e quella cristiana.
All’inizio del nuovo millennio, l’11 settembre è sembrato una conferma di questa profezia e, da allora, essa aleggia sullo sfondo delle drammatiche vicende che hanno visto in questi anni il dilagare del terrorismo islamico sula scena del mondo globalizzato.
A rendere più plausibile questo primato della dimensione religiosa è stato il fallimento della “primavera araba” e il precipitare di diversi Stati islamici – si pensi alla Libia e alla Siria – in un caos istituzionale che li ha resi inaffidabili come interlocutori istituzionali, facilitando l’emergere di soggetti, come l’Isis, la cui soggettualità si presenta prima religiosa che politica.
In parte a causa di questa crisi, in parte legata a emergenze di altra origine, si è aggiunta a questo quadro l’esplosione del fenomeno migratorio, avvertito da una parte consistente dell’opinione pubblica e degli Stati europei come una minaccia al proprio benessere e alla propria sicurezza.
La tesi di Huntington è tuttavia controversa. Proprio riferendosi alle migrazioni, c’è stato chi ha fatto osservare che lo scontro vero, oggi, non è tanto tra religioni o civiltà diverse, ma tra poveri e ricchi. E questo sarebbe vero anche guardando più attentamente ai singoli Paesi dove il terrorismo infuria – si pensi a Boko Haram in Nigeria – e dove spesso il suo appellarsi a motivazioni religiose maschera problemi di altra natura.
Peraltro, molti musulmani contestano decisamente l’identificazione dell’Islam con il fondamentalismo e, nella misura in cui ne prendono le distanze, sono essi stessi, forse più ancora dei cristiani, bersaglio delle violenze dei loro correligionari più fanatici. Così come molti cristiani non si riconoscono nelle posizioni di una Marine Le Pen o di un Salvini e sono critici verso le politiche di chiusura nei confronti dei migranti attuate da molti Stati.
Resta vero che gli scenari della conflittualità mondiale, in questo inizio del terzo millennio, vedono un protagonismo del fattore religioso che sconvolge le previsioni novecentesche di una progressiva e inesorabile secolarizzazione. Si sono versati fiumi d’inchiostro per sostenere che le scoperte della scienza, le nuove applicazioni della tecnica, l’istruzione di massa avrebbero determinato una progressiva estinzione della fede. Invece, se pure in modo spesso distorto, essa ha oggi un ruolo pubblico che non aveva avuto nel secolo scorso, dominato da ideologie come il comunismo, il nazismo, il fascismo, impegnate a sostituire Dio con il proletariato, la razza o lo Stato.
Le stesse contestazioni mosse da musulmani e cristiani alle false interpretazioni delle loro rispettive religioni esigono un’attenzione molto maggiore che in passato ai loro testi sacri e alla interpretazione che bisogna darne. Oggi, se vogliamo smentire la matrice religiosa del terrorismo, siamo costretti a conoscere meglio il Corano. Così come, se dobbiamo prendere distanze dagli estremismi delle destre, in Europa e negli Stati Uniti, dobbiamo smetterla di considerare la Bibbia un libro riservato ai teologi e cercare di capire meglio il suo messaggio.
Se lo faremo, comprenderemo che i germi malefici da cui si sviluppa il terrorismo – la diffidenza nei confronti del diverso, l’ignoranza della sua reale identità, la presunzione fanatica di essere nel giusto, la paura, il gusto della violenza – sono estranei a questi testi, se li si interpreta nel loro insieme e non si gioca a estrapolare l’una o l’altra frase fuori del suo contesto.
Comprenderemo, allora, che la minaccia del terrorismo, con la sua falsa interpretazione dell’Islam, è una violenza opposta e simmetrica al cinico neo-colonialismo dell’Occidente, con la sua falsa interpretazione del Vangelo. E che il principale alleato dei terroristi è il vuoto culturale e religioso che la globalizzazione, promossa dai nostri Paesi, sembra prospettare come unica alternativa al fondamentalismo identitario. Così come il maggiore sostegno alle innumerevoli violenze che oggi si fanno nel mondo è il traffico di armi costruite e vendute dai Paesi che dichiarano di voler combattere il terrorismo.
Forse la sola via d’uscita dallo «scontro delle civiltà» è il recupero di ciò che di vero e di buono si trova nelle loro radici più autentiche e profonde, per neutralizzare le false interpretazioni che pretendono di giustificare la loro distruttiva contrapposizione.
Certo, vi sono irriducibili diversità tra le fedi religiose. Ma delle verità e dei valori che le accomunano – pur nel rispetto di queste diversità – possono essere trovati. Mirava a questo, non a un vacuo relativismo, l’incontro inter-religioso promosso da Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986; e hanno lo stesso obiettivo gli altri che si sono svolti e continuano a svolgersi – l’ultimo nell’autunno del 2016, sempre nella città umbra – per sottolineare la convergenza di tutti su uno di questi valori, la pace. Un concetto che non indica una pura e semplice non belligeranza e che potrà sempre più acquistare peso e influenza quanto più se ne approfondirà il significato nelle diverse tradizioni religiose.
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