Non erano mancati, all’indomani dell’elezione a presidente degli Stati Uniti di Donald Trump, i commentatori inclini a pensare che le sue scelte politiche sarebbero state assai meno drastiche di quanto le sue dichiarazioni, in campagna elettorale, potevano far prevedere. E un segnale in questo senso sembrava la rinunzia, all’indomani della vittoria, al progetto di far mettere sotto inchiesta la sua rivale, Hillary Clinton, come pure aveva promesso ai suoi più accesi sostenitori. Ma sono bastate le designazioni dei membri della squadra di governo, da parte del nuovo presidente, per far capire le sue effettive intenzioni.
Un punto cardine del suo programma elettorale era di assecondare e garantire l’atteggiamento reattivo della classe media bianca nei confronti dei neri, dei latinos e in genere degli stranieri, ritenuti troppo invadenti e spesso considerati una minaccia. Ebbene, tra i primi nomi scelti da Trump c’è stato quello di Steve Bannon, un sostenitore della supremazia della razza bianca, nel delicatissimo ruolo di consigliere e consulente, a cui si è aggiunto quello di Jeff Sessions, un razzista dell’Alabama, divenuto ministro della Giustizia, al quale viene attribuita la frase: «Quelli del Ku-Klux-Klan? Inizialmente mi erano simpatici, poi ho scoperto che fumavano marjuana». Si preannunciano tempi duri per i neri che volessero giustizia negli Stati Uniti…
Su questa linea, una delle prime misure annunciate da Trump dopo il suo ingresso alla Casa Bianca è la costruzione del famoso muro sulla frontiera col Messico, per impedire l’ingresso dei latinos. E si profilano all’orizzonte altri provvedimenti per limitare l’ingresso di stranieri di paesi asiatici.
Un altro punto cardine del programma elettorale del neo-presidente era la valorizzazione degli interessi americani, sia su piano economico che su quello politico. «L’America viene prima», è lo slogan che ha espresso sinteticamente il senso del suo discorso d’insediamento. Un’idea che probabilmente anche i suoi predecessori condividevano. La novità sta nell’interpretazione fortemente conflittuale che Trump ne ha dato nello stesso discorso. Perché la prosperità di una nazione può essere perseguita o in modo da includere nel suo processo di crescita il resto del mondo, oppure escludendo a priori tutti gli altri. Il nuovo presidente – ancora una volta coerentemente con le sue promesse – ha scelto la seconda via: «Ogni decisione sul commercio, sulle tasse, in materia di immigrazione, sugli esteri», ha detto solennemente, «sarà presa a beneficio dei lavoratori americani e delle famiglie americane. Dobbiamo proteggere i nostri confini dalle devastazioni di altri paesi che distruggono i nostri prodotti, rubano le nostre aziende e distruggono il nostro lavoro. L’America tornerà a vincere, come mai prima. Ci riprenderemo i nostri posti di lavoro. Ci riprenderemo i nostri confini. Ci riprenderemo la nostra ricchezza. E ci riprenderemo i nostri sogni. Ricostruiremo il nostro paese con mani americane e lavoro americano. Seguiremo due semplici regole: compra americano e assumi americano».
«Per troppo tempo», ha continuato Trump, «l’establishment ha protetto se stesso, ma non i cittadini (…). Il 20 gennaio 2017 sarà ricordato come il giorno in cui il popolo è tornato a governare il paese». Finalmente il popolo al potere, dunque?
A farne dubitare è la scelta di due uomini-chiave della squadra di governo. Uno, Steve Mnuchin, chiamato alla carica fondamentale di segretario al Tesoro, è un finanziere rampante, cresciuto alla scuola di Soros, da decenni il maggiore avventuriero della finanza mondiale. L’altro, Rex Tillerson, il Ceo (Amministratore delegato) di una delle potenti “sette sorelle” del petrolio, la Exxon-Mobil, insediato nel ruolo delicatissimo di segretario di Stato. Due nomine che rinsaldano ancor più, rispetto a ciò che avrebbe fatto la Clinton, i legami tra il nuovo governo americano e l’odiato establishment economico-finanziario che la classe media americana accusava di averla impoverita.
E non è forse un caso, soprattutto in riferimento alla seconda nomina, che tra le decisioni di Trump, in questi primissimi giorni di presidenza, ci sia di sbloccare i progetti di due immensi oleodotti, fermati da Obama – il primo, perché dovrebbe attraversare le terre sacre della riserva dei Sioux, rischiando seriamente di inquinarne le falde di acqua potabile, il secondo per il suo eccessivo impatto ambientale.
Dell’ambiente, peraltro, Trump ha sempre detto di non credere affatto che sia in pericolo e, in attesa di sconfessare ufficialmente gli impegni internazionali presi dal suo predecessore per ridurre la percentuale di inquinamento delle industrie Usa, ha nominato un negazionista del riscaldamento globale, Scott Pruitt, segretario alla Protezione Ambientale.
Non siamo in grado di sapere se gli elettori di Trump si renderanno conto del significato sia delle sue designazioni che di queste prime scelte operative. Quelli che lo facessero, dovranno pur chiedersi se a ispirarle sia la volontà del popolo, oppure quella dei poteri forti dell’economia e della finanza di cui Trump stesso, ma ancora più chiaramente i suoi più stretti collaboratori, sono espressione.
Anche i primi passi fatti dal nuovo presidente per l’abolizione dell’Obamacare, il sistema sanitario creato dal suo predecessore per garantire cure gratuite alla percentuale più debole della popolazione americana, confermano la coerenza delle sue scelte col programma elettorale, ma anche la sua incoerenza di fondo (già implicita in quel programma) con la pretesa – così solennemente proclamata – di avere finalmente portato al potere il popolo. Considerato che di esso fanno parte pure i neri, i latinos, gli indiani e i poveri.
E’ molto triste che l’unica misura in sé pienamente condivisibile presa da Trump (anche di questa è giusto dire) – qual è il divieto di usare fondi del governo per sovvenzionare gruppi che pratichino o forniscano consulenza sull’aborto all’estero – , si situi in questo contesto discriminatorio, rischiando di essere catalogata tra le altre della politica reazionaria e fanatica del nuovo presidente. Tanto più che i suoi reiterati e ostentati atteggiamenti di disprezzo nei confronti delle donne rendono molto difficile vedere nella sua decisione non una limitazione della loro libertà di non avere figli, ma la promozione di quella di averne, a dispetto di tutti i condizionamenti esterni, come una sana politica favorevole alla maternità dovrebbe fare.
Ancora una volta, così, si ripresenta l’assurda divaricazione tra chi difende la vita nascente e morente, senza rispettare quella che si svolge tra questi due estremi, e chi al contrario difende i diritti delle persone già nate, misconoscendo però quelli dei non ancora nati. A quando una linea politica che finalmente rispetti gli esseri umani in ogni fase della loro vita, quale che sia il colore della loro pelle o la loro nazionalità, e mettendo le loro esigenze al di sopra di quelle dell’industria e della finanza?
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