Un atto di intolleranza verso la diversità?
Non ha mancato di suscitare accese polemiche il Motu proprio «Traditiones custodes», con cui papa Francesco ha modificato le regole per la celebrazione della cosiddetta “messa in latino”, non abolendola – come erroneamente è stato detto nel disinvolto linguaggio giornalistico –, ma certamente ridimensionandola.
Le voci che si sono levate per protestare non hanno risparmiato toni drammatici. Si è parlato di «decisione spietata»; si è detto che lo «sciagurato Motu proprio» in questione «rivela un disprezzo profondo verso i sacerdoti e i fedeli che frequentano abitualmente o saltuariamente la Messa antica» e si è visto in esso «la decisione del cattivo pastore, che sta facendo di tutto per scacciare le pecore fuori dal gregge, incurante dei loro bisogni e della loro sensibilità. In barba all’unità nella diversità» («Nuova Bussola Quotidiana»). Addirittura il provvedimento pontificio è stato paragonato alla croce, su cui il rito latino – implicitamente identificato con Cristo –, veniva crocifisso! (ivi).
Ma è veramente così alta la posta in gioco? E, in caso di risposta affermativa, in che senso? Sia per i credenti che per i non credenti vale la pena di porsi queste domande, cercando di dare una risposta meno superficiale di quanto non sia stato fatto nella maggior parte dei casi. Si può guardare la questione sotto due profili diversi. Uno è quello istituzionale, l’altro quello propriamente liturgico. Cominciamo dal primo.
La Chiesa non è una piramide
Un punto su cui tutti gli osservatori – favorevoli e contrari – si sono trovati d’accordo è che, con questo Motu proprio, papa Francesco ha cambiato linea rispetto al suo predecessore Benedetto, che, nel 2007, aveva “liberalizzato” la pratica della messa celebrata secondo il rito preconciliare, con il messale del 1962, rendendola indipendente dal permesso del vescovo diocesano.
In realtà anche Giovanni Paolo II aveva autorizzato questa pratica, ma subordinandola al controllo dei vescovi delle singole diocesi. La svolta di Benedetto era stata di eliminare questa condizione, sottolineando che il messale del 1962 rientrava a pieno titolo, come “Rito Romano extra-ordinario”, nella liturgia cattolica.
Con quest’ultimo Motu proprio, il vescovo di ogni singola diocesi si vede restituire la responsabilità di regolare la celebrazione secondo il rito preconciliare, valutando volta per volta le ragioni che spingono un sacerdote e un gruppo a farne richiesta. Da ora in poi «è sua esclusiva competenza autorizzare l’uso del Missale Romanum del 1962 nella diocesi, seguendo gli orientamenti dalla Sede Apostolica».
Già questo è un passo la cui importanza è stata troppo poco sottolineata nei commenti dei giornali. Il fatto è che, abituati come siamo a pensare la Chiesa in termini burocratici, spesso la concepiamo come una piramide monolitica, con un vertice, il papa, da cui i vescovi dipendono come i funzionari di un ufficio dal direttore generale. Non è così. La Chiesa universale ha la sua realtà, immensamente variegata, nelle Chiese particolari – ognuna guidata dal suo vescovo, in quanto successore degli apostoli –, in cui si riflette la totalità della Catholica. Come ha ricordato e sottolineato il Concilio Vaticano II, «i singoli vescovi sono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro Chiese particolari, formate ad immagine della Chiesa universale, ed in esse e da esse è costituita la Chiesa cattolica una e unica» (Lumen Gentium n.23). Il primato di Pietro non è quello di un capufficio, ma deriva dal suo essere il vescovo di Roma (e così Francesco si è definito, la sera della sua elezione a papa). Ed è insieme agli altri vescovi, pur avendo un primato rispetto ad essi, che egli governa la Chiesa. È in questo senso che si parla di «collegialità episcopale».
In quest’ottica, bisogna riconoscere che la decisione di Benedetto di sottrarre ai vescovi delle singole diocesi il controllo della liturgia, almeno per quanto riguarda le messe in latino, era in netta rottura con la direzione indicata dal Concilio. Papa Francesco si è limitato a rimettere in primo piano la prospettiva della Lumen Gentium, la costituzione conciliare sulla Chiesa. Poteva farlo con un suo personale atto d’autorità. Invece ha voluto seguire una procedura che conferma lo stile della collegialità, consultando prima gli altri vescovi di tutto il mondo e traendo le conclusioni dai loro pareri.
La ricerca dell’unità
E proprio all’unità della Chiesa e delle singole Chiese egli ha fatto riferimento, per giustificare la sua decisione di ristabilire l’autorità dei vescovi, «visibile principio e fondamento di unità nelle loro Chiese particolari», come dice il Concilio. «Purtroppo», scrive Francesco nella lettera che accompagna il Motu proprio, «l’intento pastorale dei miei Predecessori, i quali avevano inteso “fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente», è stato spesso gravemente disatteso. Una possibilità offerta da san Giovanni Paolo II e con magnanimità ancora maggiore da Benedetto XVI al fine di ricomporre l’unità del corpo ecclesiale nel rispetto delle varie sensibilità liturgiche, è stata usata per aumentare le distanze, indurire le differenze, costruire contrapposizioni che feriscono la Chiesa e ne frenano il cammino, esponendola al rischio di divisioni».
Soprattutto papa Ratzinger aveva sperato, con la sua apertura alla “messa in latino”, di far riassorbire lo scisma dei lefebvriani. In realtà, non solo la speranza si era rivelata vana, ma il ricorso incontrollato alla liturgia preconciliare aveva creato due piste parallele e contrapposte, che incrinavano l’unità delle singole diocesi e della Chiesa nel suo insieme, legittimando una visione teologica sbagliata. Scrive ancora papa Bergoglio: «Mi rattrista un uso strumentale del Missale Romanum del 1962, sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la “vera Chiesa”».
La liturgia come simbolo
Questo però significa che il problema propriamente liturgico – il secondo che ci siamo posti – non può essere affrontato se non alla luce dei sottintesi simbolici che si attribuivano all’antica celebrazione. Dietro l’uso del latino (oggi incomprensibile alla stragrande maggioranza), dietro il mantenimento della posizione del sacerdote, che dà le spalle all’assemblea, dietro la recita dell’atto penitenziale prima dal solo celebrante e poi da tutti i fedeli – a sottolineare il ruolo “separato” e preminente del primo rispetto ai secondi, non c’è nessuna eresia, ma solo il rischio che tutto ciò diventi, agli occhi di chi privilegia questo modo di celebrare la messa, un tacito rifiuto del cambiamento della Chiesa e del modo di essere cristiani e la riaffermazione di un rapporto tra presbiteri e laicato che giustamente oggi l’ecclesiologia ha superato. Il problema è simbolico.
Non a caso il Motu proprio non proibisce il Missale Romanum, ma chiede al vescovo di accertare che i gruppi che già celebrano con esso «non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici».
Insomma, in base all’antico principio secondo cui «lex orandi lex credendi», “la regola della preghiera è anche quella della fede”, bisogna che la varietà sempre possibile delle forme liturgiche (tutt’ora ampiamente ammessa nella Chiesa cattolica, per esempio nel rito ambrosiano e ancor più nelle Chiese di rito greco) non nasconda un sottile rifiuto dell’unità a tutte sottostante, perché questo non rompe solo l’unità liturgica, ma quella di fede.
Essere fedeli alla storia
È in gioco, peraltro, non solo l’unità della Chiesa, ma la visione che si ha del suo rapporto con la storia. È nella logica dell’incarnazione che l’immutabile contenuto del Vangelo si cali di epoca in epoca in formule, elaborazioni teologiche e modalità liturgiche sempre differenti. Dio è entrato nella storia degli uomini e questo rende la religione cristiana diversissima da quelle che cercano la divinità in una immutabile eternità fuori del tempo o quelle altre che si ispirano agli altrettanto immutabili cicli della natura. Facendosi uomo, il Verbo divino ha accettato di condividere la storicità degli esseri umani, che restano sé stessi solo nel continuo cambiamento. Voler fermare questo dinamismo, immobilizzandolo in una sua fase, ritenuta intoccabile, è la negazione di questa assunzione della storia da parte di Dio.
Non si nega, ovviamente, che vi debba essere una continuità, pur nel mutamento. Non è il Vangelo che cambia, ma la comprensione che i cristiani nel corso del tempo ne acquisiscono, sotto la spinta delle nuove situazioni storiche e delle domande sempre nuove che esse pongono ai credenti. Per questo c’è un progressivo sviluppo perfino dei dogmi e, a maggior ragione, dell’etica personale e pubblica. Di questi sviluppi sono un riflesso anche il mutamento della liturgia, che i nostalgici scambiano per un tradimento, ma che sono invece l’unico modo di essere veramente fedeli al carattere storico, e perciò dinamico, della Rivelazione.
La fedeltà alla tradizione non è il mantenimento di un passato imbalsamato, rifiutando il nuovo, ma la capacità di leggere, alla luce del passato, il dinamismo del presente verso il futuro. Questo, con fatica, sta facendo la Chiesa di oggi.
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