Possiamo ancora celebrare il Natale? In un racconto della tradizione ebraica si parla di un discepolo che un giorno si recò dal proprio rabbi per confessargli di avere la terribile tentazione di farsi cristiano. «E se fosse davvero venuto?», era la domanda che lo tormentava.
Il rabbi era seduto vicino a una piccola finestra, coperta da una tenda. Non disse nulla ma, con una mano, scostò la tenda e guardò fuori. In strada c’erano un mendicante cencioso che chiedeva l’elemosina, una prostituta che aspettava qualche cliente, un uomo che picchiava un bambino. Lasciò ricadere la tenda e disse: «No, non è venuto».
Del Messia i profeti avevano parlato come di colui che avrebbe, a nome di Dio, instaurato un regno di pace e di giustizia destinato a durare per sempre. Come si legge nel libro di Isaia: «Egli sarà giudice fra le genti/e arbitro fra molti popoli./Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,/ delle loro lance faranno falci;/una nazione non alzerà più la spada/contro un’altra nazione,/non impareranno più l’arte della guerra» (Is 2,4).
Se si guarda a questa promessa, non si può non restare increduli davanti alla fede dei cristiani, espressa nella festa del Natale, secondo cui il Messia è già venuto nel mondo duemila anni fa. Proprio in questi giorni la cronaca ci parla di fatti che fanno apparire questa festa come un’illusine, se non addirittura come un ipocrita “buonismo”. Possiamo ancora credere nel Natale oggi, dopo quello che è successo a Berlino? Ma la domanda si può riprendere e moltiplicare: possiamo ancora credere nel Natale dopo quello che è accaduto ad Aleppo? dopo le atroci torture agli ostaggi da parte dei membri dell’Isis a Dacca? dopo la strage di Nizza? dopo quella del Bataclan a Parigi?
Molti non si pongono questi interrogativi, per il semplice motivo che per loro il Natale è solo un’occasione di fare acquisti, di concedersi una vacanza, di stare allegri scambiandosi degli auguri di cui hanno dimenticato il motivo. Il mistero del Dio che si fa uomo è, allora, poco più di una pia leggenda , buona al massimo per giustificare gli addobbi luminosi delle strade e dei negozi, ma senza alcun significato che possa riguardare il senso della vita e della storia.
Resta l’interrogativo per le coscienze più vigili, siano esse credenti o non credenti: che senso ha oggi festeggiare il Natale, mentre tutto concorre, con tragica evidenza, a smentirne il significato? Non siamo costretti anche noi, come il saggio rabbi ebreo, a constatare con rassegnata tristezza: «No, non è venuto»? E a dare ragione a chi, in aperta rottura col messaggio cristiano, oggi, per reazione, si appella ad un crudo realismo e rinnega cinicamente ogni logica di fraternità e di solidarietà, alzando muri in nome del diritto di autodifesa?
Eppure, ci mette in guardia dal liquidare come troppo “buonisti” i racconti evangelici della nascita del Salvatore il fatto che in essi, e più specificamente in quello di Matteo, al racconto del Natale segue immediatamente quello, terribile, della strage degli innocenti: «Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi. Allora si compì ciò che era stato detto per mezzo del profeta Geremia: 18Un grido è stato udito in Rama,/ un pianto e un lamento grande:/Rachele piange i suoi figli/ e non vuole essere consolata,/perché non sono più (Mt 2,16-18). E si collega a questa strage la prima esperienza del neonato di Bethlem, che è identica a quella di tanti bambini giunti in questi ultimi anni dal mare sui barconi: la fuga e la ricerca di un asilo in terra straniera.
No, la tradizione cristiana non si è mai illusa che la nascita di Gesù dovesse eliminare il male dalla storia con un colpo di bacchetta magica. La parabola evangelica del grano e della zizzania, destinati a crescere insieme fino alla fine dei tempi, è da questo punto di vista significativa. E le stesse circostanze in cui questa nascita si è verificata, nell’indifferenza generale e nell’emarginazione, escludevano che questo Messia fosse quello trionfante e dominatore atteso dagli ebrei.
Il silenzio e la povertà che pervadono il Natale, la successiva fuga in Egitto, indicano piuttosto che Dio stesso si mette dalla parte dei poveri, dei perseguitati, delle vittime, così che ciò che viene fatto a loro colpisce Lui. Già da questo punto di vista esso è un terribile monito nei confronti dei ricchi, dei persecutori e dei violenti.
Ma il Natale significa anche che nella profondità della storia operano forze che non fanno rumore – come sono quelle della verità e dell’amore – e che, a dispetto degli apparenti, momentanei insuccessi, sono destinate ad avere la meglio. Perché a Natale Dio si è fatto uomo e ormai Egli stesso garantisce la vittoria finale di ciò che è umano.
Oggi molti pensano che la storia darà ragione ai terroristi, se non ci opponiamo ad essi con lo stesso spirito di odio e con lo stesso disprezzo della differenza tra colpevoli e innocenti. Il Natale ci sfida a rifiutare questa logica. In realtà, la sola cosa peggiore di un mondo dove i fanatici dilagano senza pietà è un mondo dove, per combatterli, noi stessi ci riduciamo a diventare come loro. Duemila anni fa il Signore delle galassie, assumendo la nostra inerme umanità nella sua forma più estrema, quella di un neonato infreddolito, ha preso su di sé la causa dell’uomo e ci ha chiesto di avere anche noi fiducia in essa. Ed anche in questo difficile momento della nostra storia, possiamo metterci in ascolto di questo silenzioso messaggio, oppure ignorarlo, nella fretta di correre di negozio in negozio per comprare gli ultimi regali.
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