Il senso della sinodalità
La recente Assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana (24-27 maggio) ha ufficialmente sancito l’avvio del Sinodo delle Chiese d’Italia, già da tempo auspicato da papa Francesco e, non senza ritardi e resistenze, alla fine messo all’ordine del giorno dai vescovi italiani.
In una intervista all’«Osservatore Romano», Erio Castellucci, arcivescovo di Modena, appena eletto vice-residente della CEI, ha spiegato il senso di questa scelta. La scommessa è di fare della sinodalità «non un evento a sé, ma uno stile permanente di Chiesa».
Dove per “sinodalità” – dal greco syn-odos, “cammino comune” – nella tradizione della comunità cristiana si intende una partecipazione attiva di ciascun membro, qualche sia il suo ruolo, alla costruzione della vita ecclesiale, in uno stile di franco confronto e di intelligente cooperazione. A differenza della categoria di “democrazia”, che vale per la società politica, quella di sinodalità non implica l’azzeramento delle differenze. Non vale il principio, oggi così spesso ripetuto, secondo cui “1 vale 1”.
Perché qui non si tratta tanto di far valere un diritto, quanto di rispondere a una chiamata e di mettere a frutto un dono proveniente dall’Alto. Ognuno offre quello che è e quello che ha, nella consapevolezza di averlo ricevuto per il bene di tutti, non per esercitare un potere, ma per svolgere un servizio. L’immagine ricorrente, nella tradizione cristiana, è quella di un unico corpo, le cui membra, pur con identità e funzioni diverse, sono tutte necessarie l’una all’altra per la crescita armoniosa dell’organismo nella sua interezza. Perciò il problema non è – come nella società politica – quello dei criteri in base a cui individuare chi deve esercitare l’autorità (monarchia ereditaria, democrazia rappresentativa, etc.), perché questa viene da Dio, bensì la fedeltà al compito ricevuto.
Nella sinodalità tutto questo deve esprimersi in un dialogo grazie al quale ciascuno è messo in grado di vedere i problemi anche dal punto di vista degli altri membri della comunità, consentendo così una visione d’insieme.
Una rivoluzione
Non c’è bisogno di esser particolarmente addentro nella vita della Chiesa per rendersi conto che tutto questo è ben lungi dall’essere realizzato nella sue strutture – spesso pesantemente burocratiche – e nei comportamenti dei suoi membri, ispirati in molti casi (grazie a Dio, ci sono le eccezioni) a logiche di potere e di prestigio.
Si capisce allora l’auspicio, espresso da mons. Castellucci, che il Sinodo in preparazione non sia un evento, ma un «cammino sinodale». «Organizzare un Sinodo in fondo sarebbe abbastanza facile: si nominano dei delegati, si dà un ordine del giorno, si tiene qualche assemblea… Invece il cammino sinodale è una questione più complessa». Comporta una rivoluzione di mentalità.
Da parte di tutti: dei vescovi, che devono mettersi, nei confronti del popolo di Dio loro affidato, in un atteggiamento di ascolto, più che in quello di chi esige – peraltro con sempre minore successo – di essere ascoltato.
Da parte dei parroci, anche loro tentati a volte dalla logica perversa del «qui comando io», che rende impossibile una reale partecipazione dei fedeli e li confina in ruoli di manovalanza.
Da parte dei presbiteri, in generale, oggi spesso “orfani” – anche a causa della pandemia – di una serie di pratiche liturgiche e devozionali in cui incanalavano le loro attività e tentati di sentirsi perciò superflui, invece di vedere in questo una salutare occasione di liberarsi dal ritualismo e di riscoprire l’essenziale della loro pratica pastorale.
Dei religiosi e delle religiose, colpiti – soprattutto le seconde – dalla crisi vocazionale che caratterizza il nostro Paese, come del resto tutta l’Europa, e ridotti a volte a gestire le ingombranti strutture lasciate loro in eredità dai loro predecessori, senza avere più il tempo e la creatività per ripensare a fondo i loro rispettivi carismi.
Dei laici e delle laiche, molti dei quali solo frequentatori, più o meno assidui, di riti liturgici e, se anche “impegnati” nella vita della parrocchia, disabituati a un ruolo di veri protagonisti e spesso paghi del ruolo – per certi versi comodo – di meri esecutori .
Sinodalità significherebbe confrontarsi e rimettersi in discussione, senza mascherare i segni di crisi, lasciandosi costringere così a prenderne piena coscienza e cercando insieme delle risposte. E questo non a partire dalle curie vescovili, ma ascoltando i semplici fedeli, puntando su una consultazione “al basso che dovrebbe coinvolgere le parrocchie, i gruppi, i movimenti.
L’ascolto del “mondo”
E poiché il cammino che la Chiesa deve percorrere si svolge in un mondo di cui, come ricorda la Gaudium et spes, essa condivide intimamente le sorti, la sinodalità dovrebbe implicare anche l’ascolto delle voci di coloro che non si ritengono membri del corpo della comunità ecclesiale, ma che forse sono vicini alla sua anima, e che possono, col loro sguardo dall’esterno, dare un contributo importante a una corretta individuazione e definizione dei problemi.
In realtà solo se ci sarà questo ascolto il Sinodo potrà essere non una mera celebrazione, bensì, come ha auspicato il cardinale Bassetti nel suo discorso di apertura dell’Assemblea dei vescovi, «quel processo necessario che permetterà alle nostre Chiese che sono in Italia di fare proprio, sempre meglio, uno stile di presenza nella storia che sia credibile e affidabile».
In questi mesi la pandemia ha evidenziato – non creato! – lo scollamento crescente che divide la nostra società, soprattutto i giovani, dall’istituzione ecclesiastica, dai suoi riti, dalle sue convinzioni etiche. Mai come oggi la Chiesa appare marginale. Neppure la potente spinta rinnovatrice impressa da papa Francesco è valsa a cambiare una tendenza di fondo che opera ormai da molti anni. Anzi, in qualche modo, proprio questa novità ha messo ancora più in evidenza la difficoltà del resto della Chiesa istituzionale a condividere una rottura col passato di cui molti hanno paura.
Le domande aperte
Anche adesso, è facile intuire, dietro i formali (e obbligati) consensi alla volontà del pontefice, che ha quasi imposto alla CEI di indire il Sinodo, le sorde resistenze di molti vescovi e lo scetticismo di altri. Ce ne sono, è vero, che lucidamente percepiscono l’urgenza del rinnovamento e vedono nel «cammino sinodale» una preziosa opportunità per rimescolare le carte e aprire un dibattito costruttivo sul futuro della Chiesa. Ma devono fare i conti con gli altri, anche alla luce del fatto che ogni vescovo ha una autorità sulla propria diocesi che non è una derivazione burocratica dal papa, ma si fonda, in linea di principio, sulla successione apostolica e lo rende relativamente libero di fare le sue scelte in autonomia.
Si avrà, da parte dei più perplessi, una reale cooperazione a quella consultazione “dal basso” di cui sopra di parlava, senza cui il senso del Sinodo si perderebbe? Più in generale, si riuscirà ad evitare che “dall’alto” si elaborino questionari, griglie di discussione, “strumenti di lavoro”, costruiti a tavolino e molto lontani dalle reali domande della gente? Come evitare che l’istituzione ponga dei freni più o meno occulti a un percorso che nasce proprio pe rimetterla in discussione? Come impedire che il Sinodo venga interpretato da molti alla stregua di un fastidioso prezzo da pagare alla moda del “rinnovamento”? O, all’estremo opposto, che ci si illuda con esso di risolvere una volta per tutte i problemi attuali della Chiesa?
Sono domande che potranno trovare risposta solo nei mesi che verranno. Ma nessuno – in primo luogo i credenti, ma in una certa misura anche i non credenti – può illudersi di aspettare che altri diano questa riposta, restando semplice spettatore. Che il cammino sinodale cominci “dal basso” significa che ognuno – dalla più umile catechista alle guide delle comunità ecclesiali – deve sentirsi responsabile della sua riuscita o meno. E, come nella parabola dei talenti, ne risponderà al Dio che gli ha dato alcuni doni, che altri forse non hanno, che lo rendono insostituibile per l’opera comune.
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