Tra le feste liturgiche che la Chiesa celebra nella settimana successiva al giorno di Natale, e che hanno il compito di prolungarne il clima spirituale, c’è quella dei Santi Innocenti. La storia, narrata nel vangelo di Matteo, è nota: Erode, quando si accorge che i magi non torneranno a informarlo sull’identità del “re dei Giudei” nato a Bethlem, per essere sicuro di toglierlo di mezzo manda dei soldati ad uccidere tutti i bambini del piccolo centro dai due anni in giù.
Un racconto che ancora oggi, per la sua atrocità, ci fa inorridire e suscita la nostra indignazione nei confronti dello spietato tiranno. Forse, però, dovremmo chiederci se il mondo, dopo duemila anni, non sia ancora alle prese con il triste fantasma di Erode e se la nostra giusta reazione non sia un alibi che ci permette di distrarre gli occhi dal presente.
Perché i bambini continuano ad essere le vittime innocenti dei conflitti che oggi travagliano il nostro pianeta. A cominciare da quello determinato dai grandi flussi migratori che, come era avvenuto al tempo della crisi dell’impero romano, vedono ondate sempre più imponenti di uomini e donne, provenienti da terre per vari motivi inospitali, riversarsi sui confini dei Paesi del benessere e della pace, per trovarvi un tenore di vita migliore per sé e per i loro figli. Solo la scarsa cultura di chi ripete certi slogan semplicistici – della serie: “Perché non se ne stanno a casa loro?” – può spiegare la loro illusione che basti erigere muri e respingere barconi per fermare un fenomeno epocale, motivato da situazioni drammatiche (fame, sete, guerra, dittature spietate) e che andrebbe, piuttosto, regolato in modo ben più serio e umano di quanto si sia fatto finora.
Perché è chiaro che, finché da una parte si opporrà una tenace resistenza ad accogliere, dall’altra la sola possibilità sarà di ricorrere a mezzi estremi, come sono i viaggi della morte in cui migliaia di esseri umani – e molti sono bambini – hanno lasciato e continuano a lasciare la vita. Se queste persone sono costrette a correre rischi e ad affrontare un’avventura che, oltre ad essere terribilmente pericolosa, si svolge in condizioni disumane, con privazioni, stupri e violenze di ogni genere, ciò non dipende dalla loro povertà – costerebbe molto meno denaro un comune biglietto aereo per una capitale europea di quanto non chiedano gli “scafisti” – , ma dal fatto che le frontiere di questa “terra promessa” sono inesorabilmente sbarrate e che l’unico modo di attraversarle è di affidarsi ai turpi mercanti di esseri umani che speculano su questa situazione.
Di questi disperati, molti sono bambini, un certo numero senza i rispettivi genitori, perché li hanno persi durante il tragitto o perché questi hanno preferito mettere in salvo almeno i loro figli. Chi propone di lasciare annegare un certo numero di questi “intrusi” – bambini compresi – , per dare un esempio, non ha il diritto di indignarsi, ascoltando la storia di Erode. E neppure coloro, sempre più numerosi, che magari dicendo di farlo a malincuore, finiscono per sostenerne la linea invocando un immaginario “realismo”. Anche Erode credeva di essere realista.
Non è l’unico caso, però, in cui il racconto evangelico dovrebbe farci riflettere. Molti di coloro che si indignano per la “strage degli innocenti” che si consuma, ormai da anni, nel Mediterraneo, non si indignano affatto, invece, di fronte agli slogan che esaltano il diritto delle donne di decidere loro della vita del proprio bambino ancora non nato.
So bene che questo mettere sullo stesso piano i due fenomeni suscita abitualmente l’irritazione e lo sdegno di molti “benpensanti”. Ormai nel mondo occidentale il riconoscimento del diritto di aborto è considerato un indice di civiltà ed è molto difficile rimetterlo in discussione senza rischiare un vero e proprio linciaggio morale preventivo. Ma forse il richiamo a un confronto intellettuale onesto, che prescinda da ogni “fede” – sia quella religiosa, sia quella “laica” – ed esamini semplicemente le “ragioni”, può aiutare a capire, se non a condividere, perché la strage degli innocenti, secondo chi scrive, riguardi anche i feti e gli embrioni.
E un confronto intellettuale onesto dovrebbe cominciare col riconoscere che fondare il diritto di abortire sulla libertà delle donne, è – come chiarisce lucidamente uno dei più famosi bioeticisti (che pure, come vedremo, ne è un deciso fautore), Peter Singer – «può essere una buona politica, ma certo è cattiva filosofia. Presentare il problema dell’aborto come una questione di libertà di scelta individuale (. . . ) significa già di per sé presupporre che il feto in realtà non conta nulla. Chiunque pensi che un feto umano ha lo stesso diritto alla vita degli altri esseri umani non potrà mai ridurre il problema dell’aborto a una questione di libertà di scelta, più di quanto possa ridurre la schiavitù a una questione di libertà di scelta da parte degli schiavisti». La sola vera giustificazione dell’aborto, perciò, secondo Singer (che, ripetiamo, ne è un sostenitore), sta nel fatto che l’embrione e il feto non sono persone. È di questo, secondo lui, che bisogna convincersi una buona volta.
Sono, è vero, esseri umani. Questo Singer, come del resto qualsiasi studioso serio, non lo nega. C’è il Dna ad attestarlo e rifiutare l’identità umana all’embrione sarebbe mettersi contro la scienza. E allora? Per Singer, come per Engelhardt, per Tooley, per Regan – per tutti i grandi bioeticisti che giustificano l’aborto – , dobbiamo avere il coraggio di rimettere in discussione quella che spesso viene considerata una certezza indiscutibile, e cioè il valore della vita umana come tale. «Perché è moralmente sbagliato», si chiede Singer, «sopprimere una vita umana? (. . . ). Che cosa c’è di così speciale nel fatto che una vita sia umana?». Per questi autori se mai il valore da tutelare sono le persone. Ma, essi spiegano, “persone” si possono considerare solo gli esseri che hanno una certo livello di autocoscienza. Perciò, come dice lapidariamente Engelhardt, «non tutti gli esseri umani sono persone. Non tutti gli esseri umani sono autocoscienti, razionali e capaci di concepire la possibilità di biasimare e lodare. I feti, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in coma senza speranza costituiscono esempi di non-persone umane». Questi esseri possono essere uccisi, o usati per esperimenti, senza violare in nulla l’etica.
Si noterà che la netta divisione fatta dalla legislazione italiana tra il periodo dei primi tre mesi, in cui l’aborto è lecito, e quello successivo, in cui è vietato, viene qui considerata – e lo è, dal punto di vista della scienza – del tutto assurda. Sia prima che dopo siamo davanti a un essere umano. Sia prima che dopo, però, non c’è una persona. Ecco perché bisogna riconoscere alla donna la libertà di decidere della vita del feto come dell’embrione.
Ma non solo di questi. Si sarà notato che Engelhardt considera non-persone, oltre ai feti, anche gli infanti, i neonati. Per lui «le persone in senso stretto vengono in essere solo qualche tempo – probabilmente qualche anno – dopo la nascita». Fino ad allora, un bambino, non essendo una persona, può essere eliminato senza che questo crei un problema morale. Gli argomenti che a suo avviso giustificano l’aborto portano, sempre secondo lui, anche all’infanticidio. Sulla stessa linea è Singer: «Sembrano esserci solo due possibilità: opporsi all’aborto o consentire l’infanticidio».
Da noi, in Italia, nessuno si appella esplicitamente a queste teorie. Si preferisce sbandierare il facile e infondato slogan della libertà della donna. Forse perché altrimenti, davanti a queste affermazioni, si sarebbe costretti a chiedersi se davvero il riconoscimento dell’aborto sia una conquista della civiltà. O almeno, se la “civiltà” di cui si parla non sia quella stessa che, in nome del proprio diritto al benessere, lascia annegare i bambini nel Mediterraneo, perpetuando la storia di Erode.
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