È stata l’incubo in cui è vissuto il mondo, durante tutta la seconda metà del Novecento; sono stati fatti film, come The day after, per descrivere quali avrebbero potuto essere le sue conseguenze; le diplomazie delle grandi potenze hanno lavorato indefessamente per scongiurarla; e ora, a quasi vent’anni dall’inizio del nuovo millennio, ci accorgiamo con orrore che la terza guerra mondiale è cominciata già da tempo senza avvertirci.
Lo aveva detto senza mezzi termini papa Francesco, nell’agosto del 2014: «Siamo entrati nella Terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli». Si era creduto che la caduta del muro di Berlino avrebbe inaugurato una stagione di pace. Oggi ci si rende conto sempre più chiaramente che, segnando un netto confine tra due blocchi contrapposti, ben individuati e responsabili delle proprie scelte, esso era in qualche modo la garanzia di un equilibrio.
La fine di questo equilibrio, per quanto criticabile esso fosse, ha aperto la stagione della regionalizzazione dei conflitti. Senza più il controllo imposto dal gioco dei reciproci contrappesi, si è scatenata una miriade di guerre locali – in buona parte invisibili al grosso pubblico perché oscurate dai mezzi di comunicazione – che ormai, a macchia di leopardo, insanguinano da un capo all’altro il nostro pianeta. Invece di un braccio di ferro tra due grandi potenze – USA e URSS – , ora abbiamo di fronte il folle imperversare di tutti contro tutti, senza che sia più possibile neppure capire bene chi sono gli aggressori e chi le vittime.
Perciò, che questa terza guerra mondiale si combatta «a pezzetti, a capitoli», non la rende meno tremenda delle due che l’hanno preceduta. Anzi! Perché, con essa, due processi devastanti che, in modi diversi, le avevano caratterizzate hanno raggiunto il pieno compimento: il primo, la tendenza a coinvolgere nel conflitto non uno o più Stati, come era sempre accaduto, ma l’intero pianeta; il secondo, la scomparsa della distinzione tra combattenti e civili e lo spostamento dell’obiettivo bellico dai primi ai secondi.
Per quanto riguarda questo secondo punto, va detto che, in realtà, le guerre sono sempre state un flagello anche per le popolazioni: saccheggi, stupri, violenze di ogni genere hanno accompagnato gli eserciti nei loro spostamenti. Esisteva, però, un confine più o meno netto tra quanti erano investiti del ruolo di combattenti e quanti non lo erano. E le azioni belliche venivano rivolte contro i primi, anche se avevano spesso delle ricadute sui secondi. Ancora nella prima guerra mondiale il teatro degli scontri era un fronte su cui due eserciti si battevano, attestati nelle rispettive linee di trincee, anche se, dietro di loro, le popolazioni dovevano affrontare sacrifici enormi.
Nella seconda, l’avvento dell’aviazione come arma per bombardare il territorio nemico al di là della linea del fronte ha segnato il sempre maggiore coinvolgimento della popolazione civile, soprattutto nelle città. Più in generale, si è diffusa la tendenza a colpire deliberatamente persone inermi, per esercitare una pressione psicologica sui combattenti e indurli alla resa. Sono tristemente note le fucilazioni di ostaggi da parte delle truppe tedesche, nei territori occupati, per reagire alle azioni dei partigiani. Ma, se non si vuole scrivere la storia ad uso dei vincitori, bisogna ricordare anche il bombardamento a tappeto di Dresda da parte dell’aviazione alleata e, soprattutto, l’uso della bomba atomica da parte degli americani, per costringere l’esercito giapponese a deporre le armi.
Da parte statunitense si è sempre fatto notare che questa strage funse da deterrente per evitare la continuazione di una guerra che sarebbe stata senza dubbio ancora sanguinosa. È vero. Però questa è precisamente la logica del terrorismo, che pensa, con i suoi attacchi, di far leva sull’opinione pubblica di un Paese, spingendolo a cambiare la linea politica del suo governo.
E’ in continuità con questa logica che, nel corso della terza guerra mondiale attualmente in atto, si sono fabbricate e si continuano a fabbricare – soprattutto nelle industrie dei Paesi che a parole oggi condannano il terrorismo (USA, Russia, Nazioni europee) – una marea di armi distruttive, fornite a pagamento ai Paesi che non le sanno costruire e che, dopo averle comprate, le usano per guerre le cui le prime vittime sono popolazioni innocenti. E’ in continuità con questa logica che si sono fabbricate e si continuano a fabbricare le mine anti-uomo, costruite in modo da colpire non i soldati nemici, ma le popolazioni civili. Si tratta, infatti, di ordigni disseminati su tutto un territorio, in modo da uccidere o mutilare non chi sta al fronte, ma i contadini che lavorano i campi e i pacifici viandanti. Alcune di queste mine vengono addirittura costruite in forma di giocattolo per attirare i bambini, in modo che, prendendoli in mano, ne vengono accecati o mutilati. Non allo scopo, ovviamente, di incidere sul potenziale bellico del nemico, ma per terrorizzare la sua gente e affollarne gli ospedali, indebolendone il morale e le risorse economiche.
Oggi, però, ad occupare la scena è un altro terrorismo, quello che realizza nel modo più perfetto la formula della mondializzazione – Parigi, Dacca, Berlino, Bagdad, Istambul… – e a causa del quale ormai il fronte sono diventati i luoghi della nostra vita quotidiana. Qui non ci sono più eserciti a combattere. Il nemico può essere chiunque, non ha divisa, può agire da solo, a volte non ha nemmeno un’organizzazione dietro le spalle. E il suo bersaglio non sono i militari, ma la gente comune, quella che passeggia per strada o balla in un locale notturno. Fermare questi nemici alla frontiera alzando muri, come cercano vanamente di fare vari paesi europei, è inutile, perché l’esperienza insegna che i più pericolosi e aggressivi terroristi spesso sono gli immigrati di seconda generazione, nati e cresciuti nel Paese ospitante. E allora?
È appena il caso di dire che non ho ricette. Ma, da inviato al fronte della terza guerra mondiale, posso avanzare un’ipotesi temeraria, che nasce dagli scenari di cui sono spettatore. E se smettessimo noi per primi di fare terrorismo, bloccando tutti di comune accordo la produzione e il commercio di armi che servono, più che a vincere le guerre, ad alimentarle, massacrando i civili e spingendoli a fuggire verso i nostri Paesi? Se interrompessimo la guerra da parte nostra, prosciugando (materialmente), nei vari settori dove si combatte, le risorse militari e (spiritualmente), anche a casa nostra, le riserve di odio (in parte giustificato) nei confronti dell’Occidente?
Sento già il coro di proteste. Utopie! Noi della società capitalista non rinunzieremo mai ai nostri profitti! Già… A meno, forse, che la terza guerra mondiale in corso non ci costringa, prima o poi, a farlo, se non per umanità, almeno per cercare di salvarci la vita.
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