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I Chiaroscuri – Le vite delle donne valgono!

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La prima buona notizia che ci viene dallo sciopero generale indetto, per l’8 marzo,  dalle donne di cinquanta Paesi, è che le donne esistono. Non è una conferma da poco. La piega presa ultimamente da un certo femminismo, elaborato a tavolino, ce ne aveva fatto temere la scomparsa. Secondo questo femminismo, scrive una nota studiosa, Adriana Cavarero –  peraltro anche lei femminista (ma in disaccordo su questo punto) – , il modo più efficace di combattere la supremazia del maschio è di annullare la differenza tra maschile e femminile e di considerare sia l’essere uomo che l’essere donna solo «un’identità prodotta dal linguaggio».

Sono le forme estreme di quelle gender theories , di cui alcuni stranamente si ostinano a negare l’esistenza, ma che in realtà hanno autori (anzi, più spesso autrici) con precisi nomi e cognomi: Monique Wittig, Judith Butler, Donna Haraway… (per citarne solo alcune delle più famose). Come spiega la Butler in un suo famoso libro, per superare lo sfruttamento millenario a cui il mondo femminile è stato sottoposto, è necessario abolire  «la categoria delle “donne”», come del resto quella degli “uomini”. Sulla stessa linea la Haraway. In questo modo, commenta la Cavarero, «svanisce la differenza sessuale che fa di ciascun essere umano un uomo o una donna» (eterosessualità).

Il grido corale di protesta che l’8 marzo si è levato da milioni di voci femminili, ci ricorda che queste sono solo astrazioni, perché nella realtà le donne esistono, e le loro vite – vite al femminile – hanno un preciso, inconfondibile valore, che ancora la nostra società stenta molto a riconoscere. Non si tratta solo di quella violenza di genere che  si concretizza sempre più spesso nelle uccisioni o nelle gravissime lesioni a danno delle donne, da parte di uomini che vorrebbero, così, rivendicare la loro supremazia. Ancora – in varia misura, a seconda delle situazioni locali, ma con linee di tendenza analoghe – l’essere donna, con tutto ciò che questo comporta,  costituisce uno svantaggio, più o meno decisivo, nel lavoro, nella vita politica, nella comunità ecclesiale. Retribuzioni inferiori, ricatti sessuali, licenziamenti in occasione di maternità; scarsissima (come in Italia) o comunque non egualitaria presenza negli organismi  rappresentativi dei rispettivi Paesi; ruolo sistematicamente subalterno – al di là della questione del sacerdozio femminile – nella conduzione di diocesi e parrocchie: sono solo alcuni dei dati innegabili che   rendono più che fondata (al di là dello strumento contingente dello sciopero) la protesta.

La scorciatoia offerta dalle “teorie di genere”, per conquistare l’eguaglianza finora negata, sarebbe di rinunziare ad essere donne. Effettivamente, eliminando nella identità femminile ciò che la caratterizza, rispetto a quella maschile, molti ostacoli cadrebbero. Basta ridurre questa identità a una costruzione culturale: «Così ciò che passa per “istinto materno” potrebbe anche essere un desiderio costruito culturalmente, interpretato attraverso un vocabolario naturalistico», scrive la Butler. E se ci si mettesse d’accordo su questo, si potrebbero risolvere tutti i problemi lavorativi, posti alle donne dalla maternità, facendo nascere i bambini artificialmente, come ormai è possibile fare. Lo immaginava già, profeticamente, Aldous Huxley nel suo famoso romanzo Il mondo nuovo (scritto nel 1932!).

savagnone-3-small-articoloMa a far riflettere su una simile prospettiva dovrebbe già essere il fatto che Huxley intendeva dipingere una società dove l’essere umano era totalmente manipolato e disumanizzato. Non è questo che le donne stanno chiedendo, con la loro protesta! Essa nasce piuttosto dalla denunzia di un misconoscimento che le colpisce proprio in quanto donne: «Se le nostre vite non valgono, noi ci fermiamo».  Non è attraverso l’omologazione, l’annullamento delle differenze, la rinunzia ad essere se stesse, che il mondo femminile raggiungerà quell’uguaglianza troppe volte proclamata e  così spesso tradita. Sarebbe un prezzo inaccettabile per un esito, alla fine, deludente. Perché implicherebbe l’ammissione che, per  raggiungere i livelli di riconoscimento di cui fruiscono gli uomini, è necessario diventare come loro!

Sarebbe una perdita irreparabile, del resto, anche per gli uomini. Perché senza le donne, anch’essi smarrirebbero la loro identità. Certo, ciò comporterebbe la fine di un rapporto di potere che spesso ha caratterizzato l’eterosessualità. Ma davvero è stato solo questo, storicamente, il rapporto tra uomini e donne? Non ci sono stati anche tanto amore, tanta bellezza, tanta gioia, proprio nello scoprirsi diversi e proprio per questo attratti l’uno dall’altra e viceversa?

In un mio libro ho immaginato di doverlo spiegare a un marziano il quale, leggendo i libri delle teoriche del gender, si era convinto che la storia dei rapporti tra maschi e femmine, sul nostro pianeta, sia stata una lunga tragedia, segnata in modo esclusivo dalla cieca violenza dei primi e dalla  dolorosa schiavitù delle seconde.

Gli facevo leggere gli antichi canti d’amore, a cominciare da quel Cantico dei cantici un libro della Bibbia – che, sorprendentemente, non trova di meglio, per descrivere la dolcezza dell’unione tra Dio e l’uomo, che ricorrere al linguaggio della (etero)sessualità: «L’amato mio», dice lei,  «è per me un sacchetto di mirra,/ passa la notte tra i miei seni./L’amato mio è per me un grappolo di Cipro/ nelle vigne di Engàddi». E lui, incantato: «Quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella!/ Gli occhi tuoi sono colombe».

Gli mostravo i quadri – come Il bacio, di Klimt –  in cui ha trovato forma visibile l’incantesimo della comunione tra una femminilità e  una virilità che si esaltano a vicenda.

Gli raccontavo le storie  che, nella letteratura, hanno ispirato opere a cui l’umanità deve una parte importante della sua ricchezza, come quella dell’amore di Lancillotto per Ginevra o di Dante per Beatrice…  

Mi torna in mente la triste esperienza di «Egalia» – una scuola materna aperta, nel 2010, a Stoccolma – , nella quale, in nome dell’ “uguaglianza”, si è cercato di cancellare nei bambini e nelle bambine lo “stereotipo” della loro identità sessuale biologica; nella quale, perciò, le bambole erano senza sesso e gli insegnanti non usavano i pronomi “lui” e “lei”, ma il neutro. Nella lingua  svedese non esiste, l’hanno inventato apposta: “hen”, a metà strada tra “hon” (maschile) e “han” (femminile).

Perciò sono felice che le donne ci ricordino, con la loro energica protesta, che le loro vite – vite femminili – valgono. È una sfida a far posto alle differenze considerandole non un ostacolo, ma una ricchezza. Purché non resti un episodio, una parentesi. È il rischio di  tutti gli 8 marzo. Per neutralizzarlo, si impone una vera rivoluzione culturale, prima ancora che giuridica. Se non vogliamo che, prima o poi, prevalga la logica secondo cui, perché  la vita di una donna abbia riconosciuto il proprio valore, deve rinunziare ad essere quella di una donna.

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