V
i è mai capitato di partecipare a un incontro di qualunque tipo – per stare insieme in famiglia o in un gruppo di amici, oppure per vedere insieme un film in Dvd – stando seduti accanto a un giovane o a una giovane sotto i trent’anni? Se sì, sapete che, per tutto il tempo, la persona al vostro fianco ha tenuto in mano il proprio smartphone, assorta nella contemplazione del piccolo schermo come un tempo i monaci lo erano in quella del mistero di Dio. Ai familiari e agli amici presenti, oppure al film, nella migliore delle ipotesi è toccato uno sguardo distratto, nei brevi intervalli concessi da questa assorbente occupazione.
Qualche anno fa un noto studioso italiano, Umberto Galimberti, ha pubblicato un libro di successo intitolato L’ospite inquietante e dedicato all’incombere del nichilismo sulle nuove generazioni. Ma oggi «l’ospite inquietante», prima ancora che il nichilismo, è il cellulare. E la sua presenza invasiva non coinvolge solo i giovani. Anche moltissimi adulti, ormai, ne dipendono, magari dopo aver a lungo resistito al suo acquisto. Troppo comodo si è rivelato, dopo le diffidenze iniziali, il suo uso, che consente di mettersi in contatto con chiunque e di essere, reciprocamente, raggiungibili da chiunque in qualunque luogo e in qualunque momento. Senza contare la possibilità di individuare luoghi, itinerari, notizie di ogni genere, in ogni parte del mondo.
È proprio questa apertura illimitata che, però, crea dei problemi. Per capire in che senso, può essere utile un aneddoto che proviene dalla tradizione orientale. Un giorno il discepolo di un famoso guru chiese al suo maestro una definizione della saggezza. E il guru rispose: «Saggezza è essere seduti quando si è seduti, in piedi quando si è in piedi, in cammino quando si cammina». Il discepolo rimase interdetto: «Ma questo è quello che facciamo tutti!». Il guru sorrise: «No», disse. «La maggior parte di noi quando è seduto anticipa con la mente il momento in cui sarà in piedi; quando è in piedi pensa a quando camminerà; e quando cammina anticipa il momento in cui sarà arrivato».
Ciò che il racconto vuole additare come “saggezza” è, chiaramente, una visione della vita in cui la fretta psicologica che spesso domina gli esseri umani ceda il posto alla capacità di vivere il presente in tutta la semplice verità, senza evaderne per ciò che ancora non esiste, distogliendo la nostra attenzione dall’unico momento reale.
Nella struttura dell’essere umano questo rischio è connaturato per il fatto che, a differenza degli altri animali, siamo capaci di aprirci a una infinità di possibili stimoli. La pulce, il gatto, il cervo, hanno un ambiente circoscritto, fuori del quale non possono sopravvivere, ma che, in compenso, sono in grado di fronteggiare e di abitare senza imprevisti. La specie umana, invece, ha come ambiente il mondo. Perciò può adattarsi a ogni habitat. Il suo approccio alla realtà è indeterminato e si concretizza solo a livello culturale. È la cultura che, sostituendo la natura, le permette di adattarsi circoscrivendo e limitando la sua esperienza a precisi contesti spazio-temporali, così da poter far fronte senza troppa incertezza agli stimoli che gli provengono da uno di questi contesti.
La globalizzazione e gli strumenti di comunicazione che la veicolano, rompendo i confini tra le culture, rischiano di far saltare questi limiti e di consegnare gli esseri umani a una apertura infinita, che rende difficilissimo vivere in un preciso tempo e in preciso luogo senza essere risucchiati dall’infinito di possibilità a cui per struttura sarebbero aperti.
Lo smartphone è il messaggero di questo oceano di possibili messaggi, di possibili notizie, di possibili opportunità. L’“ospite inquietante”, in fondo, non è il Nulla, è il Tutto. Il problema è che esso viene a rendere relative e inadeguate tutte le esperienze concrete, inevitabilmente limitate. E allora si guarda assorti nello schermo in attesa di chiamate o di messaggi che in realtà forse non verranno mai, distraendosi dalle persone, dalle situazioni, dalle esperienze che effettivamente si hanno davanti.
Per i “nativi digitali” – cresciuti, per così dire, all’ombra del cellulare (a molti di loro è stato regalato quando erano ancora bambini) e che non hanno mai fatto l’esperienza di parlare con un’altra persona guardandola negli occhi, come se il suo volto fosse tutto ciò che esiste, senza essere costantemente “aperti” a infinite altre possibili relazioni – è difficile perfino capire il problema. Perciò sono più facilmente vittime di questa dislocazione che, stando all’aneddoto, è la radice della non-saggezza. Perciò per loro è più frequente che invece di vivere il momento presente in tutta l’intensità di cui sono assetati, cerchino questa pienezza in ciò che non c’è, in uno schermo vuoto dove potrebbe da un momento all’altro apparire la chiamata dell’Infinito.
Non ci si può illudere di tornare indietro. E non sarebbe nemmeno auspicabile. Il problema non è di chiudere la porta sul Tutto, ma di renderlo per il momento presente una ricchezza, invece che uno tsunami distruttivo. Può essere di aiuto l’analogia con il fenomeno della globalizzazione. Quando ci si accorse che esso allargava gli orizzonti, ma al tempo stesso rischiava di sradicare e omologare gli abitanti dei singoli luoghi, gli esperti individuarono, come via di sintesi il concetto di “glocalizzazione”, che non implica, per le persone, la rinunzia alla propria particolare collocazione spaziale e culturale, anzi la pone come condizione per ogni ulteriore apertura, ma consente, a partire da essa e in funzione di essa, di guardar anche oltre.
Forse è la pista da seguire anche per la comunicazione tra le persone. Questo, certamente, suppone la capacità di percepire i limiti come una condizione di arricchimento, invece che come pura e semplice rinunzia. Senza gli argini il fiume perde la sua forza e si trasforma in palude. Se non si è capaci di spegnere, ogni tanto, il cellulare, l’illusione di comunicare col mondo intero maschera l’incapacità di percepire il volto dell’altro che, in carne ed ossa, ci sta di fronte o il vasto paesaggio che si apre davanti ai nostri occhi. È un sacrificio, certo. Ma è un sacrificio a cui educare i nostri figli, spiegandone bene le ragioni, se vogliamo che imparino ad affrontare e a vivere la loro vita reale.
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