Quando si è saputo che, nel nuovo governo Gentiloni, il solo cambiamento riguardava il titolare Ministero dell’Istruzione, e che, al posto della Giannini – professoressa ordinaria di Glottologia e Linguistica, nonché rettore dell’Università per Stranieri di Perugia – , a governare il complesso mondo della scuola e dell’Università italiane sarebbe stata Valeria Fedeli, vicepresidente del Senato, tutti si sono chiesti quali titoli avesse la nuova arrivata per giustificare un simile, isolato, avvicendamento.
Che fosse sempre stata una sindacalista, estranea al mondo dell’insegnamento nelle scuole e della ricerca universitaria, lo ha riconosciuto subito lei stessa. Dal suo curriculum risultava, però, che un rapporto con questo mondo l’aveva avuto, perché era comunque laureata. Poi qualcuno scoprì che, in realtà, il nuovo ministro aveva solo frequentato un corso per assistenti sociali, conseguendo il diploma corrispondente. Scavando ancora, venne fuori che la Fedeli non aveva mai conseguito neppure la maturità, limitandosi a seguire un corso per maestra nelle scuole materne.
Da qui la tempesta di polemiche che ha seguito il suo insediamento e che è culminato nell’affissione a tappeto, sui muri di Roma di un manifesto, con una grande foto in primo piano del ministro dell’Istruzione e sotto la scritta: “Per fare il professore ci vogliono: laurea, abilitazione e concorso. Per fare il ministro dell’Istruzione: terza media, amicizie e molte bugie”.
Ampia solidarietà da parte della classe politica, che ha parlato di attacco personale e ha chiesto di giudicare il ministro per quello che farà, piuttosto che per i suoi titoli di studio. Dimenticando, però, di chiarire perché diavolo una persona così poco versata negli studi sia stata preferita, proprio in quel posto, alle centinaia di migliaia di altre che, almeno sulla carta, erano più adatte di lei.
Personalmente sono anch’io convinto che non sono i titoli specifici – che peraltro non sono richiesti – a fare di un ministro un buon politico, ma la sua visione d’insieme del bene comune. Tuttavia, forse il buon senso suggerirebbe di evitare che a dirigere un intero settore – e di così vitale importanza, come l’istruzione – sia una persona del tutto estranea ai problemi e alle esperienze di quel settore. Al Ministero dell’Economia e delle Finanze nessuno ha pensato di nominare un poeta, un filosofo o un cantautore… E, se il ministro Padoan, noto studioso e docente di economia, si fosse sostituito con Franco Battiato o con Massimo Cacciari, spiegando che bisogna giudicare un ministro dai fatti (ancora da venire) e non dai titoli, probabilmente l’opinione pubblica non si sarebbe sentita del tutto rassicurata. Ma si sa: in Italia, sulla pelle della scuola e dell’Università si può fare qualunque esperimento…
E magari c’entra con la storia personale del ministro Fedeli e con la sua scarsa familiarità nei confronti dello studio, la sua idea di rinnovare la scuola (perché è questo che sembra intenzionata a fare) introducendo, in funzione didattica, i videogiochi.
A qualcuno questa idea è piaciuta. È un modo, si è detto, per superare i tempi che vedevano gli studenti condurre una doppia vita tra i libri e le lezioni della mattina e i videogiochi del pomeriggio. Perché mai la scuola dovrebbe essere noiosa? Perché non riscoprire l’antico rapporto tra gioco e istruzione, che fa del giocare una via fondamentale dell’apprendere?
A qualcun altro, all’opposto, questa esultanza ha ricordato il Paese dei balocchi, dove Pinocchio e Lucignolo scoprono la gioia di una vita dove l’impegno dell’apprendere è sistematicamente sostituito dal divertimento, salvo però a trasformarsi, tra un gioco e l’altro, in due asini.
Più moderatamente, qualcun altro ancora si è chiesto se davvero il problema della nostra scuola sia un eccesso di studio o non, piuttosto, un modo sbagliato di proporlo e di intenderlo, che lo rende, invece che un’apertura affascinante alla ricchezza della realtà, un mero esercizio di apprendimento nozionistico.
Ma il ministro Fedeli non sembra avere questo dubbio, tanto che si è pronunciata criticamente, durante un’intervista televisiva, anche verso i compiti a casa – in cui lo studio personale ha un posto preponderante – sottolineando che un buon lavoro fatto a scuola è decisamente preferibile. «Penso», ha detto «che si debba lavorare molto di più nelle ore scolastiche. Più si fanno cose a scuola meglio è per le ragazze e i ragazzi, ma credo, anche, per i genitori». Il cerchio si chiude. Meno studio a casa, in vista del maggior lavoro a scuola che, a sua volta, prevede meno studio e più videogiochi.
Non ho niente contro i videogiochi. Possono effettivamente contribuire allo sviluppo intellettuale di un ragazzo. Il punto è che non sono sostituibili allo studio in senso proprio. Chi ha un minimo di esperienza educativa sa che niente può incidere sulla formazione di una personalità, dal punto di vista intellettuale, quanto l’impegno costante e rigoroso nella ricerca, di cui lo studio è sempre stato e rimane un elemento fondamentale. Perché, mentre il gioco si svolge, per sua natura, sul terreno del virtuale, lo studio mira a conoscere come stanno le cose nella realtà.
Questa differenza acquista un singolare significato, per decidere quale debba essere il futuro della nostra scuola, alla luce del tema, attualissimo, della “post-verità”. Con questo termine si intende ogni messaggio che si imponga nel dibattito pubblico non per la sua fondatezza, ma semplicemente per la forza suggestiva che lo rende convincente, anche se non è veritiero. La civiltà della non-verità è quella dei grandi mezzi di comunicazione, dei social, della realtà virtuale. È quella in cui bufale, leggende metropolitane, scoop giornalistici incontrollati, giocano un ruolo decisivo nell’orientare l’opinione della gente e le scelte della politica, rendendo secondario il fatto che manchi loro ogni riscontro nella realtà.
Non si tratta di una pura e semplice teoria filosofica. Il tema della post-verità è stato imposto alla nostra attenzione da recenti eventi epocali – in particolare la Brexit inglese e l’elezione del presidente degli Stati Uniti Trump – , che hanno messo in evidenza la fragilità delle argomentazioni basta sui fatti, delle argomentazioni razionali, anzi, più in generale, dei discorsi, di fronte al dilagante potere delle bugie gridate ad alta voce, degli slogan menzogneri, delle frasi ad effetto. La nostra civiltà vede sempre più prevalere le immagini arbitrarie, proiettate da stati d’animo incontrollati di rabbia e di risentimento, sull’accertamento della verità, secondo una onesta ricerca e una seria analisi critica, quali si realizzano precisamente attraverso lo studio dei problemi.
A quale delle due impostazioni deve corrispondere la scuola italiana? Che debba cambiare è sicuro. Ma deve farlo potenziando e rendendo più ricco e interessante lo studio, oppure riducendolo sempre di più e sostituendolo con forme virtuali e ludiche? È in gioco il futuro non solo della scuola, ma della nostra società. Per questo, ci dispiace che il ministro Fedeli non abbia avuto nella sua vita l’occasione di sperimentare la prima alternativa. Ma, al di là del caso personale, ci preoccupa ancora di più che la nostra scuola possa diventare quella del post-studio e della post-verità.
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