L’oscillazione tra apertura e paura
Il riaccendersi di nuovi focolai di contagio in Cina, in Corea e in altre nazioni dove il coronavirus sembrava ormai sotto controllo, contribuisce ad alimentare l’incertezza che stiamo vivendo nel nostro paese, dove le esigenze della ripresa spingono ormai con sempre maggiore forza alla riapertura in tutti i settori, senza però poter azzerare i margini di paura. Si oscilla tra un atteggiamento, ampiamente maggioritario, di impaziente reazione contro ogni residuo limite, dopo i mesi di confinamento e di forzata inattività, e un richiamo preoccupato alla prudenza, da parte di una minoranza che evoca il rischio di una “seconda ondata”.
L’Oms contro i tifosi napoletani
Emblematica, da questo punto di vista, la reazione del direttore aggiunto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Ranieri Guerra, che ha definito «sciagurati» i tifosi del Napoli, che hanno salutato con un vero e proprio bagno di folla la vittoria in Coppa Italia della loro squadra, e ha ricordato il ruolo giocato nella diffusione dei contagi dalla partita dell’Atalanta all’inizio dell’epidemia in Lombardia.
Stop alla paura?
Il fatto è che gli stessi scienziati non sembrano d’accordo tra loro e, nella nuova veste di “opinion leader” assegnata loro dall’emergenza sanitaria, sembrano fare a gara nello smentirsi a vicenda, con dichiarazioni che alternano inviti alla fiducia e richiami alla cautela.
L’ultima, nella prima direzione, è quella di Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche «Mario Negri» di Bergamo, in un’intervista pubblicata sulla prima pagina del «Corriere della Sera» del 19 giugno. In essa, commentando l’alto numero di persone che ancora risultano “positive” al tampone anti-Covid in Lombardia – più di duecento al giorno – lo scienziato ha sostenuto che si tratta in realtà di «casi di positività con una carica virale molto bassa, non contagiosa». E, non spiegandolo alla gente, «si contribuisce, magari in modo involontario, a diffondere paura ingiustificata».
Una dichiarazione ancora più decisamente ottimista era stata, alla fine di maggio, su Rai Tre, quella del professor Alberto Zangrillo, primario del San Raffaele, secondo cui, addirittura, «il coronavirus clinicamente non esiste più».
Il monito del direttore dello «Spallanzani»
Non possono non tornare alla mente, però, le dichiarazioni rilasciate, ancora al «Corriere» appena due settimane prima, il 2 giugno, dal direttore scientifico dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive «Lazzaro Spallanzani», di Roma – il top in questo settore –, che invitava con forza anon illudersi: «Il virus non è scomparso». E aggiungeva: «Il virus dal dicembre 2019 ad oggi ha subito pochissime e poco significative mutazioni». Il rallentamento della pandemia si deve solo al fatto «le misure di contenimento hanno avuto il loro effetto (…). Ora i medici inquadrano prima e meglio i casi, l’affinamento delle strategie di sorveglianza consente di individuare sempre più precocemente i positivi». E ammoniva, senza nominarli, i suoi colleghi “ottimisti”: «Una comunicazione errata comporta un abbassamento dei livelli di guardia e di attenzione nella popolazione, non rendendo giustizia ai morti, ai malati, agli operatori sanitari e agli italiani che hanno rispettato con impegno le regole».
Alle origini: una previsione “minimalista”…
In realtà questi dissensi fra scienziati hanno accompagnato lo sviluppo della pandemia fin dalle sue prime fasi. Anche allora si erano confrontati scienziati che davano di ciò che stava accadendo interpretazioni molto diverse, se non addirittura opposte.
È il caso di Maria Rita Gismondo, virologa responsabile del laboratorio dell’ospedale Sacco di Milano, che alla fine di febbraio si pronunziava con decisone contro le prime voci allarmistiche relative al coronavirus: «A me sembra una follia. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Non è così. Guardate i numeri (…). Non è pandemia! Durante la scorsa settimana la mortalità per influenza è stata di 217 decessi al giorno! Per coronavirus 1!».
… E una “massimalista” forse più vicina alla realtà
In risposta, il virologo del San Raffaele Roberto Burioni, che in precedenza era stato l’uomo di punta del partito degli “allarmisti” e aveva paragonato la pericolosità del Covid 19 a quella dell’influenza spagnola – che all’indomani della prima guerra mondiale fece decine di milioni di morti –, definì sprezzantemente la Gismondo «la signora del Sacco».
Devo dire che, quando queste dichiarazioni furono rilasciate, a colpirmi molto negativamente furono l’arroganza di Burioni e la sua gratuita scortesia. Non a caso il personaggio in seguito è stato da più parti bersagliato e accusato di protagonismo. Se dovessi giudicare adesso, però, dopo più di tre mesi di pandemia, chi si avvicinava di più alla verità, sarei costretto a riconoscere che, pur esagerando, le previsioni dell’antipatico Burioni corrispondevano più da vicino a quello che è effettivamente accaduto in Italia e in tutto il mondo.
Un’occasione per gli scettici
Che pensare di tutto questo? Alcuni ne hanno tratto l’occasione per ribadire il loro disprezzo per la scienza e la categoria degli scienziati nel suo insieme. Con la variante di chi si è limitato ad accusare quelli del comitato tecnico-scientifico creato dal premier Conte di essere al servizio del potere in cambio di “poltrone” e di denaro. Fino al punto che ci sono stati dei “complottisti” che hanno sostenuto essere la pandemia un’invenzione montata ad arte per linitare i diritti democratici e creare un clima di paura.
Sono gli stessi critici che, ispirandosi alla logica del sospetto tipica del populismo, avevano già prima del coronavirus rimesso in discussione i vaccini (i cosiddetti «no-vax»), negandone gli effetti positivi e denunciandone, anzi, la pericolosità per la salute.
Come tutte le denunzie basate sul sospetto, anche questa relativa ai vaccini ha avuto, in un recente passato, ampio consenso, per un certo periodo, da parte di un’opinione pubblica dimentica che terribili malattie un tempo endemiche, come il vaiolo, la poliomelite e tante altre, siano state sconfitte e siano scomparse praticamente dal nostro paese, grazie alla vaccinazione di massa contro di esse.
E comunque un disorientamento
Questa volta, in realtà, sono stati pochi a seguire i “negazionisti” e a dubitare in blocco della scienza. Come probabilmente saranno pochi a rifiutare il vaccino, quando finalmente sarà disponibile.
Resta il fatto che il dissenso tra gli scienziati ha disorientato e continua a disorientare molti. Ma forse, invece di un radicale scetticismo, degno dei «terrapiattisti » (ci sono anche questi, fra i nemici della scienza), questo dissenso può indurre un salutare senso critico nei confronti di un tipo di sapere che in passato spesso era stato considerato assoluto e infallibile. «È scientificamente dimostrato», si sentiva spesso dichiarare, in una discussione, come argomento decisivo a favore di una tesi.
Contro il relativismo, un sano senso della relatività
Il coronavirus è stata un’occasione per renderci conto che “la scienza” è un’astrazione: esistono gli scienziati, con le loro preziose competenze, che li rendono capaci di leggere molto più in profondità di tutti gli altri i dati offerti dall’esperienza, ma che sono pur sempre esposti, in questa lettura, a mille condizionamenti caratteriali, culturali, sociali. Anche il sapere scientifico scaturisce da una interpretazione inevitabilmente soggettiva, né potrebbe essere altrimenti, visto che a elaborarlo sono dei soggetti, “situati” in un punto nella realtà e capaci di guardarla solo a partire da questa loro collocazione.
Soggettività e oggettività coincidono grazie al dialogo
Ma questo non vuol dire che ciò che vedono non esista e che le loro affermazioni siano false. La soggettività non esclude l’oggettività, anzi senza soggetti che guardano le cose da un preciso punto di vista – il loro –, nessun sapere oggettivo sarebbe possibile. È dal conflitto dei punti di vista e dal loro confronto che emerge la verità. Lo diceva il prof. Ippolito in un’altra sua dichiarazione: «Non è il momento di polemizzare, in ogni cosa detta c’è un pezzetto di verità ma le informazioni vanno lette nel loro complesso».
Per sconfiggere il coronavirus dobbiamo imparare ancora tante cose. Una di queste è che, per capire come stanno le cose, bisogna dialogare.
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