La fuga dei senatori
Il passaggio alla Lega di tre senatori dei 5stelle – Grassi, Lucidi e Urraro – non costituisce certo una sorpresa. Già da tempo i sondaggi avevano segnalato la progressiva dissoluzione del patrimonio di voti capitalizzato dal movimento nelle elezioni del 4 marzo 2018; ora lo sfaldamento si manifesta anche a livello parlamentare e sembra destinato ad accentuarsi, se è vera l’affermazione di uno dei fuorusciti secondo cui stanno per abbandonare il gruppo parlamentare pentastellato da 20 a 30 persone.
Il rompicapo del Mes
L’occasione della rottura “ufficiale” è stata l’approvazione da parte del movimento 5stelle, in Parlamento, della risoluzione che dà il via libera – sia pure in una logica di gradualità e sottoponendolo a continui controlli – al cosiddetto “Mes” (Meccanismo europeo di stabilità), comunemente denominato “Fondo Salva-stati”, contestatissimo dalle opposizioni di destra e nei cui confronti anche i grillini in passato erano stati molto critici e sono stati fino all’ultimo, anche adesso, molto recalcitranti.
Non è il caso, qui, di entrare nel merito della controversia. Alzi la mano chi ha veramente capito fino in fondo i vantaggi e i rischi di questa innovazione, a cui l’Unione Europea ha chiesto ai propri membri di aderire.
Per quanto mi riguarda posso solo prendere atto che solo un competente di economia sarebbe in grado di dare una valutazione sensata e che quelli che lo sono forniscono, però, pareri non solo divergenti, ma addirittura opposti. A questo punto mi sembra estremamente improbabile che dietro lo scambio di insulti e di accuse tra i partiti di governo e quelli di opposizione ci sia una reale percezione dei vantaggi da un lato, dei pericoli dall’altro, di questa misura.
E, a maggior ragione, che i senatori in uscita dal movimento 5stelle abbiano prima votato contro di essa, rompendo col loro gruppo parlamentare, e poi siano addirittura usciti dal partito, perché chiaramente consapevoli degli aspetti tecnici della questione.
Una evidente incoerenza
A essere decisivo è stato, verosimilmente, il problema politico, e cioè il fatto che, a torto o ragione, i pentastellati avevano sempre avversato, quando erano all’opposizione, tutto ciò che si collegava all’Europa unita (fio al punto di prospettare, come priorità, un referendum per uscire dall’area della moneta unica, l’euro), e ora invece, stando al governo, sembrano assai meno decisi nell’ostacolare la linea europeista del Pd (a cui è funzionale l’approvazione del Mes).
Di fronte a questa evidente contraddizione, ha buon gioco Matteo Salvini quando dichiara: «Le porte della Lega sono aperte a tutti gli eletti e gli elettori a 5 Stelle che mantengono coerenza, onore e dignità».
E la reazione di Di Maio, che parla un «listino prezzi dei senatori del mercato delle vacche aperto da Salvini» e chiede «quanto costa al chilo un senatore per la Lega» non può bastare per mascherare i due drammatici problemi che il movimento 5stelle si trova ad affrontare.
Il dilemma dei 5stelle
Il primo, di breve durata, è il dilemma che lo costringe a scegliere se restare al governo, accettando i condizionamenti che questa permanenza comporta e che costituiscono una smentita di molte promesse fatte ai propri elettori, oppure affrontare le elezioni, col rischio concreto di uscirne drasticamente ridimensionato in termini di voti e di rappresentanza parlamentare.
Con l’incubo di rendere sempre più incombente, con la scelta della prima alternativa, il suddetto rischio e, conseguentemente, di essere sempre meno in grado di uscire dal governo. Un circolo vizioso mortale, di cui l’abbandono da parte dei tre senatori è un evidente segnale.
Il più grave problema
Ma c’è per il movimento 5stelle un secondo problema, ben più grave, che le furibonde esternazioni di Di Maio non possono esorcizzare, ed è l’evidente fallimento, dopo quasi due anni di prova e la partecipazione a due diversi governi, del sogni del populismo.
Con la vittoria strepitosa del 4 marzo 2018 i 5stelle avevano raggiunto un posizione di assoluta e indiscutibile egemonia nei confronti degli altri partiti, sia di destra che di sinistra.
E i toni trionfalistici con cui avevano avviato la loro esperienza di governo, annunciando che «per la prima volta nella storia» (parole di Di Maio) la politica avrebbe lavorato nell’interesse dei cittadini, rispecchiavano questa orgogliosa sicurezza.
Una nuova casta…
Oggi di una tale pretesa non rimangono che le macerie. I fatti hanno dimostrato che la battaglia per abolire la casta – le poltrone – dà luogo soltanto a una nuova casta, ancora meno capace di ricambio della precedente. Nessun leader politico del passato “attaccato alla poltrona” avrebbe potuto restaci seduto un minuto di più, se avesse collezionato anche solo la metà dei disastri fatti da Di Maio, il capo politico più inamovibile della storia della Repubblica.
…Di incompetenti
Né meno evidente è stata l’incapacità del movimento di contrastare, con i suoi esponenti provenienti dal “popolo”, i professionisti della politica, primo fra tutti l’ex alleato Salvini, che, partendo da una posizione di nettissimo svantaggio – il 17% dei voti contro il 32% – in pochi mesi di governo condiviso ha ribaltato il rapporto.
La debolezza programmatica
Non si è trattato, peraltro, solo di limiti personali. La linea dei pentastellati è apparsa anche programmaticamente debole, soprattutto nel governo Conte 1, lasciandosi risucchiare, malgrado tentennamenti e resistenze, dall’ossessiva campagna del leder leghista contro gli immigrati e cedendo su punti in passato ritenuti decisivi, come quello dell’accettazione del condono fiscale e quello della negazione dell’autorizzazione a procedere, da parte della magistratura, nei confronti dell’alleato di governo.
Per non parlare del cedimento sulla Tap e di quello, ancora più grave (anche se mascherato da opposizione) sulla Tav.
Quanto al Conte 2, anche qui le giravolte e le finte rotture nei confronti degli alleati di governo sono sembrate soprattutto un modo per tenere a bada ai malumori interni, cedendo poi nella sostanza alla logica imposta dai fatti.
Col duplice risultato di indebolire seriamente il governo su cui i 5stelle avevano puntato per evitare un probabile trionfo elettorale di Salvini, e di manifestare l’inconsistenza del proprio antieuropeismo.
Il populismo non funziona
Insomma, l’esperienza di governo dei 5stelle è stata la prova che il populismo, come proposta politica radicalmente innovativa, non funziona. Invece ha dato ottimi risultati quando è stato utilizzato strumentalmente, come ha fatto Salvini.
In questo caso, però, non si trattava di una alternativa al vecchio sistema, ma di una sua conferma trasformistica. La Lega era stata a lungo al governo durante la vecchia Seconda Repubblica, contro cui il popolo italiano è insorto nelle elezioni dei 4 marzo ed era responsabile di molte delle cose – per esempio il trattato di Dublino, che costringeva l’Italia ad accogliere gli immigrati – contro cui poi ha protestato con indignazione.
Non a caso Salvini non ha mai rotto la sua alleanza con la figura più emblematica del vecchio regime, Silvio Berlusconi.
Il populismo strumentale della Lega
Alla Lega, a differenza che ai 5stelle, il populismo è servito solo come immagine.
Il suo personale è costituito da esponenti di partito, abili nel mascherarsi da “uomini della strada” e a intercettare e solleticare gli umori della gente a scopi elettoralistici. A fronte del populismo “vero” dei 5stelle, che avrebbe realmente aspirato a cambiare la società anche se ha dimostrato di non averne i mezzi, quello salviniano è sostanzialmente conservatore, pur non esitando a ricorrere al mito dell’ “uomo forte” e dei “pieni poteri”.
Ma la storia insegna che si può conservare anche facendo apparenti rivoluzioni.
Non chiamiamolo fascismo
È difficile fare previsioni su ciò che accadrà nel prossimo futuro.
Il governo potrebbe durare ancora a lungo, perché più aumentano le difficoltà dei 5stelle, più cresce la loro esigenza di tenerlo in piedi per evitare il ritorno alle urne. Ma lo sfaldamento potrebbe assumere proporzioni così massicce da erodere la maggioranza, almeno al senato.
In ogni caso, prima o poi è probabile che le elezioni ci siano e che Salvini vada al governo, perché, come ha detto l’indagine del Censis, il 48% degli italiani desidera un «uomo forte» al potere.
Non chiamiamolo fascismo, per carità!
Qualunque altro nome si dia a questo futuro, più o meno prossimo, sarebbe bene che il rimanente 52% delle persone, finora divise, distratte o indifferenti, cerchino di svegliarsi e, finalmente avvertite dell’illusorietà del miti del “vero” populismo, cerchino di creare un’alternativa alla trionfale avanzata di quello “falso”, che nessuno deve azzardarsi a chiamare fascismo.
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