Euforia motivata per il Recovery found
È comprensibile l’ondata di euforia che si è diffusa nel nostro Paese, alla notizia dei 208 miliardi in arrivo col Recovery found, il “fondo di recupero” varato dall’UE per aiutare i suoi membri in difficoltà a causa del coronavirus. Non c’è dubbio, infatti, che la decisione del Consiglio europeo è stata di fondamentale importanza sia per l’Europa che per l’Italia.
Il riscatto dell’Europa e un sospiro di sollevo per l’Italia
All’una ha dato una credibilità che da tempo sembrava al lumicino, facendo prevalere finalmente la logica del bene comune dell’Unione sugli interessi dei singoli Stati. Al di là dell’aspetto strettamente economico, era in gioco il significato simbolico di una prospettiva unitaria che non sarebbe sopravvissuta, probabilmente, a un fallimento. La rabbia dei sovranisti stranieri nei confronti dei loro governi, per i sacrifici richiesti ai rispettivi Paesi, e l’imbarazzo di quelli italiani, per gli innegabili vantaggi accordati al nostro, sono la migliore riprova che una volta tanto l’Europa ha dimostrato di essere qualcosa di più che una società per azioni e di poter superare gli egoismo nazionali.
Per l’Italia è stato un sospiro di sollievo, di fronte alle fosche prospettive di crisi economica e di caos sociale che la minacciavano. Ora le risorse per fronteggiare gli effetti del coronavirus ci sono, o meglio, ci saranno – ma in economia basta l’odore dei soldi a ristabilire la fiducia.
Il problema delle scelte
Anche se restano ancora poco chiari due punti essenziali, e cioè da chi e come saranno gestite. Perché – come insistono a sottolineare gli osservatori più attenti e avveduti – questa improvvisa disponibilità di mezzi pone forse più problemi di quanti non ne risolva. Quando non si ha nulla c’è poco da scegliere. È quando sopraggiunge un’improvvisa prosperità, capace di aprire alternative diverse, che le decisioni diventano delicate e decisive.
L’Europa ha avuto fiducia in noi. Non possiamo permetterci di deludere le sue ragionevoli aspettative scialacquando il denaro che ci verrà dato per rispondere a esigenze parziali e secondarie, invece che per affrontare finalmente i grandi problemi che da sempre affliggono la nostra economia e (già da prima del coronavirus) la fanno avanzare col rallentatore.
Un esempio negativo del passato
Il pericolo è reale. Ritorna alla mente l’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno, con cui lo Stato, da 1950 al 1982, cercò con ingenti investimenti di colmare il divario tra Nord e Sud, senza riuscire in realtà a rimuovere i problemi di fondo del Meridione. Pur con qualche risultato significativo, i soldi, in gran parte, andarono dispersi in mille rivoli, oppure furono inghiottiti dalla corruzione e dalla mafia.
Per evitare che qualcosa di simile possa accadere a livello nazionale (non si dimentichi che corruzione e mafia oggi sono ben presenti anche al Nord), bisogna gestire i miliardi del Recovery found con estremo rigore e avendo chiari gli obiettivi. Per evitare un “assalto alla diligenza” che alla fine farebbe arricchire i privati, specialmente i meno onesti, senza risolvere i problemi della comunità.
Pensare alle riforme strutturali
Eccessivo debito pubblico, inefficiente sistema fiscale, paralizzante elefantiasi burocratica, sono solo alcuni esempi dei problemi da affrontare. Ma è tutto un insieme di riforme strutturali che da troppo tempo vengono rimandate con l’alibi di una permanente emergenza finanziaria. Ora l’emergenza è temporaneamente finita. Ce la farà la nostra classe politica ad approfittare di questo momento favorevole per gettare le basi di un futuro radicalmente diverso?
Un interrogativo inquietante che riguarda tutti
Dietro questa domanda ce n’è però un’altra che purtroppo di solito rimane taciuta e che riguarda non solo i partiti, di governo e di opposizione, chiamati a gestire responsabilmente questo momento, ma tutti noi, gli italiani. Una domanda che emerge prepotentemente dallo squallido episodio di corruzione e di criminalità della caserma dei carabinieri di Piacenza e pone in questione l’esistenza o meno dei valori necessari ad una convivenza civile degno di questo nome.
Di fronte alla gravità di quello che dal 2017 si è consumato nella caserma “Levante” – non per colpa di un singolo, ma con la complicità di ben dieci “tutori dell’ordine”, non si può più accettare il teorema della “mele marce”, invocato recentemente per casi analoghi. La verità è che siamo davanti a una crisi profonda che serpeggia nelle stesse realtà istituzionali. E a chi trovasse esagerato questo giudizio, ricordiamo ciò che è stato scoperto a proposito del funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, un altro baluardo, ancora più prestigioso, del nostro sistema.
La crisi etica
Il problema non è solo di carattere funzionale: è di natura etica. Non si tratta solo di dare maggiore trasparenza e rigore alle strutture, ma di restituire loro un’anima che non hanno più perché non c’è più nelle persone. L’Italia vive da tempo una fase di transizione che ha fatto venir meno troppo bruscamente antichi valori tradizionali, senza portarne alla luce di nuovi in grado di fondare una comunità civile. Mentre si è ampiamente affermata la coscienza dei diritti, con la connessa rivendicazione delle corrispondenti libertà individuali, non ha avuto eguale sviluppo il senso della responsabilità verso gli altri, condizione per ogni forma di comunità.
I diritti che hanno dissolto le comunità
Sono così entrate in una crisi sempre più profonda ed evidente le tradizionali strutture comunitarie, prima fra tutte la più basilare, la famiglia. Ma anche il senso dell’appartenenza alla comunità politica – un tempo unilateralmente enfatizzato con il culto della “Patria” – è del tutto evaporato, lasciando il posto allo slogan “Prima gli italiani” che prescinde da ogni valore ideale e si fonda, piuttosto, sulla difesa spasmodica della propria sicurezza e dei propri interessi.
Non che i diritti non siano necessari. Il problema è di come sono stati concepiti. Se essi vengono pensati fin dall’origine in termini individualistici, invece che alla luce delle relazioni comunitarie entro cui dovrebbero integrarsi, diventano un’alternativa alle comunità, ne mettono i membri in conflitto, ne dissolvono i legami. È questo, purtroppo, che è accaduto.
La missione della Chiesa
Di questo vuoto etico anche la Chiesa ha vissuto il contraccolpo sul piano spirituale che le è proprio, senza riuscire ad elaborare alcuna vera strategia pastorale per riproporre in modo convincente un’appartenenza ecclesiale coinvolgente, soprattutto per i giovani. La recentissima lettera della presidenza della Cei ai vescovi, per invitarli a pensare in modo creativo la ripresa autunnale della vita ecclesiale, dopo il coronavirus, è apparsa così ad alcuni più un segno di seria preoccupazione che non di propositività e di speranza, di fronte a una crisi che la pandemia non ha certo creato, ma probabilmente solo evidenziato.
È urgente trovare non solo un linguaggio, ma uno slancio nuovo, che sottragga la proposta cristiana alla perversa alternativa fra un tradizionalismo ritualistico e un attivismo di tipo sociale, entrambi inadeguati ad esprimere la grande carica spirituale e rivoluzionaria del Vangelo. Solo riuscendo di nuovo a interpellare la domanda di senso, oggi più drammatica che mai – soprattutto per i giovani – la Chiesa potrà contribuire al radicale rinnovamento etico e culturale di cui ha un disperato bisogno la nostra società.
Non c’è sviluppo senza vita etica e spirituale
È in questo quadro inquietante che si colloca il problema della ripresa. Se quanto detto fin qui ha un senso, essa non può essere ridotta ai suoi termini puramente economici, ma implica un risveglio etico e spirituale grazie a cui l’intero popolo italiano dovrebbe sperimentare un salto di qualità e diventare protagonista di una storia nuova. Probabilmente, senza di esso, anche i miliardi rischiano di essere sprecati. Ma se anche con quei soldi riuscissimo a far crescere il Pil, non sarebbe lo sviluppo di cui abbiamo veramente bisogno.
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