Michele si è ucciso alla vigilia del Festival di Sanremo, mentre l’Italia intera fremeva di emozione per gli imminenti scenari che il circo mediatico avrebbe, ancora una volta, offerto alla platea (quest’anno, gli spettatori sono stati ben 11 milioni!). E forse, nel trambusto di questa appassionante vigilia, nessuno si sarebbe accorto del tragico gesto di questo ragazzo friulano trentenne, se i genitori non avessero voluto far pubblicare su un quotidiano locale la lettera di commiato che ha lasciato. Perché questo messaggio è molto di più che un dolente congedo, come lo sono molti in simili tristi circostanze: è un lucidissimo atto d’accusa nei confronti della nostra società, ma, più alla radice, della vita stessa, davanti a cui i rituali della kermesse canora nazionale ci hanno ricordato l’orchestrina che, sul «Titanic», continuava disperatamente a suonare, mentre la nave affondava.
«Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi». Così, con un riconoscimento della propria fragilità, comincia la lettera. E continua, subito dopo, con l’ammissione di aver «commessi molti errori».
Però, è solo il punto di partenza per una durissima contestazione che Michele, prima di togliersi la vita, ha voluto rivolgere a una società che – egli scrive amaramente – «non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia».
«Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità».
È stato detto da qualcuno che questo non è il grido di un disperato, ma l’analisi spietata della situazione di un Paese dove l’indice di disoccupazione giovanile è arrivato al 40,1% (quasi un giovane su due!), dove sono tantissimi i trentenni che, completati gli studi da tempo, si trovano davanti allo spettro di uscire dal mercato del lavoro senza mai esserci entrati. Eternamente in panchina perché troppo giovani per competere con gli “adulti” (ma anche loro ormai, anagraficamente, lo sono!), troppo vecchi per non rischiare di essere scavalcati dalle nuove generazioni che incalzano. Stanchi, davvero troppo stanchi, di mandare il loro curriculum, di fare colloqui, di sentirsi dire: «Si faccia sentire fra qualche tempo». «Non è un paese per vecchi», suonava il titolo di un recente film. Il nostro non è un paese per giovani. E questo dovrebbe farci riflettere tutti: governanti, classe politica, ambienti economici, semplici cittadini.
«Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato» protesta Michele nella sua lettera, «e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive. Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione». E ancora: «Il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino».
Qui però affiora un’altra sfida, che non riguarda la società, ma la realtà della vita. «Volevo il massimo». Qualcuno ha giustamente notato che la lettera è una denuncia non solo di quello che la società non dà ai giovani, ma di come li ha educati. Il consumismo imperante li ha abituati fin da piccoli a credere che si può avere tutto. Nelle famiglie i “no” sono stati banditi; nella cultura corrente i desideri sono stati scambiati per bisogni reali e i bisogni sono diventati pretese, così come, a loro volta, le pretese sono state trasformate automaticamente in diritti. Con reazioni di rabbia inaudita quando questi pretesi “diritti” non vengono riconosciuti. All’università di Bologna la Biblioteca della Facoltà di Lettere in questi giorni è stata devastata da un collettivo studentesco per protesta. Senza entrare nel merito della vicenda, questo stile è rivelativo di una deriva distruttiva che nasce dal divario tra desideri e realtà. “O tutto o nulla”.
È questa deriva che ha travolto Michele, figlio di una cultura che non ha più dei padri in grado di segnare il limite ai figli – è la diagnosi di un noto psicanalista, Massimo Recalcati – , e che perciò li lancia allo sbaraglio nell’avventura della vita da eterni adolescenti, senza averli preparati ad affrontarla da adulti.
«Da questa realtà non si può pretendere niente», ha scritto Michele. «Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile». No, non si può pretendere di essere gratificati, lo si può sperare, se ci si mette nell’atteggiamento di chi crea, con fatica, con rischio, con perseveranza, le condizioni per esserlo. E la meta non può consistere nella propria personale autorealizzazione, bensì nel fare qualcosa di buono e di utile per gli altri, di cui la realizzazione di sé è la conseguenza. Altrimenti si insegue il miraggio di un effetto, senza essere disposti a pagare il prezzo per determinarlo.
Michele non ha colpa per non averlo capito, perché oggi nessuno lo spiega, anzi le mode culturali veicolano un messaggio opposto. Così, il narcisismo – che per Freud era una precisa malattia – è diventato il normale atteggiamento di tanti ragazzi che sanno guardare solo a se stessi e alle proprie esigenze, ma assai meno a quelle degli altri; che pretendono tutto, ma non si occupano di politica, per cercare di costruire una società più giusta; che anelano ad essere amati (c’è, nella lettera, un chiaro riferimento a questo), ma non si vogliono assumere responsabilità sul piano affettivo (“stiamo insieme finché stiamo bene insieme”); che aspirano ad essere riconosciuti, ma a volte rinunziano anche a studiare e a cercare un lavoro (i cosiddetti NEET). Questo il quadro. Resta il dramma di un giovane di trent’anni che forse ha sbagliato nel volere tutto, ma a cui noi non abbiamo saputo dare niente.
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