di Giuseppe Savagnone
Le recenti gesta dell’Isis – stragi di innocenti, bambini massacrati o usati come bombe, ostaggi decapitati a sangue freddo, intere popolazioni cacciate dalle loro residenze, devastazione di siti archeologici patrimonio dell’umanità – possono essere occasione, oltre che di una spontanea indignazione (oggi molto diffusa in Occidente), anche di una riflessione (che lo è assai meno). Una riflessione che, invece di limitarsi a denunziare il modo di vedere degli altri, ci porti a interrogarci sul nostro.
Le società occidentali vivono un processo di trasformazione radicale, che ha rimesso in discussione non solo gli stili tradizionali di comportamento, ma i criteri stessi in base a cui valutarli. Naturalmente c’è chi considera questa trasformazione una gravissima decadenza e chi la esalta come una liberazione da antichi tabù. Ma quel che conta è che la “normalità”, nell’immaginario collettivo, non esiste più.
Secondo i più, in realtà non è mai esistita, per il semplice fatto che essa suppone qualcuno che ponga delle norme e giudichi della loro osservanza o meno. Ma chi potrebbe mai avere un simile ruolo? Un tempo, in una società permeata dalla religione, si pensava fosse la divinità. Erano le Chiese – quella cattolica così come quelle protestanti – a stabilire cosa era peccato e cosa no.
Poi, nel processo di secolarizzazione che ha investito il mondo moderno, il concetto di “peccato”, con la sua implicita relazione a Dio, ha ceduto il posto a quello di “colpa”, che rimanda alla propria valutazione, senza necessariamente passare da un riferimento trascendente. Chi ha studiato storia della filosofia ricorderà che per Kant a stabilire la differenza tra il giusto e l’ingiusto non è Dio, ma la coscienza.
Poi, però, è venuto Freud a spiegare che questa coscienza, a sua volta, non fa altro che interiorizzare un modello esterno che si trasforma, dentro di noi, in un tirannico Super-Io. La colpa, allora, non si distingue più dal senso di colpa, cioè da un disagio psicologico che dev’essere valutato e affrontato non tanto da un punto di vista morale, quanto da quello terapeutico. Al posto del confessore, ormai, è da tempo subentrato lo psicoanalista.
A questo punto, piuttosto che a una morale del dovere, rigida e repressiva, è sembrato preferibile affidarsi a quella dell’autenticità, che varia da persona a persona, e che sostituisce l’universalità di un giusto e di un ingiusto che dovrebbero essere validi per tutti con la corrispondenza alla propria esigenza di essere fedeli a se stessi. Ciò che conta, alla fine, è star bene nella propria pelle e avere una vita che ci somigli.
Contemporanea alla trasformazione del “giudice” (da Dio, alla coscienza, alla percezione della propria identità) si è svolta quella relativa al metro di giudizio. Le morali religiose, fondate sull’idea di creazione, pensavano per lo più che Dio prescrivesse di rispettare una serie di precetti insiti in quella che veniva definita la «natura umana» e condannasse ogni comportamento che li violasse. La legge di Dio, in questo senso, veniva fatta coincidere in larga misura con la cosiddetta «legge di natura». Nessuna qualifica poteva essere più negativa, per una inclinazione o un comportamento, che essere «contro-natura».
Ma già lo spostamento da Dio alla coscienza comportò un progressivo sganciamento da questo metro di valutazione. Il punto di riferimento in base a cui valutare il giusto e l’ingiusto non era ormai una sempre più problematica «natura umana», ma la propria coerenza interiore, fondata sulla ragione. Tanto più che le teorie di Darwin sull’evoluzione delle specie mettevano in discussione l’idea che l’uomo avesse una «essenza/natura» immutabile e compiuta.
Al suo posto ha assunto progressivamente un ruolo sempre più decisivo la «cultura» che, intesa in senso antropologico, indica un insieme di modelli di pensiero, di sensibilità, di comportamento caratteristici di un particolare gruppo umano, nella consapevolezza che le regole morali vigenti in una cultura sono molto diverse da quelle previste da altre culture e che nessuna può dirsi, in assoluto, più valida di un’altra. Come è logico, del resto, se si rinunzia a stabilire la vera «natura» dell’uomo.
A questo punto, però, diventa molto difficile dire che un’azione è giusta o ingiusta in sé. Se non c’è più altro giudice che l’autenticità soggettiva e nessun altro metro di giudizio che la cultura entro cui si è cresciuti, un comportamento è giusto quando chi lo compie lo sente conforme alla propria identità e alla logica del proprio ambiente culturale. Nessuno, muovendo da presupposti diversi, ha il diritto di condannarlo. Si potrà dire: «Io non lo farei». Ma questo non significa che faccia del «male» chi si comporta diversamente.
Possiamo accettare queste conclusioni? Siamo disposti ad ammettere che non c’è distinzione tra comportamenti umani e comportamenti che non lo sono? In caso di risposta affermativa, l’indignazione di fronte alle azioni dell’Isis deve cessare e lasciare il posto al rispetto per scelte che noi non capiamo, ma non possiamo valutare. Se, invece, si vuol restare fedeli al moto intimo di rifiuto che affiora davanti questi episodi, bisogna rimettere in discussione il quadro etico predominante in Occidente e chiedersi di nuovo cosa possa ancora costituire il nucleo costitutivo e inviolabile che ci rende esseri umani. Non lo chiameremo più, probabilmente, «legge naturale», con gli equivoci che questa espressione a volte ha comportato. Ma non potremo neppure rinunziare a cercare un confine che distingua ancora l’umano dal disumano.
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