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I diritti delle donne e l’aborto

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di Giuseppe Savagnone

 

Il Consiglio d’Europa è seriamente allarmato per la violazione dei diritti delle donne in Italia. Forse perché, a differenza che in molti altri Paesi europei, non hanno asili nido gratuiti o quasi in cui lasciare i loro figli quando vanno al lavoro? O perché non ricevono dallo Stato alcun aiuto economico per allevarli dignitosamente (in Italia il sostegno pubblico alla famiglia ammonta a meno della metà della media europea)? O perché ormai le cure mediche  necessarie per far fronte efficacemente alle loro malattie sono sempre più costose, anche per i più poveri?

No, il Consiglio d’Europa è preoccupato, preoccupatissimo, perché – come si dice in un duro documento di denunzia, pubblicato in occasione dell’8 marzo – «a causa dell’elevato e crescente numero di medici obiettori di coscienza, l’Italia viola il diritto delle donne che, alle condizioni prescritte dalla legge 194 del 198, intendono interrompere la gravidanza».

Che strano! Non ci risulta che interventi simili siano stati fatti per denunciare a gran voce la continua violenza a cui nel nostro Paese sono soggette le donne che vogliono esercitare il diritto di avere figli, e si comincia con questo, che difende il diritto di quelle che, per non averli, sono costrette ad ucciderli! In realtà, tra questo silenzio e questa esternazione c’è un nesso inscindibile. Come ci fu, al tempo del referendum, tra l’incapacità o il rifiuto, da parte di tutte le forze politiche, tanto quelle del “Sì” quanto quelle del “No”, di varare una legislazione che sostenesse le donne nel loro difficile compito di  madri, e la vittoria finale di chi, invocando lo stato necessità, votò a favore della legalizzazione dell’aborto.

Vittoria non delle donne, come spesso si continua a ripetere, ma degli uomini che, allora come oggi, erano  i quasi unici protagonisti della politica italiana e che non trovarono nulla di meglio, per  sopperire al loro cronico disinteresse (equamente condiviso dalla Destra, dal Centro e dalla Sinistra) nei confronti della famiglia, che scaricare sulle donne la responsabilità di scegliere tra tirare avanti da sole o eliminare i loro bambini. Perché per una donna – su questo, almeno, sono tutti d’accordo – l’aborto non è un lusso, ma  un trauma che la segna per tutta la vita. Ed è stato – come ancora è – l’astuzia del maschilismo imperante quello di presentare a chi ha concepito un figlio l’alternativa perversa tra una futura vita di sacrifici, che la società si rifiuta di condividere (magari spendendo un po’ meno per gli aerei da guerra), e l’affrontare questo trauma, ancora una volta in totale solitudine. Né hanno titolo per parlare quei severi moralisti che, strenuamente contrari all’aborto, in più di quarantacinque anni in cui sono stati al governo non hanno mai fatto una legge che aiutasse le famiglie con figli.

Quanto al documento del Consiglio d’Europa, non può non stupire che, per difendere un diritto – quello delle donne ad abortire -, se ne metta implicitamente in discussione un altro, quello del medico a seguire la propria coscienza. Perché, nell’altissima percentuale di obiettori di molte regioni italiane (nel Lazio arrivano al 90%), ci saranno sicuramente dei mascalzoni che si dichiarano tali nella struttura pubblica in cui operano, per poter eseguire gli aborti a pagamento in quella privata di loro proprietà; ma questi vergognosi atti di sciacallaggio – che vanno individuati e puniti con la massima severità – non possono giustificare la violazione della libertà fondamentale su cui si è fondata la civiltà liberale, quella delle coscienze individuali.

Tanto più che la legge 194 ha avuto fin dall’inizio  – e continua ad avere – un significato etico che la rende, a differenza di tante altre, puramente tecniche, estremamente discutibile sotto questo profilo. Sono in molti – tra cui il sottoscritto – a ritenerla viziata da una palese illogicità, che subordina la vita di un essere umano all’arbitrio di un altro (sia pure sua madre). La libertà di ciascuno – in buona  dottrina liberale – finisce dove comincia quella dell’altro. Ora, nel caso dell’embrione e poi del feto, c’è chi pensa, con ragioni tratte non dalla Bibbia, ma dalla scienza, che le esigenze, per quanto legittime, della donna, debbano fare i conti con quelle, ancora più stringenti, di un “altro”.

Che questo sia il problema lo riconoscono anche i maggiori studiosi di bioetica anglosassoni, i quali infatti puntano, per giustificare la loro posizione favorevole al diritto di abortire, sulla dimostrazione che l’embrione e il feto, pur appartenendo alla specie umana, non sono però persone. Valga per tutte la considerazione di Peter Singer,  uno dei maggiori esponenti della cosiddetta “bioetica laica”, fautore decisissimo della liceità dell’aborto, riguardo alle argomentazioni che si basano sulla “libertà della donna”: «Questa», osserva Singer, con un pizzico di ironia,  «può essere una buona politica,  ma certo è cattiva filosofia.  Presentare il problema dell’aborto come una questione di libertà di scelta individuale (…) significa già di per sé presupporre che il feto in realtà non conta nulla.  Chiunque pensi che un feto umano ha lo stesso diritto alla vita degli altri esseri umani non potrà mai ridurre il problema dell’aborto a una questione di libertà di scelta,  più di quanto possa ridurre la schiavitù a una questione di libertà di scelta da parte degli schiavisti» (P. Singer,  Ripensare la vita.  La vecchia morale non serve più, Milano 1996).

La sola vera giustificazione dell’aborto, dicono concordemente questi noti studiosi, sta nel fatto che, per essere persone, non basta il Dna della specie homo sapiens e quindi il pieno titolo di “essere umano” (tutti ammettono che l’embrione ce l’ha), ma bisogna avere qualche altro requisito, che per lo più viene indicato nell’autocoscienza. Così, scrive un altro famoso bioeticista, «non tutti gli esseri umani sono persone. Non tutti gli esseri umani sono autocoscienti (…). I feti, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in coma senza speranza costituiscono esempi di non-persone umane» (H. T. Engelhardt, Manuale di bioetica, Milano 1991).

Si noterà il riferimento agli infanti, ai bambini piccoli. Questi autori sono unanimi nel ritenere che anch’essi, pur avendo lo statuto biologico umano, nei primi mesi, non essendo autocoscienti, non siano persone. Perciò, in base agli stessi principi che giustificano l’aborto, invocano la legalizzazione dell’infanticidio.

Ha o non ha un medico il diritto di invocare la propria coscienza per non prestarsi a questo, con buona pace del Consiglio d’Europa?

 

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