I problemi creati dalla durezza di Israele
A distanza di poco più di un mese dall’inizio della crisi palestinese, emergono alcuni nodi inquietanti, destinati probabilmente a pesare nel futuro, anche quando lo scontro sul campo sarà finito.
Il primo di questi nodi nasce dalle modalità della reazione dello Stato ebraico che, da vittima di un’atroce violenza – e perciò oggetto di solidarietà incondizionata (agli occhi, almeno, del mondo occidentale) – , lo hanno progressivamente fatto apparire, a gran parte dell’opinione pubblica dello stesso Occidente, un perfetto corrispettivo, opposto e simmetrico, dei suoi aggressori. Significativo, a questo proposito, il titolo di prima pagina di un quotidiano italiano: «Scatta l’antiterrorismo. Somiglia molto al terrorismo».
La stessa cieca spietatezza. Lo stesso assoluto disprezzo per i civili e per le leggi internazionali che li proteggono. Con il blocco delle forniture vitali di acqua elettricità e medicine a due milioni e mezzo di persone, la perentoria ingiunzione a quasi metà di esse (più di un milione!) di sgombrare entro 24 ore le loro case, le terre, i luoghi di lavoro, e di trasferirsi “altrove”, i micidiali bombardamenti indiscriminati che hanno distrutto abitazioni civili, ospedali, scuole, chiese, e ucciso diecimila civili, di cui quasi la metà donne e bambini.
Più che di una operazione volta a prevenire, in una logica difensiva, altri attacchi, quella israeliana ha dato così l’impressione di essere una vendetta. E non nella forma dell ’“occhio per occhio, dente per dente”, ma in quella, più arcaica, della vendetta senza misura di cui parla la Bibbia, mettendo in bocca a Lamech, discendente di Caino (non a caso!), una dichiarazione che è al tempo stesso un programma: «Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette» (Genesi, 4, 23-24).
La legge del taglione, pur nella sua brutalità, si affermerà più tardi nelle antiche legislazioni proprio per limitare questa smisuratezza incontrollabile, consentendo all’offeso di replicare solo nei limiti del danno ricevuto.
La risposta di Israele, più che questa logica, ricorda quella di Lamech. Tanto più sproporzionata, se si pensa che, secondo lo stesso governo israeliano, il responsabile da punire è Hamas e non la popolazione palestinese, la quale ne sarebbe solo ostaggio.
Da parte loro, i governi occidentali, primo fra tutti quello degli Stati Uniti, hanno rifiutato di parlare di “vendetta” e all’inizio hanno cercato di giustificare questa reazione appellandosi al “diritto d’Israele di difendersi”. In questa logica, hanno mostrato grande tolleranza per i “danni collaterali” che questo diritto poteva comportare, limitandosi a generiche raccomandazioni al rispetto dei diritti umani e delle leggi internazionali di guerra, anche se era evidente che entrambi venivano ampiamente violati dalla reazione israeliana.
Quando però è stato sempre più chiaro che il governo di Netaniahu non intendeva neppure minimamente attenuare la sua azione devastatrice, il segretario generale dell’ONU, Guterres, è intervenuto ufficialmente per ricordare la necessità del rispetto del diritto internazionale e chiedere un “cessate il fuoco” che risparmiasse la vita dei civili.
La reazione dello Stato ebraico è stata durissima e si è tradotta addirittura in un rifiuto di concedere il visto d’ingresso ai rappresentanti delle Nazioni Unite.
A questo punto anche il presidente Biden – sollecitato probabilmente anche dal vasto movimento di protesta che si è sviluppato in tutto il mondo occidentale, e anche negli Stati Uniti, in difesa del popolo palestinese – ha ritenuto di dover intervenire più decisamente, pressando il governo israeliano perché fossero concesse almeno delle “pause umanitarie”.
Ricevendo un secco rifiuto dal premier Netaniahu, che solo dopo infinite umilianti insistenze sia del presidente americano sia del suo inviato Blinken ha fatto qualche concessione, ma comunque in misura minima rispetto alla richiesta. Un clamoroso “sgarbo” di Israele al suo più fido e importante alleato, che non sarà presto dimenticato.
È evidente che tutto ciò sta sparigliando le carte. Gli Stati Uniti si stanno trovando in grande difficoltà, stretti fra la presa di distanze del mondo islamico – anche di quello moderato e perfino di un paese aderente alla NATO, come la Turchia – che rimprovera loro la copertura politica, economica e militare da sempre data ad Israele e fortemente confermata anche in questa circostanza, e l’inedita, ostinata chiusura del governo israeliano.
L’America in questa circostanza sta vedendo compromessa la sua immagine di potenza egemone e la sua linea politica appare debole e incerta. Anche perché il presidente Biden si trova davanti alla poco rosea situazione di dover scegliere, a un anno dalle elezioni, tra le lobbies ebraiche, il cui appoggio dipende dall’appoggio ad Israele, e il suo elettorato, soprattutto giovanile, che lo contesta per questo appoggio.
Ed anche Israele viene a trovarsi sempre più isolato, non soltanto, come in passato, rispetto al Sud del mondo e all’Islam, bensì anche, in una certa misura, di fronte agli Stati occidentali suoi tradizionali sostenitori, che continuano a ripetere di considerarlo la vittima di un’aggressione e un avamposto avanzato della democrazia, ma non possono evitare, di riconoscere, con crescente imbarazzo, che la continuazione del massacro sistematico di civili a cui stiamo assistendo non può più essere accettato.
La riapertura della questione dell’intera Palestina
Ma a dividere Israele dal suo più tradizionale e fedele alleato americano non è solo la durezza spietata della reazione militare. La crisi in atto ha riproposto anche la questione, che era stata rimossa da tempo, della sistemazione politica definitiva dell’intera regione. E qui è impossibile ignorare la risoluzione dell’ONU del 1947, in cui si prevedeva la creazione di uno Stato ebraico – che è nato – e di uno palestinese, che invece non ha mai visto la luce.
Il problema è che in realtà né israeliani né palestinesi hanno mai accettato questa prospettiva. Entrambi vogliono tutto il territorio per sé. Con la differenza che Israele ha avuto la forza militare per avvicinarsi sempre di più a questo obiettivo, mentre l’esplicito rifiuto dei palestinesi di accettare di formare un loro Stato sui territori assegnati dall’ONU ha prodotto come solo risultato la loro progressiva espulsione anche da gran parte di questi, ormai occupati dagli israeliani.
Una espulsione che si è venuta attuando sia attraverso le campagne militari, sia con il moltiplicarsi di nuovi insediamenti israeliani sulle terre della Cisgiordania che avrebbero dovuto essere in prospettiva parte del nuovo Stato palestinese. Proprio alla vigilia del 7 ottobre ne era stato varato un altro, suscitando questa volta anche le resistenze (peraltro inascoltate) degli Stati Uniti.
Per non parlare dello status di Gerusalemme, che l’ONU prevedeva fosse – come luogo santo di tutte e tre le grandi religioni abramitiche – una città internazionale, e che invece Israele, nel 1980, forte dei suoi successi militari, ha proclamato unilateralmente sua capitale, con una decisione che l’ONU ha dichiarato illegittima, e che ha avuto il riconoscimento di pochi governi, tra cui però gli Stati Uniti, che hanno trasferito là la loro ambasciata,
A guerra finita, riuscirà mai Washington, finora così cedevole nei confronti del governo israeliano, a convincerlo a rinunziare a una parte del suo territorio attuale, per consentire la formazione di uno Stato palestinese?
E quale sarà, eventualmente, ci riuscisse, la reazione dei ben settecentomila coloni israeliani che in questi anni, col beneplacito del governo (e dell’Occidente) si sono stanziati illegalmente su quel territorio, sottraendolo ai loro legittimi abitanti?
E che ne sarà di Gerusalemme, che da più di quarant’anni Israele considera sua capitale, ma dove anche i palestinesi abitano, e a cui l’Islam attribuisce altrettanto valore religioso degli ebrei e dei cristiani?
Il futuro di Gaza
Un terzo nodo – collegato al secondo e anch’esso relativo al rapporto fra Israele e Stati Uniti – è costituito dalla questione del futuro della Striscia di Gaza.
Biden ha chiesto ad Abu Mazen, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania, di assumerne, a guerra finita, il governo, come parte del costituendo Stato palestinese. Netaniahu, da parte sua, sfidando apertamente Biden, ha replicato che gli israeliani non intendono lasciare più alcuna autonomia a Gaza e, anche senza occuparla direttamente, la terranno comunque sotto il loro controllo.
Sta di fatto che, se riuscirà davvero a distruggere Hamas, sarà l’esercito israeliano a trovarsi sul territorio e a poterne disporre.
Per di più, la proposta americana non tiene conto del fatto che oggi il (troppo) moderato e corrotto Abu Mazen è del tutto squalificato agli occhi dei palestinesi (anche di quelli che continua a governare in Cisgiordania), i quali vedono in Hamas l’unica alternativa all’emarginazione e alla sottomissione a cui li aveva ridotti Israele col sostegno degli Stati Uniti.
E sicuramente lo sarebbe ancora di più se il presidente dell’Autorità palestinese entrasse a Gaza dopo essere stato complice della liquidazione di Hamas da parte degli israeliani e col sostegno degli americani.
Un documento ufficioso e non confermato del governo israeliano ipotizza che gli abitanti attuali di Gaza si trasferiscano in Egitto, nel Sinai. E questo spigherebbe anche le recenti prove di espulsione da una parte della Striscia e le azioni volte a rendere loro impossibile la vita, costringendoli già adesso, in qualche modo, ad emigrare.
Ma, a parte l’ovvia resistenza del governo del Cairo, che non intende addossarsi due milioni e mezzo di profughi, potrebbe la comunità internazionale accettare una soluzione che, pur non essendo un genocidio, sarebbe comunque un chiaro esempio di pulizia etnica?
Nemmeno le acrobazie fate in queste settimane da governi e organi di stampa occidentali per minimizzare la gravità delle violenze verso il popolo palestinese – accusando chi le denunzia di dimenticare la strage del 7 ottobre, se non addirittura di essere antisemita – probabilmente sarebbero sufficienti a giustificare il silenzio in una ipotesi del genere.
Resta comunque la difficoltà di trovare altre strade. Il compito non si può ancora una volta eludere. L’Occidente non può continuare a chiudere gli occhi, ora che sta raccogliendo gli amarissimi frutti di questo comportamento nei decenni passati. Anche se c’è il rischio che, passata l’attualità giornalistica, l’attenzione di governi e opinione pubblica torni a distrarsi, come è sempre avvenuto in passato, in attesa che un’altra crisi faccia altre migliaia di vittime innocenti e scuota di nuovo, per qualche settimana, la nostra indifferenza.
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