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I nostri fratelli animali

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di Giuseppe Savagnone

 

 

Ha avuto un certo rilievo, nei giorni scorsi, la notizia della manifestazione organizzata a Bologna dall’Associazione  «Essere Animali» per protestare contro gli allevamenti di visoni. Nel nostro Paese ce ne sono circa 20 – concentrati in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – , che «producono» annualmente 170mila pelli di visone.

«Come in ogni allevamento intensivo, anche i visoni vengono allevati a migliaia in file di gabbie di metallo piuttosto piccole: sono – come prevede la legge – larghe 36 cm, profonde 70 cm e alte 45 cm. Se in natura i visoni vivono nelle foreste vicino a fiumi e ruscelli (sono eccellenti nuotatori) e coprono in un giorno distanze fino a 20 chilometri, negli allevamenti passano l’intera vita in gabbia dove mangiano, bevono, dormono, si accoppiano. Se vengono selezionati per la riproduzione vivono in queste gabbie per tre, quattro anni, fino a quando verranno a loro volta uccisi. Se invece vengono scelti per la sola produzione della pelliccia la loro vita si riduce a pochi mesi, dalla nascita che avviene tra aprile e maggio, fino all’autunno» (Corriere.it del 20 febbraio). In entrambi i casi, la morte avviene mediante asfissia tramite il gas, monossido o biossido di carbonio.

Appare perfettamente appropriato il commento di Simone Montuschi, portavoce dell’organizzazione animalista che ha organizzato la campagna di protesta:  «Rinchiudere un animale selvatico in una piccola gabbia e soffocarlo in una camera a gas è un maltrattamento punito dalla legge, ma se con tale modalità ne vengono abbattuti migliaia, allora è un allevamento di visoni. Con numerosi appostamenti e con l’utilizzo di telecamere nascoste siamo riusciti a filmare l’uccisione di questi animali, quando ancora cuccioli vengono gettati nelle camere a gas, una morte atroce che però non rovina la loro pelliccia» (ivi).

Una legge del 2007 aveva cercato di migliorare la situazione stabilendo che, a partire dal 1 gennaio 2008, l’allevamento avvenisse senza gabbie. Ma era bastata la protesta degli allevatori, per i costi aggiuntivi che ciò avrebbe comportato, per spingere il Ministero della Salute a emanare una circolare in cui la legge veniva praticamente vanificata, lasciando agli allevatori la facoltà di scegliere tra il vecchio sistema “in gabbie” e il nuovo.

Al di là della questione specifica, il problema del rapporto tra esseri umani animali non umani è sempre più attuale. Si assiste oggi a una crescente valorizzazione di quelli domestici. Si moltiplicano le pubblicità di alimenti per cani o per gatti, e così pure i centri dedicati alla loro igiene e al loro benessere.

Si ha l’impressione che l’adozione di un animale diventi, in certi casi, un surrogato alla paternità e alla maternità e che la diffusione del fenomeno sia dunque in relazione alla crisi demografica di molte società occidentali (tra cui l’Italia). «Ai nostri giorni, nelle case americane ci sono più cani che bambini», osservava qualche tempo fa un giornalista del «New York Times» (cit. in «La Repubblica» del 29 novembre 2012). Questo è vero probabilmente anche per l’Italia, soprattutto in alcune regioni a crescita demografica zero.

Si inserisce in questo contesto anche la diffusione delle diete vegetariane e la contestazione degli animalisti nei confronti del trattamento riservato agli animali negli allevamenti.

È una reazione alla tendenza  dei secoli che vanno dal Rinascimento in poi – la cosiddetta “epoca moderna” – , in cui l’esaltazione del soggetto umano è avvenuta a spese della sua intima relazione col mondo animale. Emblematica la visione meccanicistica della scienza moderna che, da Cartesio in poi, ha equiparato gli organismi viventi alle macchine, negando loro l’anima e quindi la capacità di provare gioie e dolori. Da qui l’affermarsi di pratiche come la vivisezione, che trattano gli esseri viventi non umani al pari di oggetti inanimati.

Non era questa la tradizione cristiana. Nel medioevo era pacifico che gli animali avessero l’anima, anche se non spirituale come l’uomo, e che fossero figli di Dio anch’essi, anche se non sua immagine. Da qui la grande familiarità e amicizia di monaci e santi – non solo di san Francesco, come spesso erroneamente si pensa! – con bestie selvatiche di ogni tipo (perfino coccodrilli), considerati fratelli. Questo non è in contrasto, come molti (anche cristiani) hanno creduto, con l’idea cristiana secondo cui la persona umana  ha una identità peculiare, irriducibile a quella degli altri viventi. La diversità non è necessariamente svalutazione dell’altro.  

Al contrario, certe esagerazioni, riscontrabili nella svolta attuale, nascono dalla incapacità di rispettare l’animale proprio nella sua alterità  Un’autrice assolutamente “laica” e specialista dei diritti animali, fa presente, a questo proposito,  la sua perplessità nel constatare che oggi spesso «non solo l’animale viene assimilato all’uomo, ma addirittura sublimato a persona. Lo sforzo sembra quello di rendere umano il non umano, al fine, certo nobile e condivisibile, di garantirgli dei diritti, cioè di assicurargli una effettiva protezione. Resta tuttavia da chiedersi se sia veramente inevitabile l’alternativa tra animale umanizzato (elevato a persona) o reificato (retrocesso a cosa). Par quasi infatti che per sottrarre l’animale allo stato di oggetto l’unica strada percorribile sia quello di renderlo simile all’uomo e quindi, paradossalmente, ancora antropomorfizzarlo (…). Il quesito fondamentale con cui confrontarsi è dunque se sia veramente necessario essere simili all’uomo per meritare il rispetto» (Luisella Battaglia, Etica e diritti degli animali).

Sono solo spunti per una riflessione più ampia di quella consentita in un articolo. Ma il mondo che sta nascendo sarà contrassegnato anche da un diverso rapporto tra uomini e animali non umani ed è importante che ne siamo tutti consapevoli.

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