I passeggeri invisibili che affogano nella stiva della nave Italia

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Foto di Sara Kurfeß su Unsplash

Due rapporti allarmanti

Nello stesso giorno in cui i giornali di destra – «Libero», «La Verità», «Il Tempo» –   hanno consacrato il titolo di prima pagina allo scatto d’ira di Prodi contro la giornalista che l’intervistava, «Avvenire» lo ha dedicato al rapporto Istat, appena pubblicato, in cui si denuncia la progressiva diminuzione delle entrate degli italiani.

«Ancora impoveriti», titolava il giornale cattolico. E, nell’occhiello: «L’Istat segnala come le famiglie abbiano redditi inferiori dell’8,7% rispetto a quello conseguiti nel 2007». Nel sommario sotto il titolo, poi, si leggeva che «un italiano su quattro è a rischio povertà», e che anche tra i lavoratori «il 20% guadagna troppo poco, il 10% è misero».

Forse ci saranno lettori che considerano centrale per il futuro del nostro paese la questione se l’ormai più che ottantenne “padre” della «Margherita e dell’«Ulivo» abbia o no tirato una ciocca di capelli della sua intervistatrice – come evidentemente pensano i direttori dei quotidiani prima citati – , ma, per quanto ci riguarda, a noi sembra che la notizia a cui ha dato risalto «Avvenire» sia ben più significativa e meriti una riflessione.

Il documento in questione è il report dell’Istat su “Condizioni di vita e reddito delle famiglie, anni 2023-2024”, pubblicato mercoledì 26 marzo. Come sintetizza «Il sole 24ore», dal rapporto risulta che «nel 2024 il 23,1% della popolazione è a rischio di povertà o esclusione sociale (nel 2023 era il 22,8%)».

Siamo davanti, dunque, a un fenomeno che coinvolge quasi un quarto degli italiani e che è in continuo peggioramento, soprattutto per gli anziani soli e le famiglie numerose. Ma il problema riguarda tutti. Anche il 10,3% degli occupati, secondo il rapporto, non sono in grado di procurarsi i beni necessari alla vita .

All’origine di questo progressivo immiserimento, c’è una inadeguatezza delle retribuzioni dei lavoratori. A questo è dedicato un altro recente report, il Rapporto mondiale sui salari 2024-2025, pubblicato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) il 24 marzo.

In esso si segnala che in Italia, mentre i salari nominali crescono – nel 2023 si è registrato un aumento del +4,2% – o, quanto meno, si mantengono stabili, il potere d’acquisto dei lavoratori si contrae.

Da questo punto di vista, il nostro paese registra il peggiore risultato rispetto all’intero gruppo del G20: dal 2008 a oggi, i salari reali sono diminuiti dell’8,7%, un dato che pone l’Italia in fondo alla classifica globale. Mentre in Francia c’è stato un aumento di circa il 5 per cento, in Germania di quasi il 15, noi siamo l’unico paese, tra le economie avanzate, a registrare una flessione così marcata.

Alla ricerca delle cause

Secondo molti il problema principale che ha determinato la mancata crescita degli stipendi è che l’economia italiana, in questi ultimi vent’anni, non è sostanzialmente cresciuta, anche per le scelte industriali del paese, orientate più sui settori tradizionali (e che pagano peggio) che su quelli più innovativi e ad alta potenzialità di crescita.

Ma c’è chi sottolinea che – mentre fino all’inizio del 2000 i salari italiani sono cresciuti, eppur debolmente, a un ritmo superiore rispetto alla produttività –  a partire dal 2022 la situazione si è rovesciata: la produttività del lavoro ha ripreso ad aumentare, mentre la crescita retributiva è rimasta pressoché nulla. I lavoratori contribuiscono in misura maggiore alla crescita, senza però riceverne un beneficio proporzionale.

Questo anche perché l’export italiano, per essere competitivo nel mondo ha sempre tenuto bassi i salari, anziché aumentare la produttività, come ad esempio ha sempre fatto la Germania. 

Ma il problema – notano altri – è più generale e ha a che fare con l’indebolimento del ruolo dei sindacati. Gli aumenti salariali, negli altri paesi europei, passano infatti dai rinnovi dei cosiddetti contratti collettivi, negoziati a livello nazionale e rinnovati puntualmente, di solito dopo un triennio, tenendo conto della crescita del costo della vita e delle altre circostanze che possono giustificare nuove e più vantaggiose condizioni per i lavoratori.

In Italia, invece, l’Istat nel 2024 segnalava che il 50% dei lavoratori aveva un contratto scaduto e che dunque il suo stipendio era fermo.  

L’inflazione degli ultimi anni ha ulteriormente aggravato le cose: dal gennaio 2021 al febbraio 2025 i prezzi sono aumentati complessivamente di quasi il 18 per cento, mentre le retribuzioni contrattuali dell’8,2, cioè meno della metà. Gli adeguamenti retributivi attuati in risposta all’aumento dei prezzi si sono rivelati insufficienti a compensare la perdita di potere d’acquisto.

L’impatto è stato particolarmente pesante per i redditi più bassi, che destinano una quota maggiore del proprio stipendio ai beni di prima necessità, i cui prezzi hanno subito gli aumenti più consistenti.

L’erosione del potere d’acquisto è diventata così non solo una questione economica, ma anche un tema di giustizia sociale, perché accresce le disuguaglianze, già molto marcate.

L’Italia è, tra i principali stati membri dell’UE, quello che registra il divario più ampio tra ricchi e poveri: l’1% detiene il 13,6% di tutto il reddito nazionale e il 5% delle famiglie possiede quasi la metà – il 48% – della ricchezza.

Le rivendicazioni  entusiastiche del governo

Davanti a questo quadro, aggiornato al biennio 2023-2024, non può non lasciare perplessi la grande soddisfazione con cui Giorgia Meloni e i rappresentanti dei partiti di maggioranza rivendicano i risultati conseguiti, proprio nel campo economico, durante questi tre anni di governo.

Il cavallo di battaglia è l’aumento del numero degli occupati, che è è passato dai 23,519 milioni del luglio 2023 ai 24,222 milioni del gennaio 2025, con un tasso di occupazione del 62,8%. Si tratta del livello più alto dal 2004. È un dato di fatto che nei primi due anni di governo di Giorgia Meloni l’occupazione è cresciuta di 847mila unità (+3,6%).

Naturalmente non sono mancate le obiezioni. Secondo la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein, dietro al record del numero degli occupati si nasconde la crescita dei contratti a tempo determinato. In verità, i numeri smentiscono questa tesi. Secondo l’Istat, sotto il governo Meloni gli occupati dipendenti a tempo indeterminato sono aumentati di quasi 940 mila unità, mentre quelli a termine sono scesi di 266 mila unità.

Il problema è un altro. Le aziende assumono tanto perché pagano poco. La spiegazione più plausibile dell’apparente miracolo italiano del lavoro è verosimilmente legata alla bassa o inesistente crescita dei salari.

Per le imprese il costo del lavoro in termini reali in Italia è diminuito di quasi il 10%. Così, l’aumento del tasso di occupazione, che potrebbe essere visto come un successo, si colloca in un quadro in cui si abbassa la media dei salari e aumenta il numero di occupati con redditi bassi.

Senza dire che la crescita dell’occupazione non riguarda tutte le fasce. Essa è stata spinta soprattutto dall’aumento dei lavoratori maschi, che rappresentano circa l’80% di tutto il rialzo dell’ultimo anno, raggiungendo i 14 milioni, mentre le donne sono stabili intorno ai 10,2 milioni.

Resta inoltre aperta la questione giovanile. Il 93% dei nuovi occupati ha più di 50 anni. Incrementi più modesti ci sono stati nella fascia più giovane della popolazione, e ancora più modesti in quella tra i 35 e i 49 anni.

Per non parlare degli stranieri, schiacciati quasi sempre su basse qualifiche e i cui salari sono quasi del 30% inferiori a quelli dei lavoratori italiani.

Uscire dalla logica della campagna elettorale

Non si possono certo attribuire a questo governo tutte le colpe dell’attuale situazione. Tuttavia, è evidente che la sua politica non solo non l’ha cambiata, ma neppure si è mossa nella direzione di farlo.

La demonizzazione delle tasse, che sono il principale meccanismo di redistribuzione della ricchezza; l’indebolimento del pubblico e il favore scoperto nei confronti del privato – specialmente nell’ambito della sanità – , con la conseguente penalizzazione di chi non è in grado di fruire dei servizi a pagamento; lo sforzo constante di ridurre quanto più possibile l’influenza dei sindacati, rendendo così possibile il mancato rinnovo dei contratti di lavoro; la palese ostilità nei confronti degli stranieri, di cui vengono ostacolati in tutti i modi l’integrazione  e l’inserimento nel mercato del lavoro, delineano un progetto di società in cui i poveri sono destinati a diventare sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi.

I due rapporti – dell’Istat e dell’ILO – da cui siamo partiti non sono che lo specchio di questa tendenza. I proclami  di «missione compiuta», volti a puntare i riflettori sui parziali successi, non possono nascondere la realtà di una nave “Italia” che sta affondando. Anche se si cerca in tutti i modi – e purtroppo con successo – di distrarre l’opinione pubblica su problemi del tutto marginali (come la lite di Prodi con la giornalista), contando sul fatto che ad annegare sono comunque i passeggeri invisibili della terza classe, nella stiva.

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