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I preti dovrebbero sposarsi?

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di Giuseppe Savagnone

 

  La lettera inviata una decina di giorni fa a papa Bergoglio da 26 donne «coinvolte sentimentalmente con un sacerdote o religioso», che gli chiedevano di rivedere la regola del celibato dei preti, ricordandogli la «devastante sofferenza a cui è soggetta una donna che vive con un prete la forte esperienza dell’innamoramento», si appellava a questa sofferenza perché, dicevano le mittenti,  «qualcosa possa cambiare non solo per noi, ma per il bene di tutta la Chiesa».

  Forse anche sulla scorta di questa missiva, sull’aereo che lo riportava in Italia dalla Terra Santa, i giornalisti hanno riproposto a Francesco la  questione. «La Chiesa cattolica», è stata la semplice risposta del pontefice, «ha preti sposati, nei riti orientali. Il celibato non è un dogma di fede, è una regola di vita, che io apprezzo tanto e credo che sia un dono per la Chiesa. Non essendo un dogma di fede, c’è sempre la porta aperta».

Vale la pena di dedicare a queste parole un rapido commento. I preti sposati, nella Chiesa cattolica, già ci sono, anche se nel rito greco e non in quello latino. Questo significa che non è in gioco né un dogma di fede, come sembrano credere alcuni, né una pregiudiziale sessuofobica, un tabù da smascherare e superare, come sembrano pensare altri. Eliminati questi due estremi, si apre lo spazio alla riflessione e al confronto: è, appunto, «la porta aperta» di cui ha parlato il papa.  Prendere sul serio questo spazio, però, è meno facile di quanto sembri. Bisogna essere capaci di mettere da parte non solo le prospettive sbagliate che abbiamo appena scartato, e che renderebbero impossibile la discussione, ma anche le sottili riserve psicologiche che le accompagnano solitamente.

Perché anche chi, alla fine, deve ammettere che non ci sono da difendere verità dogmatiche, rischia di mantenere una segreta riserva e di alimentare un atteggiamento emotivo di indignazione e di disgusto all’idea che un sacerdote possa aver una moglie, compiere atti sessuali, doversi occupare di figli, rientrare, insomma, nel quadro di vita di una uomo “normale”. Come se queste cose “troppo umane” potessero costituire una dissacrazione del sacro ministero…

Reciprocamente, chi deve prendere atto che da parte della Chiesa non ci sono blocchi di tipo psicoanalitico rischia di continuare a rivendicare l’abolizione del celibato come se si trattasse di una liberazione da una mentalità retriva e moralistica, invece che di una soluzione di cui vagliare serenamente i pro e i contro, come scrivono le firmatarie della lettera, non solo per i singoli casi personali, ma «per il bene di tutta la Chiesa».

Quest’ultima precisazione è importante. La sofferenza delle persone è un dramma da non sottovalutare mai. È vero, però, che chi governa una comunità come la Chiesa cattolica, con più di un miliardo di membri, deve chiedersi innanzi tutto quale sia la scelta migliore per il bene comune.

E se tra un prete e una donna nasce l’amore? Ma può succedere anche che l’amore scocchi tra un uomo sposato e padre di figli e una donna che non è sua moglie, o viceversa. Anche una situazione del genere è causa, normalmente, per chi la vive, di una «devastante sofferenza» che non si deve sottovalutare, ma che non può giustificare l’abolizione, da parte della Chiesa, del vincolo della fedeltà coniugale.

Cosa potrebbe esigere l’abbandono del celibato dei preti «per il bene di tutta la Chiesa»? Un motivo ricorrente è dato dallo scandalo della pedofilia di tanti sacerdoti. Ricordo un vibrante articolo di Hans Küng orientato in questo senso. Ma è sicuro che sia il celibato a determinare le inclinazioni pedofile? I sociologi e gli psicologi sostengono che gli abusi sessuali sui minori si sono sempre verificati e continuano a verificarsi soprattutto all’interno delle famiglie. Negli Stati Uniti il problema è così diffuso che, nel 1992, si è costituita la False Memory Sydrome Foundation un’associazione  di genitori i cui figli adulti,  durante la terapia psicoanalitica,  ricordano scene odiose di abuso infantile familiare, il cui intento è di difendersi da queste accuse. Che poi esse siano vere o false qui non possiamo giudicare (come non possiamo farlo, del resto, neppure quando ad esserne oggetto è un prete), ma che certamente ci sono!

Un motivo più calzante potrebbe essere l’esigenza di favorire una maggiore maturità umana nei presbiteri. A volte si ha l’impressione che la loro  crescita psicologica e affettiva  non sia all’altezza del loro delicatissimo ministero. Ma questo dovrebbe portare all’abolizione non solo del celibato dei preti, bensì anche del voto di verginità per i religiosi e le religiose, che in realtà nessuno chiede, perché la storia del monachesimo e della vita religiosa è considerata, solitamente, ricca di esempi di grande santità, inclusiva di una altrettanto grande umanità. L’esperienza dice che si può essere umanissimi anche se celibi. E disumani anche se non lo si è. Il problema, se mai, è nell’educazione che si riceve. Il problema, se fosse così, non riguarderebbe il celibato, ma i seminari.

Aumenterebbero le vocazioni!, osserva qualcuno. Non sembra che sia così là dove esistono sacerdoti o pastori sposati. In ogni caso, il problema della diminuzione dei preti  andrebbe visto anche come un’occasione per valorizzare le capacità di servizio dei laici. Una tradizione fortemente clericale ci ha abituati ad attribuire al presbitero molti compiti che uomini e donne non ordinati possono svolgere egualmente bene, forse anche meglio. Neanche questo può essere, dunque, un buon motivo per abolire il celibato.

Personalmente penso che ce ne siano, al contrario, per mantenerlo. Mi limito qui a enunciarne uno, non di ordine teologico o mistico, ma estremamente pratico. Un prete, nell’immaginario collettivo della Chiesa romana, ha sempre costituito una figura che non svolge soltanto una professione, con orari stabiliti e con la riserva di doversi dedicare ad altro quando è finito il suo orario d’ufficio. La sua missione è, da sempre, identificata come qualcosa di totalizzante, che lo consacra al servizio degli altri, senza distinzioni. Un sacerdote che ha una famiglia deve invece innanzi tutto occuparsi di sua moglie e dei suoi figli. Deve inoltre lavorare per mantenerli. Questo –  che è già vero per tanti laici pur zelanti, ma costretti, giustamente, a rinunciare a una più generosa donazione di sé al di fuori della cerchia familiare e delle esigenze lavorative – diventerebbe inevitabile anche per il presbitero. Vogliamo veramente questo?

È la mia idea, discutibilissima, e che spero possa essere discussa da chi vorrà, anche in questa sede.  Purché – è la sola cosa che chiedo – si eviti di scaricare in questa discussione quegli atteggiamenti aggressivi a cui prima alludevo  che trasformerebbero le critiche nei confronti delle mie argomentazioni in un indignato processo al reazionario di turno.

 

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