TRA MARKETING E AMMICCAMENTI AGLI USA,
LE PRIMARIE NON SCALDANO I CUORI DELLA BASE CATTOLICA
Le primarie, ancor più che il loro (prevedibile) esito, hanno suscitato reazioni diverse all’interno dell’area cattolico-progressista. Entusiasti, tiepidi, scettici e critici di questo sistema di designazione delle candidature hanno nelle scorse settimane riprodotto dinamiche simili a quelle che si erano verificate una ventina di anni fa, all’epoca del referendum sul maggioritario del 1993, che divise fortemente al proprio interno sia il cattolicesimo democratico che la sinistra cristiana. Chi infatti difendeva il principio della rappresentatività della volontà del corpo elettorale, all’interno di un modello, quello parlamentare, disegnato appositamente per evitare di consegnare eccessivi poteri nelle mani di una sola persona, difendeva allora il sistema proporzionale come oggi guarda con preoccupazione all’investitura popolare del “candidato premier” (anche perché poi la nostra Costituzione non prevede né la figura del premier, né, tanto meno, la sua elezione diretta). Chi invece metteva l’accento sull’esigenza della stabilità e della governabilità, come sulla necessità di portare la sinistra ad assumere responsabilità dirette di governo all’interno di un quadro chiaramente bipolare (se non bipartitico), sostenne allora il sistema maggioritario come oggi è convinto dell’utilità delle primarie.
A venti anni di distanza ciò che è cambiato è semmai una più decisa egemonia della seconda area politico-culturale sulla prima, determinata dall’imporsi di figure forti sui modelli tradizionali di partito, ma anche dall’ansia di molti di contrapporre un leader politico di centrosinistra all’incombente scenario di un altro governo tecnico, magari nuovamente guidato da Mario Monti. Altri cattolici ancora, facendo di necessità virtù, pur restando perplessi sulla validità dello strumento primarie, hanno deciso di andare a votare per Matteo Renzi o per Pierluigi Bersani per scongiurare la possibilità che il primo prevalesse sul secondo; o viceversa, a seconda degli orientamenti e delle sensibilità. Un voto contro, quindi, più che una convinta adesione al programma ed al modello di Paese presentato dai due candidati.
“Avvenire”: kermesse mediatica
Tra favorevoli e contrari alle primarie, accesi sostenitori di uno dei candidati, o elettori obtorto collo, l’atteggiamento che predomina nel mondo cattolico (anche progressista) è comunque quello del moderato scetticismo. O del silenzio, da opporre semmai come estrema (ma soggettiva e in ogni caso residuale) testimonianza alla grancassa di confronti televisivi all’americana, servizi, notizie, commenti, retroscena che per oltre due settimane hanno riempito palinsesti e giornali.
Sul quotidiano dei vescovi Avvenire (4/12) Marco Bertola parla di «una sbornia mediatica», «di un’astuta operazione di marketing partitico», forse addirittura «di una svolta senza ritorno nel costume politico nazionale». «Se il segnale della partecipazione è da cogliere da una sponda e dalle altre – scrive Bertola – il rischio è che si vada verso la costruzione di “eventi” ad hoc , per regalarsi e regalarci un po’ di visibilità al di fuori di rigide regolamentazioni».
Tra il primo e il secondo turno delle primarie, Il Regno, con un editoriale del suo direttore, Gianfranco Brunelli, sceglie invece di prendere apertamente posizione a sostegno di Matteo Renzi, «una figura nuova», non «riconducibile a nessuna delle due storie: né a quella comunista, né a quella democristiana»; piuttosto, «il prodotto politico dell’elezione diretta dei sindaci. Di qui – scrive Brunelli – gli deriva la forza non velleitaria di sfidare nella nomenclatura del partito la forma stessa del partito e provare a superarla dall’interno». Nella parte finale della sua nota Brunelli liquida poi come senza sostanza, oltre che senza futuro, i movimenti al centro dello schieramento, sulla scia del raduno di Todi.
Ac e Acli: un successo di partecipazione
L’associazionismo cattolico istituzionale sposa invece le primarie senza riserva. Sul portale dell’Azione Cattolica, Marco Iasevoli definisce le primarie «un successo di partecipazione, utile anche per dire, dopo tanto tempo, che la politica non è finita». Addirittura lo strumento con cui «gli elettori si sono riappropriati del diritto ad avere un’offerta politica chiara e decifrabile». Si affaccia però in Iasevoli il dubbio che la prassi delle primarie non sia propriamente in linea con il dettato costituzionale: «È vero – concede infatti – che il parlamentarismo funziona così, che il presidente del Consiglio viene designato dal presidente della Repubblica dopo le consultazioni con i partiti. Ma è vero anche che negli ultimi venti anni è entrata in vigore una prassi diversa, e che oggi, le primarie Pd lo dimostrano, i cittadini lasciano casa per andare al seggio solo se hanno la possibilità concreta di dire da chi vogliono essere governati e secondo quale linea politica. Il dibattito è aperto e complicato, ma ormai restano poche settimane per risolverlo nella chiarezza».
Dubbio, quello della correttezza istituzionale, che invece nemmeno sfiora la dirigenza dell’altra grande associazione del laicato cattolico italiano, le Acli. Il presidente Andrea Olivero, in predicato di stringere presto accordi di governo con il centrosinistra come esponente del nuovo “contenitore” di centro lanciato a Todi, non ha infatti esitato a complimentarsi con Bersani e a definire le primarie «una grande esperienza di partecipazione democratica cui molti aclisti hanno aderito con entusiasmo».
Settimanali diocesani: troppa retorica
Tra coloro che si uniscono al coro dei commenti positivi sulle primarie del centrosinistra c’è anche la gran parte dei settimanali diocesani. Per essi, la consultazione rappresenta una grande prova di democrazia e partecipazione, la testimonianza di una rinnovata volontà di giovani e meno giovani di impegnarsi attivamente in politica, la concreta possibilità di scegliere “dal basso” la propria classe dirigente. Si tratta di «buona aria fresca» e di un «motivo di speranza» per la politica, secondo don Bruno Fasani (Verona Fedele, 2/12), che non ha nascosto dalle colonne della sua rubrica delle “lettere” la sua netta preferenza per Matteo Renzi. Piace a tal punto in alcune diocesi questo strumento di consultazione che, a Vittorio Veneto, il settimanale diocesano l’Azione ha dato grande spazio all’iniziativa. E il vescovo, mons. Corrado Pizziolo, rompendo con la tradizione che vuole le parrocchie almeno formalmente estranee alle iniziative di partito, ha deciso di autorizzare i parroci a mettere a disposizione gli spazi delle parrocchie non solo per il confronto sui candidati ed i programmi, ma anche per procedere al voto. È avvenuto per il centrosinistra. Avverrà, nel caso si volgessero, anche per le primarie del centrodestra.
Non tutti i vescovi mostrano però uguale entusiasmo. Su un altro settimanale diocesano, Nuova scintilla (Chioggia, 2/12), il vescovo, mons. Adriano Tessarollo, definisce «segnale positivo la partecipazione popolare, ma per cambiare davvero – aggiunge – serve altro»: cioè, soprattutto, la modifica della legge elettorale con cui si andrà a votare in primavera.
Tra i columnist della stampa diocesana, è Paolo Pombeni (Vita trentina, 2/2), a smontare le «esagerazioni» dei media sulle primarie. A partire dai numeri: «Nelle elezioni politiche dell’aprile 2008 quell’area che oggi potrebbe confluire in gran parte nella ventilata coalizione di centrosinistra ha raccolto più di 14 milioni di voti. A votare alle primarie sono stati 3 milioni e 100mila». «Ciò detto, non si tratta di negare che una mobilitazione volontaria di quelle dimensioni sia un fatto notevolmente positivo». Sul Nostro tempo (Milano, Torino, 28/11), è un’altra storica firma, quella di Antonio Airò, a stigmatizzare «certi toni retorici ascoltati in qualche commento (specie quando senza attendere i dati ufficiali si è “sparata” la cifra di quattro milioni di elettori, vicinissima al record toccato dalla consultazione che incoronò Romano Prodi)», ma parla comunque di un «momento alto di partecipazione popolare».
Si spinge un po’ più a fondo nella critica Guido Bodrato (non a caso tra i dirigenti della sinistra democristiana che si schierarono contro il maggioritario nel 1993), che sull’Eco del Chisone (28/11) definisce le primarie un «surrogato dei congressi di partito. Anche i democratici – scrive infatti – hanno perso l’abitudine al confronto e si sono ridotti ad essere il punto di forza di cartelli elettorali». Ciononostante, «le code di fronte ai gazebo sono state un modo per reagire alla tentazione di populismo che dilaga nelle piazze e per resistere all’antipolitica che minaccia le istituzioni».
Preti di base, tra adesione e scetticismo
Anche tra i preti di base, c’è chi è andato a votare convintamente (don Franco Barbero per Bersani; don Aldo Antonelli per Vendola al primo turno, per Bersani al secondo), nel tentativo di spostare a sinistra l’asse della futura coalizione di governo. Chi, come don Paolo Farinella, è andato a votare ma senza grosse speranze per le sorti del fronte progressista in Italia (v. Adista Segni Nuovi allegato) e chi, come p. Benito Fusco, religioso servita, sulla sua pagina Facebook smonta la retorica delle primarie a partire dai numeri: rileva come «rispetto all’affluenza nelle primarie dei tempi di Prodi, sono mancati poco più di un milione di voti, poi tra il primo e il secondo turno si sono liquefatti più di mezzo milione di altri elettori». «Dunque, il Pd non solo dovrà riconquistare i suoi stessi voti/votanti, ma dovrà cominciare a capire perché la cosiddetta “società civile” si è tenuta alla larga da primarie e coinvolgimenti personali nonostante siano state, secondo il dire, “primarie di coalizione”». Infine chi, come don Giorgio De Capitani dice apertamente che non esiste «l’uomo o la donna della provvidenza. Siamo invece in balìa di ondate pazzesche di promesse e di slogan populisti: di gente comica o di gente fasulla o di gente presuntuosa».
Valerio Gigante
Da Adistaonline
http://www.adistaonline.it/?op=articolo&id=52298
IL SENSO DELLE CITAZIONI DI RONCALLI E MARTINI
La sfida in diretta tv per le primarie del centrosinistra è stata un successo: su questo non mi pare che si possano avanzare dubbi.
Si è trattato, oltre al resto, di una grande lezione di stile di cui la politica tutta aveva bisogno: ne siamo ugualmente grati ai cinque protagonisti. Si è avuta altresì la sensazione della presenza, dietro ai loro interventi, di una grande forza politica accomunante sulla quale contare, pur nelle differenti opzioni strategiche o forse anche proprio per quelle. La cultura monolitica non giova alla politica, che è sempre mediazione in atto tra il reale e l’ideale, il possibile e l’attuale. Ovviamente la presentazione dei candidati leader secondo una logica televisiva, oggi indispensabile per tutti noi che siamo la gran massa degli elettori, è in grado di offrire informazioni preziose sulla personalità di ognuno, sui tratti caratteriali e sui riferimenti programmatici essenziali; sappiamo benissimo però, o dovrebbero sapere tutti, che la politica reale è poi tutt’altra faccenda, anzitutto perché i propositi e le intenzioni sono una cosa, la loro realizzazione un’altra.
Qui l’azione del singolo leader è certamente importante, ma la sua efficacia e le sue possibilità di successo sono affidate a molte altre componenti complesse e anche problematiche. C’è per esempio bisogno di una cultura politica di fondo capace di analisi efficaci; c’è bisogno, proprio per ciò, di un intero gruppo dirigente che, sebbene diviso in molti particolari, sia coeso e collaborante nelle strategie essenziali; c’è bisogno di vedute ampie e generose di lungo percorso e di capacità tattiche per interventi ravvicinati e di immediata comprensione.
Le forze che si oppongono al cambiamento, spesso nascoste dietro la facciata della saggia moderazione, sono enormi, molto più radicate e potenti, e disposte a difendersi con ogni mezzo, di quanto l’opinione pubblica possa sapere e immaginare: una politica realmente riformista, aperta a un futuro di maggiore giustizia e di profonda rinascita economica e morale, non trarrà molto vantaggio dagli slogan e dalla incarnazione di modelli di facile presa spettacolare. Ben altra, ben altrimenti dura e complicata sarà la partita e ogni tentazione semplificatoria esibita con populistica baldanza, come accade oggi con l’antipolitica da strada, è sostanzialmente un inganno perpetrato contro il popolo degli elettori.
Proprio per questo una politica degna di questo nome dovrà coniugare la tenacia coerente e intransigente degli interventi capillari con dei modelli di governo di alto profilo e di profonda portata. In questo senso molto mi ha colpito il riferimento di Bersani a papa Giovanni XXIII e di Vendola al cardinale Martini. Il fatto che due massimi esponenti di una forza di grandi tradizioni laiche e di sinistra abbiano ravvisato un modello ispiratore in due figure della chiesa cattolica non va però equivocato.
Non si tratta, a mio avviso, di sottolineare il riferimento alla istituzione ecclesiastica o a un generico cristianesimo. Al contrario, proprio le due figure prese a riferimento incarnano agli occhi di tutti momenti di rottura con una istituzione immobilista e reazionaria, esempi di una quotidiana apertura al nuovo e all’essenziale rispetto a una tradizione inaridita, nonché il sogno di un ritorno alle origini rivoluzionarie di quella tradizione stessa. In questi riferimenti leggo l’esigenza di riportare la politica sui binari di una visione universalmente terrena e umana della vita sociale, di riconsegnarla a un ideale che ne giustifichi l’impegno, le fatiche e i pericoli reali, quando quegli ideali si traducano in azioni concrete.
È la nobiltà della politica, ben oltre le sue pur necessarie espressioni pragmatiche, a essere invocata, è la sua dedizione alla liberazione e alla tutela dei più deboli, è la sua capacità di credere in una giustizia che superi la condizione attuale, interpretando in questa luce ideale ciò che ha caratterizzato e caratterizza l’umanità tutta intera nella sua storia. Diceva Rousseau che mentre le forze della conservazione si prodigano per convincerci che il cambiamento è impossibile, l’azione politica trasformatrice ha sempre dimostrato il contrario. Tutti i modelli che aiutino a riconquistare e a confermare questa fede siano benvenuti.
Carlo Sini
Da l’Unità del 14 novembre 2012
Se Bersani si ispira a Roncalli
Per un curioso gioco delle parti, o per una pesante ironia della storia (e di Dio, a questo punto), ieri sera Pierluigi Bersani e Nichi Vendola, diciamo orientati a sinistra, hanno citato il primo Papa Giovanni XXIII e il secondo ha indicato come modello il cardinale Carlo Maria Martini. Bersani ha detto di Angelo Roncalli: “Ha fatto il primo cardinale nero della storia rassicurando tutti: sembrava che non cambiasse niente e invece cambiava tutto. Il riformista che ho apprezzato di più è Papa Giovanni, che riusciva a cambiare sul serio le cose”. L’ex giovane DC Matteo Renzi, invece, ha citato Nelson Mandela e la blogger Amina. Bruno Tabacci ha parlato di Alcide De Gasperi e Giovanni Marcora, quest’ultimo tra i fondatori della Base, la corrente di sinistra DC. Laura Puppato, invece, ha nominato Nilde Iotti e Tina Anselmi. Insomma, salvo Renzi, gli altri hanno indicato personaggi cattolici o di tale estrazione: la Iotti, laureata all’Università Cattolica, divenne atea perché non convinta delle prove secondo San Tommaso dell’esistenza di Dio, la DC Anselmi divenne il 29 luglio 1976 ministro del Lavoro nel Governo Andreotti della “non sfiducia” di Enrico Berlinguer.
BERLINGUER, RONCALLI E IL DISGELO- Ecco, Berlinguer. Fa strano non sentire da uno come Pierluigi Bersani, che nei primi anni ’80 visitava il Vietnam, neanche un accenno ad una figura gigantesca come quella dell’indimenticato segretario comunista. Ammetterete che tra Berlinguer e Giovanni XXIII c’è una bella differenza, anche se la citazione bersaniana ricorda un episodio della vita del Papa Buono. Siamo nei primi anni ’60 e Roncalli deve andare a visitare una parrocchia rossa: qualcuno lo sa e lo avverte. Il Papa va, celebra la Messa e, durante la predica se ne esce con un: “Cari figlioli, sono contento di essere qui tra voi. Mi hanno detto che qualcuno di voi ha delle idee un po’ particolari, ma ciò che conta è che siate buoni”. Era la Chiesa che passava dalla scomunica ai comunisti inflitta da Pio XII nel 1949 (e peraltro ancora in vigore) al dialogo con la figlia di Nikita Kruscev che avrebbe portato, sotto Paolo VI, all’Ostpolitik verso la Chiesa del silenzio del blocco orientale. E Aldo Moro a portare – sia pure tra le perplessità di Giovanbattista Montini – proprio i comunisti al governo nel 1978 (e sappiamo com’è andata).
IL PAPA BUONO NON ERA RIFORMISTA- Ma su una cosa Bersani sbaglia: Roncalli non fu un riformista (né, tantomeno, un rottamatore per dirla con Renzi). Fu un innovatore animato dalle migliori intenzioni che però non ebbe il tempo di strutturare il Concilio Vaticano II, partito di fatto senza un chiaro schema operativo. Ai suoi seminaristi proibiva di accettare passaggi da donne motorizzate e di andare in bicicletta, alla Chiesa chiedeva di restare fermissima nella sua fede e nei principi, ma di compiere un “aggiornamento” in grado di offrire Cristo all’uomo del XX secolo (e aggiornamento non vuol dire necessariamente riforma). Principi ciclopici che ha dovuto tradurre in atto il vero riformista (e a caro prezzo), ossia Paolo VI. Fu lui a portare a termine il Concilio dopo avergli dato una scaletta, intervenendo anche d’autorità e sottraendo all’Aula conciliare discussioni importanti come quelle su contraccezione e celibato sacerdotale (se Bersani avocasse a sé, d’autorità, un qualche tema caro al PD e ai suoi iscritti, probabilmente sarebbe attaccato da tutte le parti). Paradossalmente a Roncalli somiglia più Walter Veltroni, l’uomo del “ma anche” (solo che Giovanni XXIII era buono, anzi misericordioso come dice il suo ex segretario monsignor Loris Capovilla), deciso a includere il più possibile tutti e a cercare nel suo “ma anche” quello che unisce e non quello che divide. Solo che Roncalli avrebbe parlato anche con Silvio Berlusconi e lo avrebbe chiamato “caro figliolo” anziché “il capo del partito di maggioranza”.
VENDOLA E MARTINI- Che Nichi Vendola citi il cardinale Martini non è, invece, una novità. Si sa che è cattolico, è credente e – tra tante polemiche – anche praticante con tanto di Comunione ricevuta pubblicamente (tra le interminabili polemiche di chi ricorda che un omosessuale sessualmente attivo non può accedere alla Comunione). Certo, dopo la sua morte il cardinale è diventato – da uomo del dialogo quale è stato – un’icona della sinistra a volte radical chic, che viene citata quando conviene e a volte in maniera imprecisa pur di dare addosso alla Gerarchia ufficiale. Un giochino non sempre gradevole. Ma Vendola è una persona difficile da indicare come intellettualmente disonesta.
SORPRESA RENZI- Più aperto al dialogo Renzi, che cita guardacaso Nelson Mandela, l’apostolo della non violenza. Come dicevamo, Renzi viene dalle file della DC giovanile e quindi è anch’egli di formazione cattolica. Sorprende vederlo puntare su un simbolo sostanzialmente neutro, mentre Bersani punta su Roncalli e Vendola su Martini. Renzi potrebbe essere un magnifico missionario, apostolo di socialdemocrazia presso tanti elettori delusi dal centrodestra e spaventati da Beppe Grillo, ma chissà se riuscirà a vincere le primarie.
CONCLUSIONI- Nelle parole di Bersani, insomma, c’è un chiaro appello agli elettori cattolici disorientati. Pierluigi usa la figura del Papa buono per rassicurare tutti, mentre Vendola promette balzi in avanti puntando su Martini. Bersani si ricorda di essere da sempre in buoni rapporti con Comunione e Liberazione, Nichi vorrebbe andare oltre. Molto oltre. E Renzi… evita di mettere in mezzo figure religiose per essere laico e aperto, votabile da tutti. Un dato, però, dev’essere evidente: il segretario del PD non è certo diventato un cattocomunista. Ma viene dalla terra di Peppone e Don Camillo, dove rossi e bianchi si sono guardati in cagnesco per decenni (e sempre rispettati, in qualche modo). Forse ha capito che si può essere cattolici e progressisti senza necessariamente fare sfondoni, magari ascoltando anche il popolo delle parrocchie e tanti parroci di frontiera (abbastanza schierati a sinistra, sotto un profilo politico che ecclesiologico), non necessariamente emuli – per fare un nome – di don Andrea Gallo (che al contrario sarebbe molto più vicino a Vendola che a Bersani). O forse, più che altro, ha capito che i cattolici delusi dal PD e non intenzionati a votare Casini (o Grillo per protesta e rabbia, come nel ’92 votarono per la Lega) si possono e devono recuperare. Superando il cattocomunismo per una socialdemocrazia che abbracci una presenza, quella cattolica, in questo momento affatto ingombrante. Dio gliela mandi buona, è il caso di dirlo. Ma se ci riuscisse davvero, avrebbe fatto un miracolo. E anche questo è il caso di dire.
Antonino D’Anna
Martedì, 13 novembre 2012 – 07:49:00
http://affaritaliani.libero.it/politica/se-bersani-si-ispira-a-roncalli131112.html
UN PANTHEON SENZA BUSSOLA
Molto presto si è capito, guardando il dibattito tra i candidati alle primarie del centrosinistra, che qualcosa di essenziale mancava. Che il palcoscenico occupato dagli attori era simile a una sfera, di cui potevi ammirare o non ammirare la superficie, ma privata di centro. Non abbiamo contemplato il vuoto. Non era assente la voglia di fare politica: anche se voglia parecchio neghittosa, perché restituire alla politica l’importanza perduta implicherebbe riconoscere peccati di omissione non indifferenti, passati e presenti. La bussola c’era, nella sua sferica forma: quel che l’occhio non percepiva era il perno che fissa l’ago magnetico, e che gli dà la sua linea di forza.
Cosa dovrebbe esserci, al centro di uno schieramento che dice di battersi per una sinistra progressista? Per forza una tradizione, una storia, un tempio, meglio ancora un Pantheon che contiene le tombe dei propri uomini illustri. L’ago magnetico non può che partire da lì, altrimenti si muove impazzito in ogni sorta di direzione, senza mai segnalare con chiarezza il Nord. Quando il centro è ovunque e da nessuna parte, sostituito dalle persone che parlano agli elettori (la persona Bersani, o Vendola, o Renzi, o Tabacci, o Puppato) vuol dire che dietro la loro divina genialità – la loro maschera – non esistono genealogie né memoria storica di sé.
Il momento rivelatore di questa perdita del centro è stato quello in cui i cinque candidati hanno elencato i loro monumenti ideali, gli uomini illustri del loro Pantheon, individuale o collettivo. Alcuni erano grandiosi: Papa Giovanni ad esempio, indicato da Luigi Bersani come un uomo che seppe operare “cambiamenti profondi, ma sempre rassicurando”, mai seminando spavento. O il cardinale Martini, nominato come stella polare da Nichi Vendola. Due uomini di chiesa, cui si sono aggiunte personalità care a Renzi come Nelson Mandela e Lina, la famosa blogger tunisina.
Del tutto eclissati, nella più sorprendente delle maniere, sono d’un colpo gli uomini che della sinistra sono i veri padri fondatori, i veri aghi della bussola: compresi i padri che si sono aggiunti man mano che il progressismo italiano, senza dirlo ma nei fatti, ha cominciato una sua nuova strada, non più rivoluzionaria ma socialdemocratica. Due ecclesiastici, un eroe della lotta anti-apartheid, un blogger: è bello, ma somiglia molto a una decerebrazione. I centri nervosi del cervello vengono separati dai centri posti inferiormente, scrivono i bollettini medici: il lobotomizzato perde la capacità di movimenti volontari anche se riesce a mantenere la posizione eretta. È come se ci si vergognasse di dichiararsi eredi. Di avere alle spalle un testamento, dunque un’alleanza. Magari i candidati dicono perfino qualcosa di sinistra, ma questo qualcosa è piatto, non ha radici, fluttua come foglia sulle acque, si fa volutamente piccolo e insignificante. Come Bersani quando ha ammesso, qualche settimana fa: “Abbiamo qualche difettuccio, ma di meglio in giro non c’è”.
Tutto questo è strano e inedito, se lo paragoniamo alla coscienza di sé che le sinistre hanno generalmente in Europa. Anche quando tradiscono. Soprattutto quando tradiscono. In Germania il pensiero della sinistra, e anche dei Verdi, va automaticamente a lanterne come Willy Brandt, o a resistenti come Kurt Schumacher. In Francia ci si divide su Mitterrand, ma tanto più vivo è l’attaccamento a Léon Blum e al suo Fronte popolare, o a Jean Jaurès, o al fondatore della scuola laica che fu Jules Ferry. Non così in Italia, anche se di figure memorabili ne abbiamo anche noi.
Berlinguer ad esempio: perché Bersani, figlio del Pci, salta un dirigente che vide con acume e sgomento, nell’81 parlando con Eugenio Scalfari, la trappola del consociativismo e del compromesso storico da lui stesso congegnata? “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali”.
Fu un grido di rivolta contro il proprio partito, un presentimento di possibili vie d’uscita. Un grido tuttora inascoltato, se solo consideriamo l’atteggiamento corrivo che i suoi eredi hanno avuto per quasi vent’anni verso Berlusconi. Il modello, sconfessato o tradito, si fa imbarazzante. Da questo punto di vista Bruno Tabacci è apparso il più libero di complessi: i suoi esempi – De Gasperi innanzitutto, su Marcora i dubbi sono leciti – hanno radici inconfutabili nella storia del cattolicesimo politico italiano.
Imbarazzo e vergogna di sé (anche Vendola ne è affetto) spiegano l’omissione di altri antenati, che assieme alla sinistra hanno lottato contro le degenerazioni economiche e le corruttele italiane: non appartenenti al Pci ma a formazioni come il Partito d’Azione o il socialismo. Sono tanti. Ma quando si perde il centro precipitano nell’oblio le vette di preveggenza e saggezza che furono Piero Calamandrei, Vittorio Foa, Federico Caffè, Sylos Labini. O, fortunatamente citata da Laura Puppato: Tina Anselmi, cancellata perché fece piena luce, troppa probabilmente, sulle trame della P2. Data addirittura per defunta dal giornalista Vittorio Feltri, recentemente davanti a una platea televisiva muta, egualmente decerebrata. In Italia evidentemente si muore anche da vivi. È la nostra specialità cinica e crudele. Leopardi la chiamava la nostra incompatibilità con gli slanci, i dolori, le speranze delle epoche romantiche vissute da altre nazioni europee.
Nel Pantheon sostitutivo ci sono due stranieri, come Mandela e la blogger Lina Ben Mhenni. Anche questo è bello e nobile, perché ci fa uscire dalla provincia. Ma la sinistra quando esce dalla provincia percorre grandi distanze, ha sogni di esotismo, e in questo Renzi è apparso più di altri vecchio. Se avesse citato Che Guevara sarebbe stato la stessa cosa. Perdere il centro vuol dire non far spazio all’Europa, e correre molto lontano restando qui, inchiodati dentro casa e nel presente. Vuol dire lasciare nel buio personaggi come Albert Camus, subito europeista dopo la guerra. O William Beveridge, ideatore di un piano del Welfare che dall’Inghilterra trasmigrò presto nel continente liberato: era un liberale profondamente influenzato dal socialismo della Fabian society, e militò con convinzione per l’unificazione dell’Europa.
Beveridge è punto di riferimento ineludibile per chiunque voglia resuscitare lo spirito di Ventotene (Vendola l’ha evocato, dunque vorrebbe forse riesumarlo) sapendo che l’idea d’Europa nacque in piena guerra fratricida dando al futuro tre obiettivi fondamentali: la federazione del continente, la democrazia, e lo Stato sociale.
Infine mancano riferimenti laici, accanto a quelli religiosi: come Ernesto Rossi, collocato oggi in un Pantheon per pochi aficionados, nonostante l’attualità delle sue battaglie europeiste e laiche. Assenti anche i martiri dell’antimafia, e tanti altri che non enumero solo perché lo spazio non basta.
Perdere il centro non significa naturalmente perdere le elezioni. Ma perdere la bussola sì, e con essa la memoria e la capacità di cercare, se non trovare, il Nord. Significa entrare nel futuro con tali e tanti complessi, tali e tante cautele, che il passo si fa claudicante. Mai spavaldo, come in chi discende da una lunga storia e pur facendo i conti con essa non si sente obbligato a dimenticarla.
Barbara Spinelli
Da La Repubblica (14 novembre 2012)
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