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Il 25 novembre, la zia Franca e la bicicletta

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di Luigi Menna

 

Di “femminicidio” si parla esplicitamente in Italia solo da qualche anno. La violenza sulle donne è un fenomeno agghiacciante e spesso più vicino di quanto si possa pensare.

Violenza, poi, è una parola il cui significato non ha margini ben definiti.

Chiunque si sia minimamente avvicinato alla pratica della nonviolenza è in grado di riconoscerla in molti dei propri atteggiamenti comuni.

Proprio in questi giorni, mentre si parla un po’ di più di violenza sulle donne, mi capita di ricordare la mia zia Franca, sorella della mia nonna materna.

L’ho conosciuta? Un po’. Dai racconti di mia madre. Era la sua zia preferita.

Non si era sposata la zia Franca. Mia nonna, sua sorella, la più saggia, la stigmatizzava così: un temperamento troppo focoso.

 

Probabilmente focoso dovette essere il padre, il mio bisnonno: pur essendo benestante, trovò il coraggio di andare in America e viverci da solo, lasciando moglie e cinque figli, per tornare anni dopo ancora più ricco. Così ricco che – come mi raccontava mia nonna con orgoglio – poterono comprarsi la casa del più mafioso del paese. Ancora me la ricordo quella casa. Tre piani, una cantina piena di botti di vino grandi e piccole. Affreschi ai soffitti, mobili di una fattura tale che oggi li vedo solo nei musei. Nei miei ricordi da bambino, le poche volte che andavo a trovarla, rimanevo sempre intimidito da quella zia sola in quella gigantesca casa piena di scale.

Ricordo che ad ogni figlia avevano insegnato a suonare un diverso strumento musicale. A lei era toccato il mandolino, troppo popolare, a suo dire, rispetto al violino della sorella. Quindi, dopo averlo studiato, lo seppellì in una bellissima vetrinetta del suo bellissimo salotto.

Io la ricordo già molto anziana ma con dei folti capelli nerissimi come gli occhiali dalla pesante montatura e i vestiti perennemente a lutto.

Viveva in un paese dell’entroterra siciliano piccolo e provinciale, la zia Franca. Così provinciale che le stava stretto, mentre lei, pur signorina, anelava alla vita della città. A Palermo ha abitato qualche anno ed ha provato a viverla come se fosse capitale moderna ed europea proprio durante quegli anni ’60 che facevano sperare tanto.

Ma la zia Franca era una testa calda.

E se si ha la testa calda non c’è capitale che tenga. Non poteva che essere così: Palermo non poteva soddisfare la sua voglia di vivere, troppo provinciale anche lei. La bicicletta, guarda un po’, la convinse che la città non era degna di accoglierla: quel giorno, infatti, dirigendosi verso il suo posto di lavoro (lavorava la zia Franca, voleva essere indipendente lei), i maschietti del paese, evidentemente ritenendo la vista di una donna in bici insopportabile, la presero a colpi di pomodoro.

La zia Franca abbandonò il suo moderno appartamento nel centro della città e tornò a vivere, anzi a sopravvivere, ormai sola, nel suo grande palazzo in paese.

 Proprio così. Negli anni ‘60, a Palermo, una donna fu presa a colpi di pomodoro, in strada, davanti a tutti.

La notizia, ovviamente, non fu mai riportata da alcun giornale. Al più, la si può considerare un aneddoto curioso.

In realtà, credo, la lotta per i diritti delle donne è passata anche da zia Franca in bicicletta.

 

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