di Giorgio Chinnici
Il termine bullismo si è ormai affermato, a livello mondiale, per designare comportamenti assai diffusi, soprattutto in ambito scolastico, che vanno da forme varie di inciviltà fino a violenze fisiche e psicologiche che, a volte, producono vere e proprie estorsioni.
All’interno della popolazione scolastica si costituiscono gruppi di ragazzini, adolescenti e giovani, che vessano loro coetanei i quali vengono relegati nel ruolo di vittime. Queste subiscono un carico di sofferenze che producono effetti devastanti che, in non pochi casi, conducono al suicidio. Sono stati proprio alcuni casi di suicidi verificatisi nelle scuole norvegesi che hanno attirato l’attenzione di Dan Olweus che, nei primi anni del 1970, avviò ricerche sul bullismo imponendo con forza l’attenzione al fenomeno.
L’appello è stato accolto dalla conferenza di Utrecht del 1997 che ha sollecitato gli Stati dell’Unione Europea a indagare con sistematicità il fenomeno dell’antisocialità nelle scuole al fine di approntare efficaci politiche preventive. Per l’Italia può dirsi che si è dato buon riscontro alle raccomandazioni della conferenza di Utrecht: lo documentano le numerose ricerche sul tema e la designazione del termine bullismo per connotare i comportamenti in questione. A suffragare ciò sta l’acquisizione del lemma bullismo nell’edizione del 2004 del dizionario Devoto-Oli, non riportato nell’edizione del 1995. Gli autori infatti adottano il criterio secondo cui “i neologismi per entrare nel dizionario non devono risultare effimeri ma avere dignità e durevolezza. Cioè a dire che in esso deve confluire quanto si è stabilito o viene in ogni modo considerato significativo della novità della lingua, novità da considerare come traduzione fonetica di una nuova realtà”.
Con riferimento ai mass-media, va detto che l’inflazione di articoli su giornali e rotocalchi e di servizi televisivi sul bullismo determina un rimbombo informativo che distorce le dimensioni quantitative e qualitative del fenomeno e ne appanna l”effettiva configurazione. Ciò perché nell’immaginario collettivo si pongono e si fissano, in modo selettivo, gli aspetti più sensazionali ed emozionali delle narrazioni. Aspetti questi che concorrono alla rappresentazione dei profili personologici, sempre più scarnificati, del bullo e della vittima quali elementi di una diade avulsa dal suo più ampio tessuto relazionale, culturale e sociale. Tale diade si configura così, come entità chiusa, all’interno della quale si instaura un conflitto, privo di spazi di mediazione, la cui soluzione identifica, in maniera netta, un vincente e un perdente.
Le ricerche di Ada Fonzi hanno messo in evidenza che in Italia il tasso di bullismo supera quello della media europea. In considerazione di ciò riveste carattere di urgenza la predisposizione di interventi volti a fare recuperare alla scuola la funzione di formazione, cioè a fare introiettare dagli allievi valori che orientino al rispetto dell’altro, alla convivenza pacifica, alla solidarietà, alla legalità, all’impegno prosociale più ampio nonchè al bando di ogni forma di violenza. Rispetto a questi valori i bulli si collocano agli antipodi.
Il fenomeno del bullismo affonda le sue radici nei “fondali” dell’animo umano, per cui si manifesta nel tempo con modalità peculiari.
Nel 1886 De Amicis, nel libro “Cuore” descrive un bullo ante litteram, Franti, che concentra in sé i disvalori distintivi del prepotente: violento, prevaricatore dei più deboli e deboli con i forti, privo di empatia, sprezzante dei valori fondamentali per la convivenza civile.
Le indagini scientifiche condotte da molti ricercatori in diversi stati del mondo mettono in evidenza che il bullo di oggi conserva, in tutte le latitudini, i tratti fondamentali della rappresentazione deamicisiana.
Ciò rivela che la violenza ha una persistenza tenace quale tratto distintivo della natura umana, che ha una latenza costante nei singoli individui, quale nucleo di un residuo ancestrale che emerge in configurazioni modellate dalla impalcatura educativa del vissuto di ognuno. La violenza infatti induce nella collettività risonanze diversificate strettamente connesse a caratteristiche individuali e di gruppo, che determinano un sentire caleidoscopico e ambiguo che accosta e confonde compassione, pietà, disgusto, sdegno, nonché piaceri inconfessabili, voluptas spectandi, euforia e gradi diversi di fascinazione. Questi atteggiamenti che si riferiscono alla violenza grossolana, fisica, si iscrivono nel più ampio contesto di una cultura che – come dice Ferrarotti – “stimola, giustifica, estetizza la violenza” e che, al tempo stesso, determina percorsi psicologici che vanno dalla distruttività estatica al sadismo, fino all’estremismo di Nietzsche secondo cui “veder soffrire piace, far soffrire piace ancor di più”. A suffragare questa visione, stanno tanti episodi di cronaca. Qui riportiamo l’episodio riferito da Olwes, pioniere delle ricerche sul bullismo, in cui si riconnettono le violenze e il vissuto di Gilles de Rais e quelle della camera della tortura mafiosa. Il bravo ragazzo Johnny viene usato come “giocattolo umano” dai suoi compagni di classe: lo tormentavano, gli rubavano i soldi, lo costringevano a mangiare e a bere latte misto a detersivo, lo picchiavano, gli legavano le stringhe al collo e lo conducevano come un cagnolino.
Interrogati sul perchè di quelle violenze inflitte al loro compagno, di certo all’oscuro della visione di Nietzsche, risposero, in piena consonanza con il filosofo “perché la cosa era divertente”. Dalle ricerche a livello internazionale risulta che il 60% dei bulli, entro il 24° anno di età, ha subito procedimenti penali per reati di un certo rilievo. Ciò rivela una stretta correlazione tra bullismo e criminalità: il bullismo po’ pertanto assumersi come predittore ad alta probabilità di criminalità. Di conseguenza i bulli che insistono su aree ad alto tasso di criminalità mafiosa avranno un percorso da questa segnata in misura considerevole. In atto non si dispone di ricerche che diano indicazioni in proposito, pertanto si può solo avanzare l’ipotesi del legame. A sostegno di questa ipotesi si pone la condotta del bullo che si muove lungo le linee iniziali del mafioso: il bullo cioè si configura come un mafioso in nuce. Egli infatti assume come ingrediente fondamentale e risolutore la violenza agita o esibita. Con ciò riesce a prevaricare i suoi bersagli con microestorsioni, domina il territorio, piegando al suo volere il tessuto umano che lo circonda, imponendo a chi osserva di collaborare oppure di osservare la legge del silenzio, cioè di essere omertoso. Poiché il bullo vive un ruolo di dominatore, alla fine viene percepito come vincente, sicchè egli acquista particolare appeal che agisce da catalizzatore per coagulare intorno a sé un’area grigia che sortisce aggregazione e sostegno.
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