N
ella triste vicenda del piccolo Charlie Gard, tutti i soggetti coinvolti, e cioè i medici e i giudici da un lato, i genitori dall’altro, sono certamente in buona fede. Sia gli uni sia gli altri hanno a cuore il bene del bambino, anche se hanno idee diverse su quale sia questo “bene”. Per i medici e i giudici proseguire la terapia che tiene in vita il piccolo è una forma di accanimento terapeutico, per cui sarebbe meglio lasciarlo morire. I genitori, al contrario, non vogliono che al loro bambino sia interrotta la ventilazione assistita, e sperano persino di poterlo curare grazie a una terapia sperimentale, disponibile negli Stati Uniti. In situazioni complesse, in cui non è facile capire chi ha davvero ragione, e dunque qual è il “vero” bene di un bambino, quale giudizio dovrebbe prevalere? Quello di un organismo statale o quello dei genitori?
Il superiore interesse del minore, certamente, può giustificare l’intervento di un pubblico potere anche contro la volontà dei genitori. Si pensi alle trasfusioni di sangue che il giudice impone a beneficio del minore, nonostante il parere contrario dei genitori testimoni di Geova. Se il giudice non intervenisse, infatti, il bambino morirebbe, subirebbe cioè un danno innegabile ed evidente. Nel caso di Charlie, però, non è altrettanto innegabile ed evidente che mantenere la ventilazione assistita, e persino tentare la terapia sperimentale, sia contro l’interesse del bambino.
La decisione dei medici, e poi dei giudici, si basa sulla previsione che Charlie, nonostante le misure di terapia intensiva a cui è attualmente sottoposto, morirà presto. Per risparmiargli ulteriori sofferenze, dunque, sarebbe giusto interrompere il trattamento e lasciarlo morire in pace. Va però detto che i genitori sarebbero i primi ad accettare di interrompere il trattamento se questo facesse soffrire il loro bambino. Ma evidentemente non è così, come dimostra il fatto che nelle relazioni mediche e nelle sentenze dei giudici il riferimento alle sofferenze del bambino è sempre rivolto al futuro. Se si mantiene il trattamento, si dice, il bambino andrà incontro a sofferenze. C’è accanimento terapeutico, tuttavia, non quando si prevede che il trattamento provocherà più sofferenze che benefici, ma quando le provoca sul momento. Non avrebbe senso sospendere un trattamento di dialisi in previsione del fatto che il paziente, con l’aggravarsi della sua patologia, andrà incontro a sofferenze.
Non solo la previsione di eventuali sofferenze, ma anche l’imminenza della morte non è un motivo per considerare “accanimento” una terapia di sostegno vitale. Altrimenti anche una terapia antibiotica somministrata a un malato terminale dovrebbe essere “accanimento terapeutico”, visto che ritarderebbe una morte comunque imminente. Né si può dire che una terapia è “accanimento” perché è “inutile” ai fini della guarigione. Anche la dialisi non guarisce l’insufficienza renale, limitandosi a “prolungare” la vita del paziente. Nessuno, tuttavia, direbbe che la dialisi è una forma di accanimento terapeutico. Perché nel caso di Charlie le cose dovrebbero andare diversamente? Perché il prolungamento della vita di Charlie è accanimento terapeutico, mentre quello della vita di qualunque altro paziente non lo è?
Si definisce “accanimento terapeutico” un trattamento che provoca al paziente più disagi e sofferenze che non benefici. In questa definizione i parametri per stabilire “costi” e “benefici” sono non soltanto medici, ma anche psicologici, esistenziali, morali ecc. Per stabilire quando ci troviamo di fronte a un caso di accanimento terapeutico c’è dunque bisogno di una valutazione del medico, indubbiamente, ma anche dei pazienti o, in caso di incapaci o di minori, dei loro rappresentanti legali. Giuridicamente, infatti, il consenso o il dissenso del legittimo rappresentante legale coincide con quello del soggetto rappresentato. Un paziente terminale adulto e competente che fosse sottoposto a un trattamento di ventilazione assistita che i medici considerano ormai futile, può, a proprie spese, lasciare l’ospedale e recarsi altrove, o per morire a casa propria, o per tentare una terapia sperimentale. Il giudizio medico che questo non sarebbe nel “best interest” del paziente non conterebbe giuridicamente nulla. È il paziente che decide, visto che le conseguenze di qualunque decisione, qui, ricadono sulla sua pelle, non su quella dei medici. Né ai medici sarebbe richiesto di “fare” qualcosa che essi non ritengono giusto, dal momento che qui si tratta solo di “lasciare andare” il paziente, che si assume intera la responsabilità della propria scelta.
Da questo punto di vista i medici di Londra, per quanto ben intenzionati, sembrano aver dimenticato che è ormai tramontata l’epoca del paternalismo medico, in cui cioè il medico era l’unico a poter stabilire quale fosse il vero bene del paziente, proprio come fa un padre con i figli. Qui, però, il paziente un padre e una madre già li ha, e sono loro, e non i medici, che devono decidere cosa fare una volta informati sugli aspetti clinici della situazione. I medici possono insomma stabilire che il trattamento medico somministrato a Charlie è inefficace ai fini della guarigione, ma non possono imporre la loro decisione di sospenderlo se i genitori, che sono i rappresentanti legali del bambino, vogliono portarselo altrove a farlo curare a proprie spese, esonerando, così, il sistema pubblico dai costi della loro decisione. Sarebbe come se una donna che vuole interrompere la gravidanza venisse posta dai medici obiettori sotto “sequestro” sanitario in un reparto di IVG, per impedirle di andare ad abortire in un altro ospedale.
In realtà, come spesso accade in casi simili, un trattamento medico che mantiene in vita un paziente senza poterlo però guarire è considerato “utile” o “inutile” in relazione al tipo di vita che consente di prolungare. Se la vita in questione ha uno standard accettabile di qualità, allora il trattamento è considerato “utile”; se invece il tipo di vita che la terapia mantiene non ha le qualità richieste, allora il trattamento è classificato come “inutile”. Il che però impone un dovere di onestà: i medici che dichiarano “inutile” la ventilazione assistita per Charlie ma non quella per altri pazienti, stanno in realtà dicendo che la vita di Charlie, diversamente da quella di altri pazienti, non è degna di essere vissuta.
Ora, l’opinione che la vita di Charlie non è degna di essere vissuta non è, come purtroppo spesso si dice, frutto di chissà quale “nazismo” di medici spietati e di giudici insensibili. È molto più ragionevole presumere che tutti gli attori di questa vicenda abbiano a cuore il bene del povero Charlie, e siano dunque in assoluta buona fede. Si può dunque dire che la vita di Charlie non è degna di essere vissuta, senza con ciò sentirsi dire di non essere a favore della vita ma della morte, nazisti, disumani ecc. Ciò che però non si può fare è spacciare per “medico” quello che è in realtà un giudizio “etico”, che dunque i medici (e i giudici) esprimono in quanto uomini, non in quanto medici (e giudici). La loro opinione che per Charlie sarebbe meglio morire, in tal senso, non può vantare alcuna superiore autorevolezza rispetto all’opinione contraria dei genitori del bambino, che non può essere sbrigativamente liquidata come sentimentalismo frutto dell’ignoranza di “non addetti ai lavori”. Anzi, è probabile che i genitori, in questa vicenda umanamente drammatica, vedano ciò che invece sfugge agli estranei in camice bianco e in toga. Se questi ultimi parlano di “accanimento terapeutico”, lo fanno perché non hanno, su Charlie, lo stesso sguardo che hanno i suoi genitori. Dove i genitori vedono “Charlie”, e cioè qualcuno che amano e che non vogliono perdere, essi vedono “sofferenza”, ovvero qualcosa che non dovrebbe esserci. E non certo perché, repetita iuvant, medici e giudici siano cinicamente insensibili, ma solo perché, oggettivamente, sono privi di quella compartecipazione affettiva che consente di vedere una persona lì dove altri vedono solo nuda vita biologica.
Si può ammettere, come dicevamo all’inizio, che il caso rimanga controverso e di non facile e univoca soluzione. In dubio pro vita, si potrebbe allora dire. Se non per il viaggio negli Usa, almeno per la decisione di non sospendere la ventilazione assistita. Può darsi che la terapia sperimentale si riveli più dannosa che benefica. Ma è certo che questo lo si potrà scoprire solo tentandola. E, in ogni caso, si potrà anche decidere di rinunciarvi, senza che ciò comporti la rimozione della ventilazione assistita, sin quando questa consentirà di mantenere in vita il bambino senza imporgli disagi e sofferenze. Una cosa è decidere se e quando un bambino deve morire, altra cosa è accettare la sua morte, quando arriverà, facendosi così compagni del suo destino. Pronti, sempre, a interrompere la terapia lì dove complicazioni ulteriori dovessero trasformare in una tortura quello che ora è un sostegno vitale.
Profetizzando il futuro, invece, medici e giudici vorrebbero chiudere subito la faccenda, dimenticando che, fino a quando il trattamento è proporzionato alle esigenze biologiche dell’organismo (come una ventilazione che ossigena polmoni incapaci di respirazione), interromperlo significa non già accettare la morte, ma provocarla. E questo perché la nostra cultura attivista non sopporta che vi siano ancora eventi sottratti al nostro controllo: se la morte non può essere più evitata, dobbiamo almeno anticiparla. Ci illudiamo così di poterla esorcizzare. Tentazione a cui è esposto soprattutto il medico, a cui non piace rassegnarsi di fronte a eventi che non dipendono da lui, e che vuole sempre poter dire che la vicenda si è conclusa grazie a qualcosa che ha “fatto” lui. I genitori, invece, sanno che Charlie è venuto al mondo come una persona, non come una coltura cellulare di cui siamo noi ad accendere e spegnere la vita. Per questo non si rassegnano, e aspettano che sia il loro bambino ad andarsene, con la stessa libertà con cui è arrivato.
(versione aggiornata dall’Autore il 07/07)
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