È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi […] ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello.
Pascoli scrisse questo breve saggio di poetica – di cui qui riportiamo solo qualche passaggio iniziale dei 20 capitoli – nel 1907. Voleva esprimere la sua concezione della poesia e scelse la metafora del fanciullino per individuare le modalità con cui il sentimento poetico presente in ogni uomo è capace di leggere il mondo. Non si tratta di un approccio ingenuo e, appunto, “fanciullesco” al tema trattato. Si tratta invece, a mio parere, di una serie di considerazioni che apre orizzonti formativi estremamente interessanti e forse particolarmente attuali in tempi, come ha scritto qualcuno, di “analfabetismo emotivo” generalizzato.
L’impostazione è chiara. Quel modo di vedere e sentire le cose che ciascuno di noi ha sperimentato durante la sua fanciullezza non viene soppiantato mai del tutto. Quel fanciullo nel tempo della vita confonde la sua voce con la nostra, e tale condizione crea come una sorta di dialettica interiore tra i due “Io” chiamati a convivere. I ragazzi sarebbero in una condizione ancora diversa da chi sta spiegando loro queste cose, perché, come ben riconosce lo scrittore, il giovane in vero di rado e fuggevolmente si trattiene col fanciullo; ché ne sdegna la conversazione, come chi si vergogni d’un passato ancor troppo recente. Credo di poter dire che la questione purtroppo non riguarda soltanto il giovane.
Incrociare le considerazioni del Pascoli con la condizione giovanile significa aiutare i giovani a comprendere che la transizione verso l’età adulta va accompagnata da una riflessione seria su quel che si lascia e quel che si conserva. Sappiamo che molto spesso – ricordiamo tutti la tematica dei “bamboccioni” introdotta da un recente Ministro – i giovani mantengono una certa incapacità di diventare adulti e di assumersi le responsabilità che la vita adulta comporta. Finiscono in altri termini per mantenere una fanciullezza che i grandi finiscono per giudicare inopportuna. Per converso curiosamente è come se volessero perdere precocemente proprio l’antica serena meraviglia di cui parla il nostro Autore. Non raramente ci si imbatte in classe in atteggiamenti disincantati quando non addirittura cinici, come di chi non ha nulla di cui stupirsi perché nulla può colpire la sua emozione e la sua immaginazione. Apatia.
Ma Pascoli ci permette probabilmente di riequilibrare queste permanenze attardate di infantilismo e questi abbandoni precoci dello sguardo infantile. Un riequilibrio tanto più necessario quanto più il mondo social con cui tutti traffichiamo quotidianamente sembra creare una sorta di ingorgo dell’esperienza visiva e uditiva, surrogando in molti casi quella tattile e reale. Il fanciullino che è in noi finisce per non stupirsi più di niente e per costruirsi una corazza emotiva che lo fa accedere al mondo con occhi stanchi e disincantati. Ma rimane, come si suol dire, immaturo.
Occhi che non vedono più, per usare le parole del Pascoli, il quale si dichiara convinto che in tutti vi è la possibilità di recuperare il contatto con la propria capacità emotiva profonda. Gli studi sull’intelligenza emotiva hanno molto da dire su questo processo di recupero, la cui posta in gioco è molto seria. Più di un secolo fa Pascoli indicava nella “miseria” e nella “solitudine” l’approdo dell’incapacità di ritornare in contatto con le proprie emozioni, ed è difficile non dargli ragione. Dal punto di vista educativo, peraltro, questa dimensione apre a scenari sociali e politici molto seri, se si considera quanto l’Autore va argomentando: non gli uomini si sentono fratelli tra loro, essi che crescono diversi e diversamente si armano, ma tutti si armano, per la battaglia della vita; sì i fanciulli che sono in loro, i quali, per ogni poco d’agio e di tregua che sia data, si corrono incontro, e si abbracciano e giocano. Un passaggio che arieggia analoghe considerazioni fatte da Leopardi nella sua Ginestra.
Gli uomini si fanno la guerra quando i fanciulli che vivono in loro si corrono incontro, si abbracciano e giocano. Di grande suggestione dal punto di vista formativo. Attorno a considerazioni di questo genere è possibile coagulare, a parte il già citato Pascoli, tutte le maschere pirandelliane o sveviane con le quali l’uomo ama rivestire il proprio fanciullino, o comunque la propria dimensione autentica. Anche l’esempio manzoniano della conversione dell’Innominato rievoca proprio questo spazio di riflessione.
In tempi di competenze di cittadinanza, mi pare di scorgere tra le righe di questo testo la possibilità di una “competenza emotiva” cui potrebbero concorrere seriamente il mondo della scuola ed il mondo degli adulti. A patto però che anche questi ultimi siano stati capaci di riprodurre in se stessi il movimento interiore di contatto con se stessi che qui si è cercato sommariamente di delineare.
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