di Sabrina Corsello
Non c’è giorno che passi in cui, in un modo o in un altro, non facciamo i conti con la pesante situazione economica che sta vivendo il nostro Paese. La parola crisi è ormai di routine nei nostri discorsi abituali e di continuo ci giungono notizie allarmanti e preoccupanti. Come sappiamo, quelli che più di tutti stanno pagando le spese di questa situazione sono i giovani in cerca di lavoro. Il tasso di disoccupazione giovanile nazionale registrato ad ottobre 2013 è del 41,2%, nel Mezzogiorno si avvicina al 50% e in Sicilia raggiunge il 55,5%. Inoltre ben 1 milione e 273 mila giovani, nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni, non sono impegnati in attività lavorativa, né inseriti in un percorso scolastico o formativo. Si conta inoltre che, negli ultimi sei anni, in Italia sono state chiuse ben 32.000 imprese di piccole e medie dimensioni. Secondo Confindustria si paventa un dimezzamento del nostro potenziale di crescita ed è evidente che il Paese è in debito di ossigeno imprenditoriale (Piero Formica, Il Sole 24 Ore 27/1/2014)
Questi i dati statistici resi noti al terzo incontro del master formativo Genitori figli, dal titolo “Quale futuro per i nostri figli. Nuovi modelli di imprenditorialità nascono in famiglia” relatore il dott. Vincenzo Tumminello, responsabile del settore pubblico e dei rapporti con il territorio Sicilia di Unicredit, il quale ci ha aiutato con la sua analisi a leggere e a valutare i dati emersi e a comprenderne il significato.
Ci stiamo sempre più abituando a considerare ovvia e scontata l’idea che un giorno, prima o poi, i nostri figli dovranno lasciare la loro città per andare alla ricerca di quelle opportunità che, specie qui nel Meridione, sembrano ormai inesistenti. Ma è proprio così? Davvero i nostri figli qui non hanno alcuna speranza di farcela e dobbiamo, quindi, rassegnarci a considerare i giovani di oggi come i nuovi emigranti?
Per quanto riguarda la situazione dell’economia siciliana, il primo elemento importante che emerge dall’analisi proposta è che questa sia fortemente dipendente dalla politica, se non altro perché essa si attiva prevalentemente a partire da aiuti pubblici. Questo dato segnala, di fatto, la mancanza d una vera e propria mentalità imprenditoriale la quale è tale nella misura in cui essa sia in grado di attivarsi partendo dalla creatività, dall’idea imprenditoriale che sappia fare i conti con le leggi del mercato, prima ancora che con quelle della politica. In realtà ciò che dunque manca è un humus culturale atto a favorire la diffusione dell’imprenditorialità come mentalità, ben al di là della logica di profitto fine a se stesso. Stiamo cioè parlando della promozione di una cultura capace di sostenere e promuovere, specialmente nelle nuove generazioni, il gusto della creatività in ogni campo, compreso quello economico.
Tale obiettivo certamente richiede interventi programmatici atti a sostenere concretamente l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. A tal fine, recentemente, anche il Consiglio dell’unione europea ha preso una serie di iniziative comunitarie a sostegno dei giovani e con una Raccomandazione del 22 aprile 2013 ha istituito le Youth Guarantee , ossia il “Piano Garanzia per i Giovani” con il quale si raccomanda agli Stati membri “di garantire che tutti i giovani di età inferiore a 25 anni, ricevano un’offerta qualitativamente valida di lavoro, proseguimento degli studi, apprendistato o tirocinio, entro un periodo di 4 mesi dall’inizio della disoccupazione o dall’uscita dal sistema d’istruzione formale”. Per prendere visione ed essere informati sul piano di attuazione italiano utili i seguenti link: www.cliclavoro.gov.it e www.garanziagiovani.gov.it
La promozione di una cultura imprenditoriale passa dunque dalla previa costruzione di orizzonti di speranza e dal rilancio della fiducia nei giovani,ormai troppo spesso privi di punti di riferimento, disorientati e smarriti. I ragazzi oggi crescono e si formano in un clima di paura, in un contesto in cui la parola futuro è divenuta sinonimo di incertezza e ciò in quanto del loro futuro semplicemente non c’è nessuno che sembra sia in grado di parlare, nessuno che sappia raccontarglielo, né la famiglia, né la scuola, né tanto meno la televisione. In una situazione così demotivante c’è poco spazio per la libera iniziativa e l’unica ricerca possibile appare quella della sicurezza che, inevitabilmente, porta solo a cercare di emulare, per quanto possibile, quanto appreso dal modello genitoriale di riferimento. Ed è così che essi si trovano ad individuare come unica possibile via d’uscita quella di sperare di potersi realizzare negli stessi lavori dei loro padri o addirittura dei loro nonni, senza tener conto del rapido e continuo cambiamento della società e del mercato del lavoro in cui vivono. Così si trovano ad esempio a pensare che il mestiere di artigiano o di agricoltore, di fatto oggi in grande rilancio, sia un mestiere del passato, o che quello di imprenditore sia riservato solo alle grandi e ricche famiglie.
Davanti a questa situazione, è chiaro allora che la possibilità che sorgano nuovi modelli di imprenditorialità potrà essere determinata solo attraverso la promozione di una vasta operazione culturale che vede come protagonisti le famiglie, la scuola, l’università e ogni altro ambito formativo, capace di mettere in gioco sinergie in vista della formazione della consapevolezza che solo l’uso creativo delle competenze e la valorizzazione dei propri talenti potrà offrire grandi opportunità per il futuro. Si tratterà allora di promuovere una cultura dell’iniziativa, di stimolare il gusto della creatività, o meglio dell’uso creativo delle competenze. Importantissimo a tal fine l’apporto educativo e formativo dell’ecosistema famiglia-scuola-contesto il quale, sin dall’infanzia, dovrebbe assumere il compito di valorizzare i talenti ed incoraggiare i bambini ad aver fiducia in se stessi, obiettivi questi assolutamente prioritari ed indispensabili per la promozione di atteggiamenti imprenditoriali. Se da un lato è la famiglia che ha un ruolo fondamentale nel fare emergere attitudini e passioni sin dall’infanzia, dall’altro è la scuola che ha il compito di sollecitare l’interesse e stimolare la creatività attraverso la realizzazione di attività, programmi e iniziative volte a favorire la diffusione di una cultura dell’innovazione e dell’imprenditorialità.
Solo attraverso una promozione sistematica di tali elementi sarà dunque possibile trovare un modo per vincere la tentazione di arrendersi e andare via. A questo proposito risultano illuminanti le parole di un giovane imprenditore siciliano, Mario Tulone: “I giovani se ne vanno tutti perché qui non c’è niente. In parte vero se vuoi fare il dipendente. Assolutamente falso se vuoi provare a fare qualche cosa tua. Perché qui c’è tanto da fare”
Occorre quindi che si scopra nella flessibilità la creatività e che si traduca l’incertezza nell’imprenditorialità, per operare il salto dalla ricerca del lavoro alla costruzione del lavoro. Come ha detto Ban Ki Moon (Segretario generale delle nazioni Unite ONU) ”Occorre spostarsi dalle politiche di creazione di posti di lavoro verso le politiche che sostengono i giovani nell’inventarsi nuovi lavori”. L’alea, ossia il rischio, caratteristica prima e distintiva dell’impresa, non si riferisce dunque soltanto al rischio che il mercato in quanto tale comporta, ma oggi andrebbe ridefinito come capacità di mettersi in gioco dando fiducia alle proprie idee, esplorando ambiti sconosciuti, prefigurandosi nuovi orizzonti.
In questo contesto, forse più che in ogni altro, viene fuori il grande dilemma di ogni educatore, combattuto dalla necessità di garantire sicurezza al proprio educando, favorendo al tempo stesso le condizioni di una sana crescita, che non può essere tale se non si manifesta in termini di autonomia. Una guida preziosa ci giunge, a questo proposito, dalle parole di Papa Francesco, che ben sintetizzano l’obiettivo e la complessità del difficile compito: ” Nell’educare c’è un equilibrio da tenere, bilanciare bene i passi: un passo fermo sulla cornice della sicurezza, ma l’altro andando nella zona di rischio. Quando quel rischio diventa sicurezza, l’altro passo cerca un’altra zona di rischio. Non si può educare solo nella zona di sicurezza: no. Questo è impedire che le personalità crescano. Ma neppure si può educare soltanto nella zona di rischio: questo è troppo pericoloso. Questo bilanciamento dei passi, ricordatelo bene.”
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