di Giuseppe Savagnone
Le prime pagine dei quotidiani e i notiziari di radio e televisioni sono stati pieni, in questi giorni, di allarmanti resoconti sull’andamento delle borse. Le perdite, di cui questo tragico bollettino di guerra dà giornalmente notizia, sono espresse in un vortice di cifre astronomiche. Solo per quanto riguarda l’Italia, tenendo conto che le borse europee hanno perso in media il 15% dall’inizio dell’anno (e quella di Milano anche di più), gli analisti valutano la quantità di denaro degli investitori “bruciato” in circa 21 miliardi di euro.
Peraltro, sembra si tratti di perdite solo “potenziali”, una svalutazione contingente di titoli che il giorno dopo potrebbero recuperare e magari superare il valore attuale. Oppure scendere ancora, fino a diventare carta straccia. La finanza è un gioco d’azzardo, che può segnare l’ascesa o il declino di imperi basati esclusivamente sul denaro (anch’esso, peraltro, virtuale), senza che la danza dei numeri sui tabelloni elettronici e sugli schermi dei computer abbiamo un diretto riferimento a un aumento o a una decrescita della produzione di beni e di servizi reali.
O meglio, il riferimento c’è – in questo momento, il rallentamento dell’economia cinese, il ribasso del prezzo del petrolio – , ma mediato dalle reazioni soggettive degli investitori, spesso sproporzionate alle motivazioni oggettive. Basta una voce incontrollata, l’ombra di un timore, una previsione negativa forse esagerata, a far precipitare le borse, con un “effetto domino” che le travolge irresistibilmente da un continente all’altro. Così come basta una notizia incoraggiante, che sembra aprire prospettive favorevoli, per farle risalire in modo altrettanto rapido e imprevedibile. Contrariamente a quanto spesso si crede, in questo campo sono gli stati d’animo, non la fredda razionalità, a dominare. Ma già questo dovrebbe farci venire i brividi.
Perché la finanza ha una ricaduta sull’economia reale e finisce per condizionare anche la vita di tanti che non ci siamo mai sognati di partecipare al gioco, ma finiamo egualmente per essere “giocati”. E i grandi squilibri che, a livello planetario, mantengono in una situazione di incertezza o addirittura di crisi gli Stati più deboli e perpetuano la miseria di centinaia di milioni di persone – alla fine del 2015, 702 milioni di persone, pari al 9,6 per cento della popolazione globale, si trovano in condizioni di povertà estrema – , passano attraverso la capricciosa altalena di questi movimenti incontrollati.
È questo il problema che nessuno solleva, forse perché ci siamo cresciuti dentro e non lo vediamo più: siamo inseriti in un meccanismo, quello del neo-capitalismo finanziario, governato da regole estremamente labili, che non siamo in grado minimamente di controllare e che invece, a sua volta, dispone delle nostre vite. Un meccanismo senza volto e che tuttavia, in una certa misura, qualcuno manovra, speculando sull’irrazionale collettivo, anche se nell’oscurità dell’anonimato. Come nel gioco di ruolo, se ci sono gli agnelli è perché ci sono i lupi, anche se nessuno sa chi sono.
Parlare di “democrazia”, in questo contesto, è illusorio. La politica è diventata funzionale all’economia e l’economia alla finanza. Siamo davanti a un capovolgimento dei rapporti fisiologici. L’economia dovrebbe essere al servizio delle scelte politiche di una comunità, perché ha a che fare con i mezzi e non con i fini. È la politica – che invece si dovrebbe occupare di questi ultimi – a dover individuare le modalità concrete in cui il bene comune di una società deve realizzarsi e, in rapporto ad esse, stabilire con quali strumenti economici perseguire questi obiettivi. A sua volta l’economia, avendo a che fare con l’effettiva produzione di ciò che serve alla vita delle persone, dovrebbe comandare sulla gestione e il movimento del denaro, e quindi sulla finanza, indirizzandoli a questo. Là dove, come nel nostro sistema, i mezzi oscurano i fini e diventano fini essi stessi, il bene comune – che è la pienezza di vita umana delle persone – non conta più nulla.
Si inserisce in questo contesto perverso il ruolo delle banche. Ci fu un tempo in cui la Chiesa vietava il prestito a interesse come un peccato, perché riteneva immorale che il denaro in quanto tale producesse altro denaro. Doveva essere il lavoro, in quest’ottica, il solo abilitato a produrre ricchezza. È significativo che non solo il divieto sia stato abolito, ma si sia ormai perduto di vista perfino il problema – questo reale – che l’aveva originato.
Neppure la grande crisi iniziata alla fine del secolo scorso e causata dalle ciniche speculazioni di alcune grandi banche ci ha fatto dubitare che a dover essere cambiato sia il sistema in quanto tale. E anche le disinvolte operazioni di cui recentemente alcuni istituti di credito italiani si sono resi responsabili, sotto gli occhi distratti della Banca d’Italia, hanno suscitato polemiche strumentali contro questo o quel personaggio politico, invece che una più seria e radicale riflessione.
Eppure delle alternative al capitalismo e al dominio della finanza ci sono, senza mettere in discussione il principio del mercato (e quindi escludendo il socialismo), ma puntando sulla sua umanizzazione. Gli studi di “economia civile”, condotti in questi anni da studiosi seri e stimati anche all’estero, come Zamagni, Bruni, Becchetti, vanno in questa direzione, di cui è stata una solenne consacrazione anche l’enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate. Ma restano voci che gridano nel deserto, perché nell’immaginario collettivo domina la rassegnazione ai pur evidenti paradossi del sistema vigente, ritenuti un male inevitabile.
Sarebbe ora di rendersi conto che quello che consideriamo la stabilità del nostro ordine è solo l’instabilità di un disordine legalizzato a cui siamo troppo abituati per pensarne uno diverso. Il servizio che dobbiamo a chi verrà dopo di noi è un salto di qualità uno slancio di fantasia, in cui potrebbero trovarsi uniti credenti e non credenti, volto a immaginare un mondo diverso, in cui la politica ritorni al centro e il potere del denaro torni ad essere funzionale alla produzione al consumo di beni e di servizi per la gente che ne ha bisogno. È un’utopia, un sogno? Ma quando l’esistente è disumano, la cosa più saggia è sognare un futuro diverso. In termini cristiani si chiama “speranza”. Ed è l’ultima carta che ci resta per dire il nostro “no” al gioco dei lupi.
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