di Giuseppe Savagnone
Una convinzione da anni radicata nell’opinione collettiva è che i problemi dell’Italia siano innanzi tutto di ordine finanziario (vi ricordate lo spread?) ed economico (il famoso Pil). Qualcuno va un po’ più a fondo e denunzia i ventennali ritardi – questi sicuramente di ordine politico – nel fare alcune fondamentali riforme istituzionali.
Eppure, basterebbe prendere atto di quanto ha recentemente dichiarato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco – e cioè che, tra il 2006 e il 2012, si possono calcolare in 16 miliardi di euro i mancati investimenti provenienti dall’estero a causa della criminalità diffusa nel nostro Paese – , per avere buoni motivi di sospettare che la radice della crisi in cui ci dibattiamo, senza vedere, finora, spiragli di luce, sia ben più profonda e si collochi a livello etico e culturale. Se, per fare solo un esempio, i premi richiesti dalle assicurazioni ai loro clienti sono a Napoli tre volte più alti della media dell’Unione europea, per compensare l’immensa quantità di frodi a cui le compagnie sono esposte in quest’area, il problema non è di ordine economico, ma morale.
Così è per tutto il Sud Italia. Ma le cronache ci avvertono che così è, in misura sempre crescente, anche al Centro e al Nord. Ci risparmiamo i particolari. La conclusione è semplice, anche se amara: gli italiani sono – nella media e salvo le dovute eccezioni – poco onesti. E questo incide in modo fortemente negativo sul loro benessere, contribuendo (non è questa, ovviamente, l’unica causa) a bloccare lo slancio produttivo e, in generale, la ripresa economica. Pronto ad indignarsi per gli scandali che coinvolgono la classe politica, il cittadino non esita, quando gli è possibile, ad evadere le tasse, a raggirare l’amministrazione, a frodare. E non si tratta solo di occasionali infrazioni, in un contesto di comportamenti complessivamente sani, bensì di una mentalità radicata, che ispira le sue scelte quotidiane a tutti i livelli.
Ma non è ancora questo il vero fondo della questione. Se la legalità è calpestata, nel nostro Paese, è anche perché essa è stata largamente squalificata, soprattutto nei venti anni della Seconda Repubblica, da una serie di scelte legislative che hanno dimostrato che le leggi sono al servizio dei più forti. La stagione delle leggi ad personam e la persistente inaffidabilità dei parlamenti nel perseguimento del bene comune hanno potenziato, in questo arco di tempo, un’attitudine già esistente negli italiani a considerare la trasgressione una forma di autodifesa contro i privilegi legalizzati della “casta”. Il problema, allora, non è solo di rivendicare il rispetto delle leggi, ma la corrispondenza di queste ultime alle reali esigenze dei cittadini.
Un ultimo passo, però, si impone a questo punto. Perché finora ci siamo mossi sul terreno etico, mostrando che esso non riguarda solo la sfera privata, ma quella pubblica. Vi è da considerare un ulteriore punto di vista, che abbraccia l’una e l’altra, ed è quello culturale. Viviamo immersi in un contesto che ha fatto crollare tutto ciò in cui fino a cinquant’anni fa ancora molta gente credeva. Le ideologie sono finite, ma con esse sono venuti meno anche i progetti per costruire una società diversa da quella, invivibile, in cui ci troviamo. La fede religiosa ha perso molto terreno, soprattutto tra i giovani e negli ambienti culturalmente più qualificati, lasciando il posto a un vago agnosticismo. L’appello ai cosiddetti “valori” suona ormai come una vuota retorica, in cui non crede più neppure chi la pratica.
E qui, forse, più che la politica, bisognerebbe chiamare in causa, come prime responsabili, le televisioni, programmi come “Il Grande Fratello” oppure le trasmissioni della De Filippi, che sono stati la vera grande agenzia educativa funzionante in Italia in questi anni. E, più a monte, una classe di intellettuali – di destra e di sinistra, per quello che ancora valgono queste classificazioni – che hanno esaltato la cultura dell’individualismo e del relativismo, convincendo tutti che “ognuno ha la sua verità” e che il bene e il male sono relativi alla coscienza del singolo. Così non si costruisce nessuna comunità. Così non si può alimentare nessuna speranza condivisa. Ci resta Renzi. Una battuta che circola negli ambienti giornalistici è che gli italiani credono in lui perché non credono più a niente. Ma è facile capire che si tratta solo di una rassegnazione frutto del nichilismo imperante.
È questa, in ultima istanza, il “male oscuro” da combattere, se si vuole che il nostro Paese si riprenda. Ciò non significa, ovviamente, trascurare ciò che è possibile fare sugli altri piani. Ma la rinascita economica ha bisogno di quella morale personale e questa esige quella pubblica, ed entrambe hanno assoluto bisogno che si ricominci a credere in qualcosa che non sia il proprio angusto interesse, se non altro perché ci si rende conto finalmente che neanche quello si può realizzare se la barca comune affonda.
Sapremo aprire gli occhi in tempo? E, avendoli aperti, sapremo rimettere in discussione una visione della vita che è ormai consolidata? E, avendo fatto anche questo passo, ci batteremo per diffondere un punto di vista diverso e, in partenza, minoritario? So già che molti mi considereranno un illuso, ma sono convinto fermamente che dalla risposta a queste domande dipende il nostro futuro.
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