di Chiara Insinga
Negli ultimi anni scolastici, da insegnante delle scuole superiori, ho avvertito in modo sempre più netto una sensazione di profondo disagio non solo in me stessa, ma anche in molti altri docenti con i quali mi confronto giornalmente a scuola. La situazione, poi, quest’anno, mi è sembrata particolarmente preoccupante quando anche in quei colleghi più entusiasti, dei quali ho sempre ammirato la dedizione e l’impegno nel proprio lavoro, ho cominciato a riscontrare segni sempre più evidenti di insofferenza e di sconforto. Sembra infatti che ultimamente qualcosa si sia spezzato, come se i problemi che affliggono il nostro sistema scolastico si siano incancreniti generando un senso di profondo sconforto e di impotenza nei docenti stessi.
Non è facile enumerare le motivazioni di questo disagio sempre più tangibile e sempre più profondo, ma è evidente che, ai problemi che ogni anno si ripresentano puntualmente in tutta la loro gravità, quali l’edilizia scolastica fatiscente, il disinteresse e le politiche ottuse sulla scuola messe in atto dai governi (e non sembra che ci siano buone premesse in tal senso neppure con il nuovo governo…), il problema degli stipendi dei docenti e le polemiche di bassa lega sulle ore di lavoro di questi ultimi, si aggiungano altre questioni, di carattere più generale ma forse ancor più preoccupanti, in quanto rischiano di ferire a morte un sistema scolastico ormai di per sé parecchio sofferente.
La scuola di oggi sembra risentire infatti in modo sempre più drammatico della profonda crisi e del disagio sociale che ci hanno colpiti in questi ultimi anni e che stanno lasciando inevitabilmente una traccia profonda anche nell’istituzione scolastica.
Insegnare non è mai stato facile, a tutti i livelli; è un compito delicatissimo e arduo, come lo è far crescere un figlio. Ma oggi lo è più che mai, così come, forse, è diventato ancor più difficile che in passato fare i genitori. I docenti, nel loro delicato ruolo di educatori, si trovano infatti a dover far fronte ai profondi mutamenti sociali, alla crisi economica, ma anche e soprattutto etica, che ha investito il nostro paese negli ultimi anni. Le difficoltà economiche cui molte famiglie devono far fronte, la sfiducia da parte dei giovani nella possibilità di ottenere un’occupazione stabile al termine del percorso di studi, la crisi morale che ha interessato ogni settore della nostra società, hanno determinato negli studenti un senso di smarrimento e una demotivazione di cui chi ci ha governati in questi ultimi anni è gravemente responsabile.
Gli effetti nefasti di questa crisi si fanno sentire inevitabilmente anche nei comportamenti e nello stile di vita, nonché nei rapporti interpersonali che i giovani mostrano di instaurare tra loro. Indubbiamente la televisione, prima quella privata, poi anche quella statale, ha avuto un ruolo importante nel veicolare la mentalità e la cultura del denaro e del successo a tutti i costi, della mercificazione del corpo femminile, della volgarità come stile di vita.
Sotto questo profilo è davvero impressionante, oltre che sconcertante, l’articolo recentemente apparso sul portale de “Il fatto quotidiano” del 5 marzo 2014 sul sesso tra gli adolescenti, che molto dice sul malessere diffuso dei giovani e sullo scadimento delle competenze emozionali e relazionali di cui essi sono in possesso.
A questo quadro si aggiunge, poi, un’altra questione, che rende ancor più arduo per i docenti svolgere il loro ruolo di educatori. Essa assume due aspetti, che appaiono come due facce della stessa medaglia: la precarizzazione del lavoro degli insegnanti e la penetrazione della logica dell’utile e del profitto nella scuola pubblica.
I tagli all’organico e l’aumento del precariato hanno avuto un effetto nefasto non solo per quanto riguarda la didattica (aumento del numero degli alunni nelle classi, tagli alle ore del sostegno, discontinuità dei docenti nelle classi, impossibilità di chiamare supplenti per le assenze giornaliere ecc.), ma anche sulla vita stessa di tanti insegnanti che, ormai quasi giunti alla pensione, hanno perso il posto nella scuola dove lavoravano da una vita per essere trasferiti in uno o più istituti anche fuori città. Per non parlare poi di quegli insegnanti che, ricoprendo gli ultimi posti nelle graduatorie di Istituto, vivono nella costante preoccupazione di perdere il lavoro nella propria scuola e di doversi dividere tra più istituti, spesso anche molto distanti tra loro, con i disagi che è facile immaginare.
Infine un’amara constatazione: accanto ai Dirigenti scolastici che con il loro lavoro cercano di fronteggiare questa difficile situazione e di far sì che, nonostante la mancanza di risorse, le scuole possano continuare a funzionare, ve ne sono altri che, scimmiottando i manager delle aziende, si sono resi interpreti di quella logica dell’utile e del profitto che rischia davvero di snaturare del tutto il vero volto della scuola. Quello che fino a qualche anno fa accadeva quasi esclusivamente nelle scuole private considerate alla stregua di “diplomifici”, cioé che un docente potesse essere duramente redarguito perché “troppo severo” nei confronti degli studenti-clienti – cioé obiettivo nella valutazione e serio nel proprio lavoro-, con il rischio di provocarne la fuga, adesso si verifica anche nella scuola pubblica. Accade infatti che, anche in essa, una diminuzione del numero di alunni iscritti in una determinata sezione venga immediatamente percepita come una grave colpa dei docenti che vengono chiamati a risponderne personalmente, come un operaio viene redarguito dall’azienda per la quale lavora perché ritenuto improduttivo.
Il quadro della crisi, dunque, sembra vasto e complesso, determinato da una stratificazione di concause, le cui origini risalgono molto indietro negli anni. Una crisi alla quale i lavoratori della scuola reagiscono sempre più spesso col silenzio e l’isolamento, presi come sono dalla fatica di sopravvivere a un sistema al quale si sentono sempre più estranei.
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