Introduzione alla lectio divina su Mc 10,35-45
20 ottobre 2012-XIX domenica del tempo ordinario
E gli si accostarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?». Quelli gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e con il battesimo con il quale io sono battezzato sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; ma è per coloro per i quali è stato preparato». Avendo i dieci udito ciò, si sdegnarono contro Giacomo e Giovanni. Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti essere capi delle nazioni le tiranneggiano, e i loro grandi fanno sentire su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell`uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Umani, troppo umani, questi discepoli. Proprio per questo terribilmente credibili: per questa loro autenticità che il redattore evangelico non ha voluto in alcun modo edulcorare o smussare, come invece tenta Matteo che, nel brano parallelo (20,20), fa parlare la madre di Giacomo e Giovanni.
Gesù ha appena annunziato, per la terza volta, che il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai gran sacerdoti e agli scribi, e lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani; e lo scherniranno e lo sputacchieranno e lo flagelleranno e lo uccideranno. E dopo tre giorni risorgerà. E i discepoli reagiscono così, parlando di potere e di posti privilegiati.
Davvero “sembra che Gesù e i suoi discepoli vivano in due mondi diversi. Lo seguono ancora con i piedi, ma il loro cuore si trova altrove” (Stock).
Di fronte alla prospettiva della morte e delle persecuzioni, cresce comprensibilmente la paura: erano sgomenti, avevano timore, annota puntuale l’evangelista (v.32). E la paura partorisce il peccato, che qui prende la forma della bulimia di potere. I discepoli perdono infatti il senso della loro identità, quello stare dietro a Gesù, che è appunto l’essenza stessa del discepolato. E, nello smarrimento di senso che li attanaglia, gli chiedono infatti di conceder loro di stargli accanto, a destra e a sinistra per essere precisi, ma non più dietro. Di fronte alla paura di sparire, di non contare più nulla, la reazione è quella opposta dell’affermazione narcisistica.
Come ci interpella forte questo brano! Tutti tesi all’affermazione di noi, alla realizzazione di qualcosa che ci renda meno sperduti in una società sempre più liquida e precaria, dimentichiamo che la “realizzazione” del nostro essere discepoli passa attraverso il calice della croce, quel battesimo con cui Cristo è stato battezzato, che si concreta nel servizio, nella presa in carico della sofferenza dell’altro, nell’empatia profonda scevra da giudizio.
Al contrario, mutuando la logica di questo mondo, che subisce il fascino dei titoli e del potere, perdiamo ancor più credibilità agli occhi di chi si tiene lontano dalla Chiesa e dai suoi presunti testimoni. Non siamo abbastanza credibili, come non è credibile lo sdegno dei dieci contro Giacomo e Giovanni: lo sdegno (che non va confuso con l’indignazione) è, infatti, un sentimento ambiguo, parente prossimo dell’invidia, che spesso si tinge di acre moralismo, per camuffarsi e rendersi socialmente accettabile.
Chi invece ha attraversato il dolore e la sofferenza propria e dell’altro, fino al baratro, impara a non sdegnarsi più, perché sa che quei sentimenti narcisisti, quella bramosia di esserci, di contare finalmente qualcosa abitano il cuore di ciascuno di noi, perché ogni uomo prima o poi si trova a fare i conti con la paura di morire, la paura di sparire senza aver ancora combinato nulla nella vita.
Non è dunque il potere che corrompe, ma la paura che vi è sottesa e che fa sì, come rileva finemente Gesù, che quelli che sono ritenuti essere i capi delle nazioni le tiranneggiano e fanno sentire il potere su di esse. L’esercizio aggressivo del potere è un anestetico alle nostre paure: anche la Chiesa, a volte, sembra ricorrervi quando si sente minacciata. Ma il risultato è che smette di essere credibile e che le viene rinfacciato proprio il tradimento della vocazione al servizio tracciata dal Maestro in questo brano.
Anzi, come scrive Gianfranco Ravasi, “tutte le volte che la comunità cristiana si lascia tentare dalla forza, dal fascino del potere, dal trionfo della struttura è come se ritornasse ad essere pagana, inserendosi nella lista dei dominatori di questo mondo che non conoscono la sapienza divina (1 Cor 2,8)”.
Valentina Chinnici
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