di Giuseppe Savagnone
Forse non è più di attualità, ma voglio egualmente dedicare questo “chiaroscuro” a don Maks Suard, il parroco della comunità slovena, nella diocesi di Trieste, su cui per un momento si sono puntati i riflettori dei mezzi di comunicazione e l’attenzione dell’opinione pubblica. Don Suard deve questo “onore” a due cose: che è stato denunziato per aver abusato, diciassette anni fa, di una ragazzina tredicenne e che, dopo questa denunzia, si è impiccato ed è stato trovato così dal suo vescovo che era venuto a trovarlo per ricevere la sua confessione scritta.
Ho pensato spesso, nei giorni scorsi, a questo prete peccatore e indegno, che a 48 anni ha concluso con l’estremo fallimento una missione a cui probabilmente aveva aderito con tanto entusiasmo e tante speranze. E ho pensato anche a tutti gli altri sacerdoti che si trovano a vivere – meno drammaticamente, forse, ma a volte altrettanto tristemente – lo squallore di una vocazione trascinata fra cadute e compromessi, anche se non denunziati da nessuno.
Non parlo solo dei pedofili. È giusto che oggi, dopo tanto silenzio, si dia a questo problema una rilevanza particolare – anche dalle autorità ecclesiastiche – , se non altro per una legittima reazione alle coperture fumogene che in passato avevano mascherato il fenomeno. Ma va detto con chiarezza che la pedofilia non è il male tipico dei preti (e tanto meno è il frutto inevitabile del loro celibato). Secondo le statistiche, gli abusi sessuali di gran lunga più frequenti avvengono tra le mura domestiche, in famiglia, ad opera di genitori e parenti.
Il male più insidioso a cui un sacerdote può andare incontro è un altro. È la mediocrità. Non ricordo più dove lo lessi, tanti anni fa, ma lo credo ancor oggi vero: un prete mediocre è laido. Dove per mediocrità non intendo la mancanza di doti eccezionali di mente e di cuore, che non possono certo essere richieste alla maggior parte delle persone. Tanto meno mi riferisco al fatto che non siano molti a godere di quel successo apostolico e della conseguente notorietà, che a volte, in un particolare ambiente o anche su più ampi scenari, porta alla ribalta questo o quel presbitero o quel religioso e gli procura folle di ammiratori.
Non sono queste cose che mi sembrano importanti in una storia sacerdotale. La mediocrità di cui parlo è lo spegnersi dello slancio radicale che ha spinto un giovane a darsi senza riserve, rinunziando ad avere una moglie, dei figli, una professione, per mettersi al servizio di Dio e degli altri, come Gesù. Perché, se questo slancio viene meno, allora si può anche evitare di cadere nell’orrore degli abusi a minori, ma si resta esposti a quell’imborghesimento che è un modo per riprendersi quel che resta della propria vita, dopo che la si era donata, riempiendola di patetici surrogati.
Questo non significa che non si soffre. Don Suard ha lasciato un memoriale che evidenzia tutta l’angoscia della sua presa di coscienza. Non era mediocre fino al punto da non essere capace di provare un profondo rimorso per il male irreparabile che aveva fatto a una piccola creatura che si era affidata a lui. Forse in fondo – so che questo apparirà folle a qualcuno – era migliore di tanti cristiani e di tanti preti che commettono peccati meno terribili, ma riescono sempre a giustificarsi di fronte alla propria coscienza. Forse ci sono degli uomini perduti, dei grandi peccatori, dei “mostri”, che a Dio viene più facile perdonare perché non hanno più niente da dire in propria difesa.
Mi chiedo, però, da membro della comunità cristiana, se non sia ora di fare in modo che ci siano meno sacerdoti indegni o comunque mediocri. Qualcuno invoca l’abolizione del celibato. Come se i cristiani sposati di solito fossero più capaci di una donazione gioiosa ed entusiasta alla causa del Regno. Come se un prete che deve badare a tirare avanti una famiglia, a comporre le difficoltà con la moglie, a seguire la tempestosa crescita dei figli, fosse in condizioni oggettivamente più favorevoli per occuparsi interamente degli altri.
Personalmente penso che il problema di fondo sia la solitudine. Ci sono state epoche in qui un sacerdote la sentiva di meno, perché viveva protetto da un ambiente che lo sorreggeva in mille modi. Oggi le pressioni del mondo esterno sono immensamente più forti e quasi tutte vanno in una direzione che rende sempre meno plausibile l’aver dato la vita per servire Cristo negli altri. Si torna a casa stanchi, dopo una giornata di fatiche a volte infruttuose, di frustrazioni, di tentazioni, e non si ha nessuno con cui parlarne, a cui chiedere un consiglio. I preti sono soli. Da qui la maggiore fragilità, le compensazioni, i cedimenti più o meno gravi, come quello di don Suard.
I sacerdoti dovrebbero vivere riuniti in piccole comunità presbiterali che garantiscano un clima di fraternità e di continuo dialogo. E insieme formare quella grande comunità che, in linea di principio, dovrebbe essere il presbiterio, costituito dai presbiteri e dal vescovo. Il rapporto di ciascuno e di tutti con quest’ultimo dovrebbe essere intenso, filiale, continuo. Oggi è rarissimo che queste condizioni si verifichino.
Ma forse è dal seminario che si dovrebbe cominciare. È là che il futuro sacerdote dovrebbe imparare a non camminare da solo, a non avere come metà di diventare il monarca solitario della sua parrocchia, a cooperare umilmente con i suoi confratelli nel presbiterato. La conferenza episcopale sta per dedicare la sua imminente assemblea al tema della formazione del clero. Speriamo che si occupi anche di questo, per evitare che preti come don Suard debbano ancora trovarsi davanti al dramma della loro vocazione fallita.
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