Il problema palestinese e l’impostura della NAKBA

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Fedeli allo stile pluralistico di Tuttavia, aperto alle più diverse opinioni – anche quando contrastano con la sua linea – , pubblichiamo questo intervento di Pasquale Hamel, insieme alla risposta di Giuseppe Savagnone.

Pasquale Hamel

Nella storia del conflitto che, dal 1948, infiamma la Terrasanta troppo spesso le mistificazioni e le strumentalizzazioni hanno coperto la verità, fra queste il mito della Nakba di cui, utilizzando le riflessioni di Riccardo Galetti e di Roberto Sajeva che nell’interessante ed esaustivo volume “Le ragioni di Israele” pubblicato da linkiesta Books, ne esaminano la fondatezza.

La Nakba, catastrofe in arabo, è il termine che più appassiona quanti compiacenti si occupano della cosiddetta questione palestinese. Si tratterebbe dell’esodo forzato degli arabi che vivevano in Palestina dopo il ’48 di cui si sarebbero resi responsabili gli ebrei di Israele. Un evento che è stato, con quella esagerazione faziosa che contraddistingue gli individui ideologizzati, addirittura paragonato all’Olocausto che, come sappiamo, fece almeno sei milioni di vittime.

Un evento la cui responsabilità, come ci dice Benny Morris, uno storico che non ha mai risparmiato critiche al ceto dirigente israeliano, che l’ha indagato con certosina pazienza non solo ricercando fra le carte ma verificando sul campo, solo in malafede può essere attribuita allo Stato ebraico.

Ci dice Morris che, salvo qualche caso come quello di cui fu responsabile la formazione ebraica legata al partito marxista Mapam,  “non ci sia mai stato un ordine o una volontà di espulsione dei sionisti prima e di Israele poi e che anzi esistono ampie prove documentali che la leadership israeliana si era opposta a operazioni di questo tipo.

L’esodo arabo dalle aree in questione fu invece effetto della paura delle conseguenze della guerra ma anche della scelta strategica degli eserciti arabi, decisi a spazzare via lo Stato di Israele e gli ebrei, di fare terra bruciata “per fare venire meno luoghi di comodo stazionamento e rifornimento dell’esercito nemico”- D’altra parte, a conferma, basta scorrere la stampa arabo-palestinese – fra gli altri i quotidiani Ash Sha’aab  e Assariq – la quale si guardò bene dal parlare di pulizia etnica ed, invece, insisté a definire l’esodo ora come intelligente tattica per mettere in difficoltà Israele, ora come scandaloso decisione degli stessi arabi-palestinesi accusati di non avere avuto il coraggio di restare e combattere o di approfittare degli eventi per ottenere condizioni migliori nei luoghi in cui si trasferivano.

Testimonianze in questo senso, cioè della decisione autonoma e non forzata di andare via, ci è offerta da un’autorevole fonte, ci si riferisce al comandante della legione araba di Transgiordania, Glubb Pascià, un ex ufficiale britannico che aveva trovato utile mettersi al servizio degli arabi. Glubb segnala l’ostilità che si registrava negli arabi palestinesi nei confronti degli eserciti arabi al punto da preferire gli ebrei agli arabi.

Da non dimenticare che, alcuni arabi di Palestina resistettero all’ordine di evacuazione e per questo subirono violenze e ritorsioni come ci ricorda la denuncia di Haji Nimer el Khatih, importante esponente del clan più potente fra i palestinesi, ci si riferisce a quel del gran muftì di Gerusalemme Husseini.

D’altra parte, per correttezza di esposizione, non si può trascurare che, nel 1948, l’Alto Comitato Arabo, avesse intimato via radio agli arabi palestinesi di andarsene additando coloro che volevano restare come traditori. La Nakba sarebbe, dunque, una mistificazione, un mito artificiosamente creato, come i famosi protocolli di Sion, per screditare gli ebrei di Israele. C’è ora da chiedersi come sia venuta fuori questa mistificazione. La risposta ce la dà Edward Atiyah, nel ’48 rappresentante della Lega Araba a Londra.

Atiyah testimoniò infatti che il mito della Nakba era stato creato ad hoc da parte della stampa araba e da alcuni maggiorenti arabi per coprire il grave errore commesso quando avevano promesso ai palestinesi, costretti ad obbedire al loro ordine di evacuazione, che sarebbero ritornati da vincitori magari appropriandosi di quanto gli ebrei avevano lasciato. Anche il vescovo cattolico George Hakim, successivamente consacrato patriarca di Gerusalemme, confermò in un’intervista al giornale Sada al-Janub la stessa versione. L’esodo, riguardò oltre seicentomila arabi di Palestina che trovarono ospitalità, si fa per dire perché fin da subito vennero considerati ospiti sgraditi, negli stati arabi vicini a cominciare dalla Giordania. Il tema dell’esodo, anche se poteva offrire la disponibilità di spazi agli stessi israeliani, non lasciò insensibile la leadership ebraica tanto è vero che lo stesso Ben Gurion dichiarò pubblicamente che “Quando i Paesi arabi saranno disponibili a firmare un trattato di pace con Israele…gli ex residenti arabi nel territorio di Israele saranno autorizzati a tornare.” Per intanto, è questo mostra ancora una volta la grande disponibilità di Israele, le autorità ebree provvidero a nominare un amministratore delle proprietà abbandonate, e questo per evitare occupazioni abusive di case vuote o esercizi commerciali lasciati, in attesa della restituzione ai legittimi proprietari. Come è noto, gli stati arabi per decenni si sono ostinati a non firmare un trattato di pace col risultato che tutti conosciamo.

Giuseppe Savagnone

Un mito oppure l’inizio di una sistematica pulizia etnica ancora in corso?

Nel suo documentato intervento l’amico Hamel – rifacendosi al libro di Riccardo Galetti e Roberto Sajeva “Le ragioni di Israele”, pubblicato da linkiesta Books –  definisce la Nakba (“catastrofe”  in arabo) «un mito artificiosamente creato». Dove col termine Nakba si intende «l’esodo forzato degli arabi che vivevano in Palestina dopo il ’48 di cui si sarebbero resi responsabili gli ebrei di Israele» e che in realtà, secondo Hamel, che cita a sua volta lo strico Benny Morris, «solo in malafede può essere attribuita allo Stato ebraico».

Infatti, sempre secondo Morris, sembra accertato che «non ci sia mai stato un ordine o una volontà di espulsione dei sionisti prima e di Israele poi e che anzi esistono ampie prove documentali che la leadership israeliana si era opposta a operazioni di questo tipo».

Insomma, conclude Hamel, quella dei palestinesi fu una «decisione autonoma e non forzata di andare via». E se a volte pressione ci fu, venne da parte dei paesi arabi che vedevano nell’esodo della popolazione locale un modo di fare terra bruciata al nemico sionista.

In questa ricostruzione, sempre Hamel, per confermare «la grande disponibilità di Israele», segnala che «le autorità ebree provvidero a nominare un amministratore delle proprietà abbandonate, e questo per evitare occupazioni abusive di case vuote o esercizi commerciali lasciati, in attesa della restituzione ai legittimi proprietari».

Per la verità, già a prima vista sembra un po’ strano che più di seicentomila persone (numero ammesso dallo stesso Hamel) abbandonino volontariamente le loro case, i loro campi, il loro lavoro, per andarsi ad accampare, ammassati, in campi profughi dove le condizioni di vita sono disumane. Saremmo di fronte a un “esodo” al contrario: gli ebrei lo fecero per andare nella loro terra, i palestinesi per lasciarla senza niente in cambio. Sarebbe la prima volta nella storia.

Ma poiché non bisogna mai fidarsi delle prime impressioni, è il caso di fare una ricerca storica più puntuale di come andarono effettivamente le cose, cercando di evitare le ricostruzioni faziose che dall’una e dall’altra parte ne sono state date. A questo scopo può essere utile leggere un libro di Ilan Pappé, tradotto in 15 lingue, intitolato La pulizia etnica della Palestina.

Pappé non è un fanatico antisemita, anche perché è un ebreo e, più precisamente, un israeliano (è nato ad Haifa), anche se attualmente insegna nell’università di Exeter, nel Regno Unito. 

E la sua documentazione è tratta dagli archivi militari di Israele, che egli, proprio perché israeliano, ha potuto consultare senza troppe difficoltà e che cita con puntigliosa precisione.  Ciò che emerge, da questa ricerca, è che fin dal marzo 1948  (prima, dunque della proclamazione dello Stato ebraico) l’Haganah, la principale organizzazione armata clandestina sionista, guidata da Davide Ben Gurion – che gli israeliani considerano “il padre della patria” – aveva programmato e avviato un programma di sistematica espulsione dei residenti palestinesi. La sua  finalità era espressa nelle parole: «I palestinesi devono andarsene». A monte, c’era la «determinazione ideologica sionista ad avere un’esclusiva presenza ebraica in Palestina».

I metodi erano minuziosamente predeterminati: «Intimidazioni su vasta scala; assedio e bombardamento di villaggi e centri abitati; incendi di case, proprietà e beni; espulsioni; demolizioni; e infine collocazione di mine tra le macerie per impedire agli abitanti espulsi di fare ritorno».

«Ci vollero sei mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta, più di metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800.000 persone, era stata sradicata, 531 villaggi erano stati distrutti e 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti».

Si potrebbe obiettare che forse questa violenza era la reazione israeliana a un’aggressione subita (come si dice oggi della guerra condotta dall’esercito israeliano a Gaza in nome del “diritto di difendersi”). Ma le cose non stanno così. Scrive Pappé: «Davide Ben Gurion, nel suo libro Rebirth and Destiny of Israel, p.530, notava candidamente che: “Fino alla partenza degli inglesi il 15 maggio 1948 nessun insediamento ebraico, anche remoto, era stato attaccato o occupato dagli arabi, mentre l’Haganà aveva conquistato molte posizioni arabe e liberato Tiberiade, Haifa, Giaff e Safad (…). Così, nel giorno del destino, quella parte della Palestina dove l’Haganà poteva operare era quasi ripulita dagli arabi”».

«Questa vicenda» osserva lo storico – «è stata da allora sistematicamente negata». «La storiografia israeliana parlava di “trasferimento volontario”». Una tesi che gli studi degli storici revisionisti israeliani della cosiddetta “nuova storia”, sorta negli anni Ottanta, «utilizzando principalmente gli archivi militari israeliani», hanno dimostrato «falsa e assurda», rivelando «che le forze ebraiche avevano commesso un gran numero di atrocità». 

A confermare questa ricostruzione del passato è ciò che vediamo accadere anche nel presente. Fino ad oggi assistiamo a sistematico impegno dei coloni e degli ultraortodossi israeliani in Cisgiordania per espellere con la violenza i residenti palestinesi da un territorio che, secondo la risoluzione dell’Onu del 1947, spetta a loro. Questi comportamenti illegali e disumani sono stati oggetto di ripetute condanne da parte dell’Onu, del G7 e perfino del più potente e fedele alleato di Israele, gli Stati Uniti, ma  non hanno dissuaso il governo di Tel Aviv dal sostenerli, programmando, anche recentissimamente, sempre nuovi insediamenti israeliani sui territori che appartengono agli arabi .

Ciò non impedisce che venga sbandierata, oggi come ieri, la bufala della “volontarietà” dell’esodo palestinese. Se ne sta parlando anche per la Striscia di Gaza. Si chiama piano «The Day After». Ne hanno rivelato l’esistenza due influenti ministri del governo di unità nazionale di Tel Aviv, Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir. Sarebbe «una soluzione umanitaria», hanno garantito. Esso prevede  «un’emigrazione volontaria dei gazawi», gli abitanti di Gaza, forse verso il Congo, con cui sembra che il governo  israeliano abbia avviato contatti. Il Dipartimento di Stato americano, in una nota, ha duramente stigmatizzato le parole dei ministri israeliani. Il portavoce Matthew Miller ha parlato apertamente di «retorica provocatoria e irresponsabile». Ma ora, con la presidenza Trump, questa  opposizione potrebbe venir meno.

Anche a Gaza, come in Cisgiordania, come segnalavo nel mio ultimo chiaroscuro su «La questione ebraica», Israele distruggendo sistematicamente infrastrutture e abitazioni civili, oltre ad impedire il rifornimento di cibo, per costringere gli abitanti ad andarsene, mentre nello stesso tempo si incoraggiano i coloni israeliani ad occupare quelle terre.

Lo stile di oggi è rimasto dunque lo stesso di quello di allora. che poi ci  siano gravissime responsabilità anche dei governi arabi in quello che è accaduto non lo escludo affatto. Ma esse non possono farci chiudere gli occhi sulle responsabilità storiche di Israele. La  Nakba non è un mito.

2 replies on “Il problema palestinese e l’impostura della NAKBA”

  • Grazie per il Tuo intervento che rende più vivace il dibattito. Ho qualche dubbio che Pappè possa avere consultato gli archivi militari israeliani, che sono segreti. Per quanto mi risulta, l’unico che sia stato autorizzato a consultarli, limitatamente al ‘48, è stato Ben Morris.

  • Ottimo dibattito tra storici interessati a chiarire questioni di paesi altri. È molto arduo centrare la verità, l’argomento è intrigante e difficile fra l’altro non potendo schierarsi a giusto motivo pro o contro una parte.
    Ho avuto una nonna ebrea Lucie Alexandre che a Parigi ha avuto uccisi tre fratelli dai nazisti. Ho un amico israeliano che vive a Palermo, medico che in questo periodo soffre dato che uno dei
    figli lavora nei centri di guerra ed ha famiglia e parenti viventi nel terrore delle bombe.
    Ritengo che se non si deciderà da parte delle potenze che ordinano la vendita delle armi qualsiasi argomentazione resterà
    un interessante fatto storico.
    Mi complimento con chi scrive e ci delucida gli eventi un po’ lontani da noi. Grazie

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