Il sinodo della Chiesa cattolica è in corso da qualche mese. Parrocchie, diocesi, gruppi e associazioni di tutto il mondo sono alle prese con una consultazione che riguarda tanto l’appartenenza ecclesiale quanto la missione d’annuncio del Regno di Dio nel mondo. Il cammino sinodale voluto fortemente da papa Francesco si radica in quel dinamismo di continuo aggiornamento della Chiesa ben ribadito dall’ultimo Concilio, il Vaticano II. Di questo tema discutiamo con Vincenzo Ceruso. Esponente della Comunità di Sant’Egidio, Ceruso è Segretario della Consulta diocesana delle Aggregazioni Laicali e fa parte dell’Equipe sinodale dell’arcidiocesi di Palermo.
– Ormai da alcuni anni studi sociologici, impressioni antropologiche e riflessioni teologiche registrano la crisi del cattolicesimo italiano. Il momento critico non riguarda soltanto la fuga dei fedeli dalla partecipazione alla liturgia ma anche la rilevanza sociale, culturale e politica della Chiesa nell’intero Paese. A suo parere, il cammino sinodale è un’occasione per fare il punto sullo stato del cattolicesimo in Italia?
La crisi del cattolicesimo, non solo italiano, è un tema di discussione ricorrente da anni. La stessa elezione di Papa Francesco nasce anche dalla consapevolezza, in gran parte del Collegio cardinalizio, di quanto profonda sia la crisi manifestata con le dimissioni di Benedetto XVI. L’amico e storico Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ha scritto un libro dal titolo provocatorio La Chiesa brucia?; in cui avvia la sua riflessione a partire da un evento tanto concreto quanto simbolico per il cattolicesimo europeo, l’incendio della cattedrale di Notre Dame de Paris, nel 2015. Dentro questa cornice c’è la condizione del cattolicesimo italiano, con la sua crisi di strutture e di quadri dirigenti. Si tratta di un mondo sicuramente vitale, che in questo tempo di pandemia ha dimostrato ancora una volta la sua importanza nel sostenere la società italiana, ma che ha difficoltà ad affrontare il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo.
L’epoca della globalizzazione indica una unità profonda del genere umano, ma comporta anche sconvolgimenti dell’ordine tradizionale delle nostre società, sempre più pluraliste. Viviamo nella società liquida di cui parlava Baumann, che implica una messa in discussione radicale di identità considerate immutabili. Io penso che il pluralismo sia un valore e che i cristiani abbiano le coordinate per muoversi in un mondo globalizzato, se ripartono dalla loro storia. Ma la Chiesa italiana cosa ne pensa?
Alcuni hanno nostalgia di un tempo che non c’è più, in cui i cattolici riuscivano ad incidere nelle scelte sociali e politiche. Altri sono propensi a cercare scorciatoie integraliste e guardano con interesse al cristianesimo nazionalista di un Orban, per esempio. Il cammino sinodale può essere l’occasione per mettersi in cammino e uscire da discussioni spesso sterili. Per Francesco, il processo sinodale è un modo per ridare passione ad un popolo. Il primo passo è far sì che il Popolo di Dio sia realmente protagonista, rovesciando il modo in cui viene esercitato solitamente il potere. Non si tratta di invocare una riforma democratica nella Chiesa, applicando le regole parlamentari. Si tratta di mettere in pratica il messaggio dell’Evangelii Gaudium, dove si parla di conversione pastorale, per una Chiesa di popolo in mezzo al popolo. La sinodalità è la soluzione alla crisi. O almeno, la strada per uscirne.
– Per Bergoglio il processo sinodale deve, anzitutto, evitare i rischi connessi all’intellettualismo, al formalismo e all’immobilismo. Questi mali, congiunti l’un l’altro, impediscono alle comunità ora di intendere e vivere la realtà contemporanea ora di agire con processi di riforma interna. In concreto, il cammino sinodale avviato in tutte le parrocchie come potrà evitare questi rischi?
Questi rischi si manifestano in ogni esperienza spirituale che vive la separazione dalla cultura e dalla storia. Intellettualismo, formalismo e immobilismo sono manifestazioni sclerotizzate delle tradizioni religiose. Non le sole e non le più evidenti. Lo studioso Olivier Roy, per esempio, parla di “santa ignoranza” per spiegare la genesi dei fondamentalismi. La separazione dalla storia è ancor più grave nel cristianesimo che, per sua natura, è incarnato nella storia. La tradizione della Chiesa è trasmissione del Vangelo ad una comunità vivente, oppure è reliquia che alimenta tutt’al più la devozione dei singoli, o di esperienze marginali.
Il nodo è non circoscrivere la vita della Chiesa alla gestione delle istituzioni. Una fede separata dalla storia degenera facilmente in elitarismo: un’élite di funzionari al vertice riproduce le certezze di sempre (o ne avanza di nuove, ma sempre a proprio uso e consumo). Non si tratta di diventare tutti storici, anche se un po’ di cultura storica (e di cultura biblica) è alla portata di tutti. Per evitare questi rischi occorre camminare con il Popolo di Dio. Un cammino sinodale è un cammino di popolo o non è.
È la grande intuizione di Papa Francesco, fin dal Convegno di Firenze del 2015: «Che niente e nessuno vi tolga la gioia di essere sostenuti dal vostro popolo»; diceva il Papa ai vescovi italiani. Spesso nelle nostre chiese viene smarrita questa gioia. Allora ci si rinchiude nel perimetro del proprio gruppo, piccolo o grande che sia, nelle dinamiche dei rapporti tra uffici, nella tranquillità del “si è sempre fatto così”. La preghiera, la cura della liturgia, l’attenzione ai poveri e ai fragili, l’ascolto delle domande del territorio, sono l’antidoto a ogni autoreferenzialità. E poi un rinnovato amore per la Parola di Dio.
L’Arcivescovo di Palermo, il 23 gennaio si è rivolto alla Diocesi con una lettera semplice e profonda, in occasione della Domenica della Parola di Dio istituita dal Papa. Il vescovo ha proposto a tutti una lettura integrale del libro degli Atti degli Apostoli, scandita in sezioni. Mi sembra una bella indicazione. Gli Atti sono il libro di una comunità di popolo in cammino nella storia e don Corrado, uomo amico della Parola, ne ripropone la lettura al suo popolo nel cuore del cammino sinodale.
– Il processo sinodale è, inoltre, una possibilità in grado di rendere nella Chiesa tutti protagonisti. Battezzati, religiosi, laici, ministri ordinati e sposi sono, infatti, invitati a riflettere sul mistero di Dio che continua a parlare agli uomini e alle donne dei nostri giorni. Perché è importante che tutti i membri della comunità ecclesiale diano, da protagonisti, il loro contributo?
È importante perché da questo dipende il fallimento o il successo del cammino sinodale. Rivolgendosi alla Conferenza Episcopale Italiana, nel 2019, Bergoglio ammoniva: «non si può fare un grande sinodo senza andare alla base». Nella piccola esperienza che sto vivendo nella Diocesi di Palermo, nell’equipe che collabora con i referenti diocesani del cammino sinodale, abbiamo cercato di coinvolgere nel percorso sinodale tutte le comunità parrocchiali, naturalmente, ma anche tutte le aggregazioni laicali, le comunità, le confraternite. Non abbiamo voluto un cammino sinodale fatto dai quadri dirigenti, ma un cammino di popolo. Camminare insieme come popolo di Dio può essere l’inizio di quella che Mounier, un grande filosofo del Novecento, chiamava la rivoluzione comunitaria.
Una Chiesa che assuma la sinodalità come stile di vita diviene allergica al clericalismo e si rende più capace di ascoltare «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono», secondo le parole iniziali della Gaudium et Spes. Centinaia di persone si sono messe a disposizione per guidare e coordinare i gruppi di ascolto sinodale – ciascun gruppo è composto da un massimo di dieci persone, per favorire lo scambio personale e il clima di comunione -, dove ciascuno è chiamato a condividere la sua esperienza ecclesiale ma anche a mettersi in ascolto dell’altro.
È quella che la CEI ha chiamato fase narrativa del cammino sinodale. Ogni gruppo di consultazione sinodale viene moderato da un facilitatore che ha il compito di favorire la discussione, ma non di ingabbiarla. Lo Spirito soffia dove vuole! Non è un processo facile, perché ci sono tante pigrizie e la risalita dei contagi per il Covid non aiuta, ma nel dispiegarsi di questo cammino abbiamo incontrato anche tanto entusiasmo. Ho fiducia che da questo entusiasmo possa nascere quel cambiamento invocato dal Papa. Soprattutto, spero in un cambiamento di atteggiamento, per cui venga spazzata via quella mentalità vittimista che alcuni cristiani amano manifestare, come se fosse una forma di difesa da un mondo che non si capisce.
– Dalle parole che il papa ha pronunciato all’inizio del percorso sinodale deduciamo che è giunta l’ora, in quanto Chiesa, di interrogarci su cosa significhi camminare insieme come popolo di Dio in questo frangente della storia. Ciò ci indurrà a discutere francamente di morale sociale e sessuale, dell’esercizio del potere nel seno della Chiesa, del dialogo con gli uomini – religiosi o meno – che vivono nelle nostre stesse città, del futuro dell’umanità, della qualità della vita ecclesiale oggi, del coinvolgimento e raggiungimento dei cosiddetti “lontani”. Cosa dobbiamo aspettarci da questo percorso sinodale? È lecito nutrire grandi attese di cambiamento?
Non è solo lecito attendersi grandi cambiamenti. I cristiani devono promuovere cambiamenti radicali. Tu hai elencato alcuni temi che, probabilmente, emergeranno dal confronto. Altri se ne potrebbero aggiungere. Non ho risposte certe al riguardo, per fortuna. La storia è ricca di sorprese. Spero che dal cammino sinodale possa nascere una nuova simpatia verso il mondo. Simpatia è un termine chiave della Chiesa conciliare.
Mi ha sempre colpito come Paolo VI la usi per rivolgersi al mondo alla fine del Concilio: «L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo (Allocuzione del Santo Padre Paolo VI, 7 gennaio 1965)».
Non a caso, Francesco fa della parabola del Buon Samaritano il cuore dell’enciclica Fratelli Tutti, con la sua idea di amicizia sociale e di fraternità globale. Una rinnovata simpatia per il mondo genera anche una nuova grammatica della fraternità. Credo che continuare a parlare di “lontani” da raggiungere, secondo un vocabolario novecentesco, non tenga conto dei cambiamenti della società odierna e della fine del regime di cristianità. Non ci sono dei giusti che devono evangelizzare i lontani.
Ci sono uomini e donne di buona volontà che vogliono cambiare insieme il mondo e renderlo davvero un mondo Fratelli tutti. Per fare questo dobbiamo imparare a camminare l’uno accanto all’altro, promuovendo una fraternità larga, attorno ai temi che ci uniscono: la salvaguardia del creato, attuando un’autentica recezione della Laudato sii sul territorio; la difesa dei poveri, imparando a guardare con una nuova saggezza alle periferie delle nostre città e mettendo al centro la ricerca della giustizia sociale; il dialogo tra le generazioni, che significa dialogo tra giovani e adulti, certo, ma soprattutto tra giovani e anziani, perché educare ad uno sguardo d’amore sulle persone che invecchiano è fondamentale nella trasmissione della fede e nella costruzione di una società più umana per tutti.
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