Ringraziamo don Angelo Casati per aver regalato a Tuttavia.eu ed ai suoi lettori il testo integrale di una sua preziosa riflessione tenuta presso il Monastero di Bose lo scorso 27 ottobre 2013.
Ne pubblichiamo questa settimana la seconda parte.
di Angelo Casati
Ai tempi di Gesù purtroppo, ma forse anche oggi, e tanto nei circoli alti, c’è dominante una mentalità da confine. Starei per dire che per qualche aspetto non fu facile staccarsene nemmeno per Gesù. Permettete, anzi perdonatemi, che io legga con questa mia discutibile, discutibilissima interpretazione, un episodio del vangelo, con la conseguenza, immagino, di qualche rimprovero più che giustificato da parte che so io di Enzo e della stragrande moltitudine degli esegeti sani. Mi riferisco all’episodio della donna dei cagnolini.
Da dove veniva Gesù quel giorno in cui incontrò la donna cananea? Lui usciva dalla casa di un fariseo, usciva da una discussione durissima su puro e impuro, una discussione provocata dai suoi discepoli che mangiavano pane con mani impure. Esce e si dirige verso la terra degli impuri, Tiro e Sidone. Quasi volesse respirare aria nuova, fuori da quell’aria pesante. Dunque passi di sconfinamento. Secondo Matteo, prima che Gesù varchi il confine degli impuri si vede avvicinare da una donna cananea. Lei il confine lo ha già oltrepassato, la donna gli chiede un segno di compassione per la sua figlia tormentata da un demonio. Gesù dapprima resiste, fa come non la sentisse, poi reagisce dicendo che non si getta il pane ai cagnolini. E la donna a dirgli: “D’accordo, ma anche i cagnolini si sfamano delle briciole che cadono dalla mensa dei loro padroni”. Gesù ascolta la sapienza teologica di quella donna e sconfina. Per opera di donna. Passa, passa una volta per tutte il confine. Le dice: “Donna, la tua fede è grande”.
Sembra di capire che anche per Gesù non era stato facile. Per scoprire la grande fede, egli dovette – e dovremmo farlo anche noi, condizione preliminare! – dovette buttare alle spalle ogni pregiudizio, ogni incasellamento degli umani, ogni principio astratto e avvicinarsi. Togliere la distanza, guardarla e ascoltarla. Stare in ascolto della sapienza dei cagnolini.
A farlo sconfinare da un lato era la passione per Dio: voleva raccontare con la sua vita l’immagine di un padre, il suo, legato a un eccesso: fa piovere sul campo dei giusti e su quello degli ingiusti, sconfina. Ma a farlo sconfinare era anche la passione dell’altro, il desiderio di incontrarlo. E l’altro, se non esci, se non sconfini non lo incontri, dunque un bisogno di cuore. Che mi viene quasi sempre di ricordare quando leggo nel vangelo di Giovanni l’incipit del racconto dell’incontro di Gesù al pozzo di Sicar. Per arrivarci, per arrivare alla donna del pozzo, anche quel giorno sconfinò.
Anche quel giorno veniva da un’aria soffocante, irrespirabile. Da dove veniva? Dalle solite beghe clericali. Leggete i primi versetti del capitolo. Viene dalla Giudea. E di cosa si discuteva in Giudea? Del fatto che lui battezzava più di Giovanni. Meschinità, piccinerie, i soliti sondaggi. Il racconto dice: “Lasciò la Giudea e andò di nuovo nella Galilea. Doveva perciò attraversare la Samaria”. Stranezza del verbo: “doveva”. Non era una necessità di strada, era normale anzi che dalla Giudea alla Galilea si andasse non passando dalla Samaria, ma lungo il Giordano: viaggio più sicuro, tanto più per un giudeo che era guardato dai samaritani come un nemico e la cosa era reciproca. Eppure è scritto: “Perciò egli doveva attraversare la Samaria”. Era dunque un’altra necessità che lo spingeva, una necessità dettata dal di dentro e questo è bellissimo. Era una necessità dettata, potrei dire, dal cuore. Una necessità non geografica, ma di cuore.
Allungò a rischio, a rischio di insicurezza e di fatica, il viaggio per quella sua volontà di sconfinare. Sconfinare per ricerca, per ricerca di noi umani, la ricerca insonne di Dio che ha attraversato tutta la storia, finché ci ha trovati sulla croce. La fatica della croce. Ritornano alla memoria le parole del “Dies irae”, spesso evocate con paura e sgomento. Forse qualcuno di noi ricorderà, tra quelle parole, questa struggente preghiera, che potrebbe essere di ciascuno di noi, preghiera ispirata, penso, al brano che stiamo commentando:
Recordare, Jesu pie,
quod sum causa tuae viae,
ne me perdas illa die.
Quaerens me sedisti lassus,
redemisti crucem passus
tantus labor non sit cassus.
“Gesù, tu che sei compassionevole, ricordati che io sono causa del tuo viaggio: non mandarmi perduto in quel giorno. Nel tuo continuo cercarmi ti sei seduto stanco. Pur di redimermi hai patito la croce. Così grande fatica non sia inutile, Signore”.
Lo sconfinamento se è vero ha dentro a volte anche una fatica, una passione d’amore, a rischio non solo di stanchezza, ma di ferita.
Questo dirottamento di strade ci rimane come un pungolo nel cuore, perché viene a chiederci se anche noi come Gesù siamo, quasi per una necessità interiore, spinti, irresistibilmente spinti, ad andare fuori dai percorsi abituali, ad attraversare territori dello spirito giudicati spuri, presso pozzi in territori samaritani. “Per incontrare chi?” ti dicono i sedentari. “ Una donna dei cinque mariti”? Sì, la donna
Dei cinque marito.
Quando leggo il Vangelo provo questa impressione che dal Dio dello sconfinamento che era all’origine del messaggio cristiano siamo in qualche misura ritornati nella mentalità di quel gruppo, di quel gruppo intransigente che lo contrastava. Diciamo di difendere Gesù, il cristianesimo, ma mettiamo confini, sospettiamo su quelli che passano i confini.
Non è forse vero che dallo sbilanciamento di Gesù verso i cosiddetti lontani, siamo giunti allo sbilanciamento verso i vicini, non è forse vero che al comandando ampio, pensate quanto ampio del Signore, mandato sul monte a discepoli dubitanti “andate” siamo passati a una pastorale del “venite”, venite da noi? Una pastorale dei gruppi connotati dall’ansia dell’appartenenza al gruppo. Andate!
E’ rimasto qualcosa di questo sbilanciamento, vissuto da Gesù, nella chiesa? Non è forse vero che sino a qualche tempo fa eravamo sotto accusa per questo, perché frequentavamo quelli che erano fuori? A voi sembra che la chiesa sino a poco tempo fa fosse criticata come Gesù per il suo essere fuori dei confini? E’ un mio parere, discutibilissimo, ma leggendo in questi giorni un articolo dal titolo significativo. “Questo papa non ci piace”, mi sono sentito attraversare da un dubbio, questo: che l’astio avesse come origine ben meschina il fatto che il Papa avesse concesso l’intervista non a loro, i professionisti di Dio , ma, sconfinando, a un giornalista ateo. Non si può.
Di confini e di cristiani sui confini parlava già anni fa il card. Martini in un piccolo gioiello, una lettera sul tema della città, un libricino prezioso dal titolo significativo. “Alzati e va’ a Ninive, la grande città”, là dove scrive: ”Sono molti oggi a Milano coloro che ogni giorno silenziosamente passano l’arduo confine tra l’oscurità e la luce, tra la penombra e il calore del sole, come tanti sono quelli che nello stesso tempo passano silenziosamente la frontiera tra la verità e il buio, tra la certezza e l’incertezza, il dubbio, la sfiducia. La presenza di molte e volonterose guide, preti e laici, attenti alle frontiere della fede, scoprirà questi sconfinamenti, consiglierà gli smarriti, conforterà gli sfiduciati. Sui confini tra fede e incredulità si può attuare uno straordinario apostolato del dialogo, del confronto, dell’esempio”.
L’urgenza di uomini e donne del confine, come voi, radicati ma liberi, gente di frontiera, quasi una necessità del nostro tempo.
Per fedeltà a Gesù e al suo vangelo dobbiamo come singoli e come comunità riappropriarci dell’arte di Gesù: la cura dell’uomo e della donna che stanno sul confine o sulla soglia, o, se volete, nelle periferie che non è solo un termine geografico, ma esistenziale. Dove essere sui confini prima ancora che esserlo geograficamente, significa un esserci con la mente e con il cuore. Sto per dire che forse tutto dipende da uno sguardo, da come tu guardi l’altro, o l’altra: dal vuoto o dallo Spirito che li abita?
E allora vorrei chiudere queste mie riflessioni con una storia che forse dice meglio delle troppe parole fin qui usate, la storia di Alessia. Perché? Perché il suo viso mi si è affacciato mentre racimolavo pensieri. Che cosa l’aveva potata in parrocchia quel giorno, proprio lei che ai nostri ambienti ecclesiastici proprio non ci era abituata. Lei che non aveva nessuna frequentazione di preti. Non era battezzata e nemmeno lo è oggi. Mi chiese di parlarmi. E già è dono – penso che tutti voi conveniate – già è dono che qualcuno ti chieda di parlarti. Ancor più che un uomo, una donna, ti sveli il suo cuore. Sentiva dentro di se, mi disse, come un’attesa, un bisogno. E si eri chiesta se quello fosse un luogo in cui esplorare il bisogno, se la fede potesse avere a che fare con l’attesa da cui era abitata. Che la abitava e la metteva in cammino. Vi devo confessare che sono queste – e sono quasi quotidiane, non sono l’eccezione – le storie che mi emozionano. Arrivava da lontano. O da vicino? Come un giorno era successo ai Magi, scrutatori di stelle. Da lontano o da vicino? Loro venivano dall’Oriente. E dov’è l’oriente di un uomo o di una donna? E che cosa trovano nei nostri ambienti i cercatori di stelle, loro in cerca di qualcosa che abbia a che fare con un senso? Trovano brividi o pesantezze? Chissà perché, quando vedo arrivare i cercatori di stelle, anche uno solo, uno solo come lei, Alessia, mi prende dentro come un desiderio di protezione, di protezione dei semi che portano nel cuore, semi troppo spesso in pericolo di asfissia nei nostri ambienti.
Tra parentesi vi dirò che quando mi capitò per caso strano di parlare dei cosiddetti lontani, dei ricercatori di stelle, in un’aula di una facoltà teologica, mi parve di sentire nell’aria una sorta di compassione: il parroco non era attrezzato teologicamente, raccontava storie, storie di vita, si perdeva, come succede agli innamorati, dietro volti. Riposi quel giorno gli appunti in una busta trasparente, scesi le scale, portavo il peso delle mie ingenuità. Ma poi, fuori, all’aria aperta, testa dura, dice qualcuno, non mi riuscì di disamorarmi delle storie, che vengono guardate con distanza e sufficienza dentro le aule asettiche del sapere, aule che meritano ben altro. Le storie hanno il difetto di non essere nella forma delle sistemazioni didattiche, sono nella forma della vita, sono cammini al sole. Sconfinano. Ebbene quel giorno fuori, all’aria aperta, per reazione forse, sentii farsi ancora più prepotente in me un desiderio di protezione nei confronti dei cercatori di stelle. Che siano protetti da asfissia, da pesantezze, da corte visioni.
Come al contadino a volte succede anche a noi di scrutare atterriti le nubi alte nel cielo. Ci succede di guardare in alto e di augurarci che non sia scroscio a devastazione di steli e germogli, non sia aria amara di crociate e dogmatismi, di esclusioni e condanne, vento di tempesta dai cieli. Abbiamo visto come anche Gesù si trovò spesso a difendere dal gelo della rozzezza e della miopia gli inizi dei cammini dello spirito. Ci sono passati nella memoria volti e volti del vangelo.
Ritorno a Alessia. Che cosa avrei potuto proporre a una ragazza come lei, abitata da un’attesa se non
Mi chiederete di Alessia, non è ancora battezzata, ma da qualche anno si è aggiunta a un gruppo di giovani coppie che si raduna una domenica al mese, sarà la prossima, a leggere pagine della Bibbia. Se le poppate del suo ultimo bambino glielo consentiranno – sì, perché da qualche anno si è sposata – sì, se le poppate glielo consentiranno, se il suo impegno di lavoro non la frenerà lontano, lei ci sarà.
E dov’è il confine? Dove passa il confine?
per leggere la prima parte dell’articolo, clicca qui
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