Polemiche per il Giorno della Memoria
Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale, celebrata il 27 gennaio di ogni anno, per commemorare le vittime della Shoah. A istituirla è stata l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione 60/7 del 1 novembre 2005. Con essa si è voluto non soltanto garantire il ricordo del genocidio dei sei milioni di ebrei sterminati dai nazisti, ma anche – come si dice all’art. 2 della legge n.211, con cui la giornata è stata introdotta in Italia – assicurarsi «che simili eventi non possano mai più accadere».
È questo secondo e fondamentale scopo della celebrazione che quest’anno, segnato dalla guerra di Gaza, l’ha resa oggetto di amare polemiche. Già in passato, a dire il vero, qualche problema era sorto. Come nel gennaio 2022, quando Moni Ovadia, uno degli artisti ebrei più famosi d’Italia, lanciò l’iniziativa, a Ferrara, di una “Settimana delle Memorie”, in cui ricordare tutti i genocidi compiuti nel ‘900, da quello degli armeni ad opera dei turchi a quello dei tutsi in Ruanda. Un’idea che non era piaciuta al presidente della Comunità ebraica della stessa città, Fortunato Arbib. «Il rischio», aveva obiettato Arbib in un comunicato, «è che con il Festival si abbia un effetto di banalizzazione, di diluizione e di spettacolarizzazione di una tragedia unica per finalità, dimensione sia numerica che territoriale, modalità e scientifica ferocia».
Ma più ancora della banalizzazione, ad essere temibile, secondo Liliana Segre – una delle ultime superstiti viventi di Auschwitz – sarebbe l’abitudine: «So cosa dice la gente del Giorno della memoria. La gente già da anni dice, “basta con questi ebrei, che cosa noiosa’”», notava la senatrice alla vigilia della giornata nel 2023. «Il pericolo dell’oblio c’è sempre (…). Tra qualche anno sulla Shoah ci sarà una riga tra i libri di storia e poi più neanche quella».
Per non parlare dello squallido fenomeno del negazionismo, per cui c’è addirittura che sostiene, contro ogni prova storica, che l’Olocausto in realtà non è mai avvenuto ed è un’invenzione degli ebrei. Una presa di posizione che, secondo una sentenza della Corte di Cassazione del 2022, «integra il reato di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico».
Non c’è paragone, tuttavia, tra quanto ha potuto turbare il clima del Giorno della Memoria negli anni scorsi e il clima rovente in cui si svolge in questo 2024. Ne è un segnale evidente l’invito, chiaramente provocatorio, rivolto su HuffPost da un noto giornalista, Pierluigi Battista: «Un consiglio: disertate le manifestazioni ufficiali del Giorno della Memoria celebrate da chi non dice una parola sulla caccia all’ebreo che sta funestando il mondo intero dopo il 7 ottobre. Dai professionisti del “mai più” che fanno finta di non accorgersi che siamo in un clima fetido da “ancora una volta”. Da chi non ha nulla da obiettare (…) a chi vuole distruggere lo Stato ebraico».
In questo contesto è scoppiata la polemica per la manifestazione pro-Palestina indetta a Roma per il 27 gennaio da Movimento degli studenti palestinesi. Suscitando le proteste del presidente della Comunità Ebraica, Victor Fadlun: «Sarebbe una sconfitta per tutti. Non capiamo come sia stato possibile concedere l’autorizzazione in una ricorrenza che è internazionale e per di più dopo il massacro antisemita del 7 ottobre. Alle istituzioni, nazionali e locali, chiediamo di impedire questa vergogna».
Da parte loro, gli organizzatori hanno rivendicato il senso della loro iniziativa, volta a «smascherare le incoerenze e le ipocrisie di un sistema che si batte il petto per le vittime di un genocidio già avvenuto, mentre volta lo sguardo indifferente e complice di un genocidio in corso».
La risposta del ministero degli Interni, Matteo Piantedosi, è stata una circolare alle questure di tutta Italia in cui ha invitato non a vietare, ma a rinviare ad altra data i cortei in sostegno alla popolazione palestinese organizzati per sabato 27 gennaio.
Il punto di vista dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Per capire e spiegare questi contrasti bisogna risalire alla diversa – anzi opposta – visione di quanto si sta svolgendo in questi mesi in Palestina e sul modo in cui la comunità internazionale sta reagendo ad essa.
Per Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI), la data fondamentale in cui si riassume tutto ciò che sta accadendo è il 7 ottobre, il giorno dell’attacco spietato di Hamas.
«Non abbiamo ancora trovato un nome univoco per far comprendere l’orrore che si è abbattuto su tutto il popolo ebraico, ha scritto la Di Segni. «Il 7 mattina è cambiato il nostro destino, è cambiato il mondo, e nulla può tornare come prima».
Questo strazio è accresciuto, secondo lei, «dal silenzio di chi dovrebbe denunciare l’accaduto: «Silenzio dell’ONU per le sevizie contro bambini e neonati, violenze e torture sulle donne, rapimento di civili e la lista è lunga. Silenzio della Croce Rossa che non lamenta o non prova a visitare ed accertare la situazione degli ostaggi. Silenzio di tutte le Ong di difesa diritti umani per quanto avvenuto il 7 ottobre e per quanto sta accadendo in questi giorni in molte nostre comunità in tutto il mondo. In parallelo al silenzio assordante, ci sono gli slogan urlati da chi difende in modo superficiale e demagogico il popolo palestinese e attacca gli interventi di difesa dell’esercito israeliano».
Segue l’invito a «far cessare gli appelli umanitari diretti unicamente verso Israele, un paese che agisce secondo morale e non si è sottratto alle norme internazionali». Infine, la conclusione della presidente dell’UCEI: «L’antisemitismo è tutto questo. Non è mai sopito e si è presentato in questi trenta giorni con il volto del terrorismo radicale e l’abbraccio europeo dell’ignoranza e l’ottusità dilagante».
In queste parole è evidente il richiamo al pathos della Shoah e , legato a questo, l’identificazione della causa dell’ebraismo con quella dello Stato ebraico. L’antisemitismo sarebbe evidente nelle critiche di chi «attacca gli interventi di difesa dell’esercito israeliano» e il governo di Tel Aviv, «che agisce secondo morale e non si è sottratto alle norme internazionali».
Ma i fatti dicono altro…
Bisogna capire e rispettare lo stato d’animo di chi rivive nella tragica vicenda del 7 ottobre una storia del passato che sembra riprodursi nel presente. Ma ci sono dei fatti incontestabili che contrastano nettamente con la versione che ne dà la Di Segni.
Primo fra tutti non è vero che l’ONU, la Croce Rossa e le varie Associazioni internazionali abbiano taciuto. A cominciare dal segretario generale dell’ONU, Guterres: «Ho condannato in modo inequivocabile gli orribili e inauditi atti di terrore compiuti da Hamas il 7 ottobre in Israele. Nulla può giustificare l’uccisione, il ferimento e il rapimento deliberato di civili – o il lancio di razzi contro obiettivi civili. Tutti gli ostaggi devono essere trattati umanamente e rilasciati immediatamente e senza condizioni».
Al tempo stesso, però, ha continuato, «è importante riconoscere che gli attacchi di Hamas non sono venuti fuori dal nulla. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione». Certo, ha concluso «le rimostranze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas». Ma, a loro volta, questi terribili attacchi non possono giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese».
Significativa la reazione furibonda dell’ambasciatore israeliano all’ONU: «Il segretario generale dell’ONU, che mostra comprensione per la campagna di sterminio di massa di bambini, donne e anziani, non è adatto a guidare l’ONU. Lo invito a dimettersi immediatamente». È la linea della Di Segni.
Chiunque accenni alla storia di violenze – documentate e innegabili – che prima del 7 ottobre hanno esasperato lo scontro fra israeliani e ed arabi – non certo per giustificare la strage di Hamas, ma per capirne l’origine – , è accusato di “tacere” sulla gravità di quella strage.
Così come, secondo la presidente dell’UCEI, “tace” chiunque fa notare che la razione di Israele è stata molto di più che un’operazione “di difesa” – come a lungo anche la stampa e i governi occidentali hanno sostenuto – e ha configurato piuttosto un massacro indiscriminato di persone (quasi 26.000 civili, per gran parte donne e bambini, uccisi nei primi tre mesi e mezzo); una deportazione in massa dal nord al sud e un taglio delle risorse alimentari, energetiche e sanitarie; una sistematica distruzione di abitazioni, di scuole, di moschee, di uffici, di ospedali; una altrettanto sistematica e deliberata devastazione dell’ambiente (inquinamento delle falde idriche, desertificazione del territorio, che lo ha reso di fatto inabitabile). Anche dopo questo – non solo per la strage del 7 ottobre – «è cambiato il mondo, e nulla può tornare come prima!
A confermare la gravità di quanto sta accadendo è la sentenza del Tribunale penale internazionale dell’Aia che, proprio alla vigilia del Giorno della memoria, ha chiesto a Israele di adottare «le misure necessarie per evitare un genocidio», riconoscendo così la plausibilità della gravissima accusa rivolta a Israele dal Sud Africa. Significativa la reazione del ministro della sicurezza israeliano Itamar Ben Gvirha, che ha definito la Corte dell’Aia «antisemita».
In realtà, ad essere assordante è stato il silenzio dei governi occidentali su questo massacro. Anche se ultimamene perfino loro hanno cominciato a mostrare un certo disagio. Significativo, a questo proposito, lo sfogo dell’alto rappresentante dell’Unione Europa per gli Affari eteri, Joseph Borrell: «La situazione umanitaria a Gaza non potrebbe essere peggiore, non c’è cibo, medicine e le persone sono sotto le bombe (…). Non è il modo di condurre un’operazione militare, e lo dico nel rispetto delle vittime del 7 ottobre».
Celebrare il Giorno della Memoria non può significare legittimare la politica e il modo di condurre la guerra dello Stato ebraico. Si può discutere sui cortei, ma non sul fatto che rimpicciolire questa ricorrenza, riducendola a una consacrazione delle pretese ragioni di uno Stato che sta mostrando il suo volto peggiore, significa tradire le stesse vittime della Shoah, che hanno diritto di essere ricordate non per un presunto collegamento con quello Stato, ma perché esseri umani. Come i palestinesi.
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